Levi, Rigoni Stern e le nostre migliori lettere.
DiSchüler, Senza titolo. Tecnica mista su carta. |
Si tratta di opere scritte da persone
tutt’altro che semplici e spesso dalla grande cultura, con buona pace di chi,
per solito senza averle lette, vorrebbe liquidarle come testimonianze naïve,
aventi un valore più che altro etnografico o al massimo storico e certo non
letterario. Sono invece letteratura della più alta e vera proprio perché, nate
dal bisogno morale di rendere testimonianza, pongono in secondo piano vezzi e
pretese; perché sono state scritte, prima d’ogni altra cosa, per raccontare.
Non solo. Nel caso di Levi e del mio
amato Rigoni Stern (e chissà che altro ci avrebbero dato Fenoglio e Pavese se
fossero rimasti più a lungo tra noi) le opere scritte nell’immediatezza del
disastro, con il corpo e lo spirito ancora segnati dal gelo di Russia o dalla
brutalità del campo di concentramento, non dicevano tutto, ma lo dicevano già
al meglio. Sono state, se pure potevano avere dei difetti, le solide fondamenta
di edifici letterari formidabili.
Levi è ormai patrimonio dell’umanità,
seppure resti sottovalutato, e sconosciuto fuori d’Italia, quanto ha scritto che
non riguardi l’universo concentrazionario.
Del valore assoluto di Rigoni Stern,
invece, pare che ce ne siamo accorti ancora in pochi, nonostante basti leggere
uno qualunque dei suoi libricini ambientati sull’Altipiano, e tra i suoi
boschi, dimenticando quel che pensiamo di sapere sull’autore del Sergente,
per accorgersi di avere a che fare con qualcuno di tanto genuino e raffinato,
diretto e profondo, quanto il Céchov delle Lettere dalla Siberia.
Di più ancora; di avere tra le mani
le opere di un profeta della memoria; piccole e dure pietre da utilizzare per ricostruire
nei prossimi anni che, temo, saranno difficili quanto il suo Anno della
vittoria.
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