venerdì 30 gennaio 2015

LUCIO FONTANA: CONCETTO SPAZIALE - ATTESA

In un taglio "il mistero che è proprio delle vere opere d'arte".


Tela di 93 x 73 cm. Cornice di 1161 x 982 x 86 mm.
Tate Gallery, Londra


“Ma io, a sta roba ci sputo addosso”.  Lo ha detto, e lo ha fatto davvero.  Chi? Forse un ragazzino in gita scolastica, pieno di adolescenziale sicumera: “E che ci vuole a fare una schifezza così?”.  Forse, un quasi distinto padre di famiglia, fremente d’indignazione: “E a me mi tocca lavorare. A me”. Sconosciuto il colpevole, incerta la data,


ma sicuro il luogo del delitto: la Galleria nazionale di arte moderna di Roma, i cui addetti ne hanno scoperto la traccia, o macchia, nel febbraio 2010.  La vittima, "quella roba”, era  Concetto spaziale – Attese: uno dei “tagli” (in quel caso cinque, verticali, su una tela dipinta di bianco) che hanno fatto entrare Lucio Fontana nella Storia dell’Arte.
Un incidente di minor conto, di cui però si occuparono tutti i giornali, attribuendo l’insulto all’ignoranza; se non altro del valore economico del quadro. Non si sputa, insomma, su una decina di milioni di Euro. Da parte mia temo che proprio la conoscenza di simili quotazioni abbia riempito di sdegno quel visitatore. Questa e la presunzione di sapere come debba essere fatta un’opera d’arte; il possesso di canoni(certo poco raffinati)  nei quali Concetto spaziale non poteva trovare posto.

Canoni e presunzione, se li possediamo, che faremo bene a mettere in disparte anche noi, avvicinandoci a quel quadro o a quest'altro, che porta lo stesso identico titolo, solo volto al singolare, Concetto spaziale – Attesa, esposto alla Tate Gallery di Londra. Titolo importante, quindi, lungamente meditato dall’artista, che lo assegnò a tutti i suoi quadri di quel ciclo, e che invece faremo bene a tenere a mente. Assieme a questo, ci serve sapere ben poco altro. Di certo possiamo lasciarci alle spalle il nostro bagaglio iconografico. Fontana ci chiama ad un’interpretazione, ma non di tipo ermeneutico; piuttosto simile a quella che operiamo quando ascoltiamo un brano musicale. Una fuga di Bach, per esempio, capace di dire anche attraverso i secoli; sempre diversa, a volte solo ineffabilmente, per ogni ascoltatore e ad ogni ascolto. Un’interpretazione che può anche assumere la forma di un pensiero compiuto, ma fatto emergere da stimoli che agiscono su quanto abbiamo di più profondo; che operano oltre il confine del dicibile.

Può invece motivarci all’ascolto, o in questo caso alla visione, e ad investire l’opera del nostro tempo e della nostra attenzione, sapere qualcosa in più sul suo autore. Tenere a mente che quel quadro è stato realizzato nel 1960, e non può che essere figlio di quell’epoca, ma non da un giovane ribelle che se n’è uscito, chissà come, con la “pensata giusta”. Che è il punto di arrivo del lungo percorso di un artista che era già grande prima di prendere una lama e dare quel taglio.

Un percorso di vita cominciato in Argentina, dove Lucio Fontana è nato, da genitori italiani, nel 1899.  Suo padre è uno scultore e lì, nella sua bottega, Lucio comincia a fare arte. Nel 1927, torna in Italia, dove era già stato prima della Grande Guerra. Va a Milano, e deve avere dei solidi fondamentali: viene ammesso all’Accademia di Brera e, soprattutto, entra nella bottega di quel mostro di capacità tecniche che era Adolfo Wildt. Negli anni trenta, Fontana si  muove tra Francia e Italia, affiancando la pittura alla scultura in bronzo e alla ceramica. Nel 1936 entra nel gruppo parigino Abstraction-Création. Resta, però, fondamentalmente un espressionista, e nel 1939 si unisce al gruppo Corrente di cui fanno parte, tra, gli altri, Manzù, Vedova, Guttuso e Morlotti.

Nel 1940 è di nuovo a Buenos Aires, dove fonda l’Accademia Altamira. E’ un momento importante nello sviluppo della sua arte. Le sue sono lezioni-riflessioni, tanto dense di idee da ispirare ai suoi studenti la pubblicazione, nel 1946, del Manifesto Bianco. Nel documento, che Fontana non firma, ma a cui contribuisce in prima persona, si legge: “Materia, colore e suono in movimento sono i fenomeni che, con il loro sviluppo simultaneo, determinano la nuova arte”. Parole che sembrano uscire da un manifesto Futurista? Non è un caso: Fontana quei manifesti li ha letti. Ammira, e lo dichiara in numerose occasioni, soprattutto Boccioni. Sono idee nuove le sue, ma non arrivano dal nulla. E non finiranno in nulla. Costituiranno il nocciolo teorico che dal suo ritorno in Italia, svilupperà in quattro successivi manifesti dello Spazialismo e in un Manifesto tecnico dello Spazialismo (certo, anche questo titoloecheggia Boccioni)  pubblicati tra il 1947 e il 1952.

Spazialismo come erede del Futurismo? In comune tra i due movimenti c’è l’attenzione agli sviluppi della scienza e della tecnica e a come questi modifichino la nostra coscienza, prima di tutto dello spazio. Lo Spazialismo nasce, però, a due guerre mondiali di distanza dal Manifesto di Marinetti: nei suoi documenti non vi è la minima traccia della retorica militarista dei futuristi. Soprattutto giunge mentre i primi razzi già volano, dando un significato del tutto nuovo alla parola spazio, e dopo che l'esplosione di due bombe atomiche ha mostrato a tutti come la materia sia composta da particelle; come, sotto l'apparenza di una superficie, si nascondano impensabili forze e tensioni. Ai futuristi, primi figli dell’era delle macchine, poteva bastare rappresentare, nelle proprie opere, le interazioni tra spettatore, velocità e spazio. Fontana vuole-deve andare oltre. Rappresentare quel che gli occhi vedono gli non basta più. Vuole-deve arrivare ad un’arte che determini un proprio spazio, diverso da quello, comunque alterato, della realtà fenomenica. Per giungervi Fontana usa anche nuovi mezzi, come le lampade al neon e di Wood delle sue ambientazioni. Soprattutto porta fino al limite delle loro possibilità espressive, i mezzi della tradizione. Scava nella perfezione parmenidea della sfera, per arrivare ad una scultura dove non esista distinzione tra spazio interno ed esterno, nella serie delle Nature. Buca, anzi crivella di fori, la sacra superficie della tela di grandi quadri monocromi: i primi che chiama Concetto spaziale. Un nome che dice tanto del suo volere “un arte per l’era spaziale” quanto del suo tentativo di far acquistare alla pittura, pur restando pittura, delle nuove dimensioni.

Un’altra idea nuovissima eppure antica. Tanto quanto la pittura barocca, che  Fontana ammirava appunto perché capace di creare figure che paiono vivere dentro un proprio spazio. Un’idea su cui Lucio Fontana continuò a lavorare fino ad arrivare a tagli come questo. Sarà vero quel che racconto Otto Piene? Stavano preparando una mostra, nel 1958, e uno dei quadri di Fontana arrivò rovinato dal trasporto. Tanto che, irato, Fontana lo squarciò con un fendente, salvo poi restarsene lì, immobile, a fissare  quel che aveva fatto. Il primo Taglio, insomma, sarebbe nato così. Poco importa. Croce scrisse che “l’arte è intuizione”. (A dire il vero una frase che, citata fuori contesto, è tra le più perniciose). Picasso disse “nell’arte non si cerca ma si trova”. Nessuna contraddizione, tra loro, basta pensare che  l’arte sia intuizione che si trova facendo arte; che ci si merita lavorando.

Intuizione geniale, e arrivata dopo almeno un decennio di riflessioni, questa che a portato Fontana a ripetere coscientemente quel gesto in centinaia di opere Anche in quella che abbiamo davanti, che realizzò nel 1960. Ha senso descriverla? Un taglio quasi verticale attraversa una tela senza tracce di colore. (Un esempio estremo dell’arte Fontana: di solito le Attese sono uniformemente campite, di rosso, giallo o altre tonalità, con coloranti all’anilina). Attorno alla tela, sta una cornice, scelta dall’artista. Punto. Non c’è altro. I valori spaziali del taglio sono evidenti. Così la sua drammaticità e che conservi una precisa traccia del gesto deciso dell’artista. “L’arte muore ma è salvata dal gesto”, scrisse nel 48 lo stesso Fontana, che può certo definirsi anche artista gestuale.

Il resto è lasciato alla nostra contemplazione. E non una caso che proprio Arte e contemplazione è il titolo di una mostra tenuta a Palazzo Grassi nel 1961 dove, ancora non a caso, con le sue opere erano esposti dipinti di Mark Rothko e Sam Francis. E contemplando, e ripensando ai rapporti tra Fontana  e il Barocco, vedremo Las meninas uscire dallo squarcio? Probabilmente no, anche se forse Fontana non si opporrebbe se nominassimo Velázquez spazialista ad honorem. Credo pure che non tutti vedranno in quel taglio una porta verso un’altra dimensione, come che pochi lo vorranno addebitare alla “nascosta energia della materia”, come vogliono altri esegeti di Fontana. E il taglio in sé? Quanti lo vedranno come una ferita? Quanti come  un’allusione al sesso femminile? E il nero della seconda tela, posta dietro a quella principale, che si scorge attraverso il taglio? Qualcuno vi intravederà davvero “i bagliori del vuoto cosmico”? Semplicemente non credo sia possibile fornire chiavi ad un’interpretazione che, nel senso che ci siamo detti, non può che essere del tutto personale. Si può stabilire che cosa si dovrebbe provare davanti ad un alba o vedere dentro ad un tramonto? E ancora, qual è il vero tema di tutto il lavoro di Fontana? “Il mistero”, ha scritto giustamente Guido Ballo in Lucio Fontana. L’uomo e l’opera, il catalogo della mostra tenutasi a Zurigo nel 1985, “il mistero che è sempre evocato dalle vere opere d’arte”.

Un mistero che non si spiega a parole. Vere opere d’arte , quelle di Fontana, che possono piacere o no, che possono dire tanto o poco, ma con cui, soprattutto se si è artisti, ci si deve confrontare. Si può oltrepassare quello squarcio, uscire dalla pittura e invadere il mondo con le proprie istallazioni. Lo si può ricucire, riprendere in mano i pennelli e tornare a dipingere, come si fa dagli albori dell’umanità. Anche questa una scelta che spetta ad ognuno.

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