Nudo rosso di Amedeo Modigliani. Olio su tela, 60 x 92 cm. Milano, collezione privata. |
E’ oggi il suo quadro più celebre. Lo
dipinse tra l’autunno del 1917 e i primi mesi del 1918, probabilmente in una
stanza dell’appartamento di Léopold
Zborowski. Soldi per continuare ad affittare uno studio non glie ne restavano e
Leo il polacco, prima di essere un poeta e un mercante d’arte, era un suo
amico. Lei sulla tela non c’è, ma certo sarà stata lì a guardarlo lavorare.
Si
conoscevano solo da qualche mese, ma erano inseparabili. Era un grande amore,
il loro. Grande e tragico. Di quelli che sembrano usciti da un romanzo o che
finiscono poi in un film, magari di quelli che sanno fare solo i francesi,
sotto il cielo di Parigi, che riesce ad essere così struggente quando, tutto
basso e grigio, se ne resta appeso alle guglie di Notre Dame.
Il suo nome è Jeanne; Jeanne Hébuterne.
E’ bellissima, con un volto dall’ovale perfetto, ma forse non lo sa e certo non se ne cura. Vorrebbe fare la pittrice. Forse, però, è solo
un vago sogno: non ha neppure vent’anni; è ai primi passi nelle vita, prima
ancora che nell’arte.
Lui è più vecchio, ha 34 anni, ma non necessariamente più maturo. Ha fama di
donnaiolo, beve con una spugna, soprattutto assenzio, e si droga. Non bastasse
questo, è anche tubercolotico. Insomma, un personaggio che vorreste girasse al
largo da vostra figlia. E la famiglia di Jeanne ha provato eccome a convincerla
a lasciarlo, ma non ci è riuscita. All’anagrafe si chiama Amedeo Modigliani, ma
lei lo avrà chiamato Modì o, forse, Dodò. A Parigi lo conoscono con uno di
questi due nomignoli; specie con il primo, che suona un po’ come maudit, maledetto. E lui a Parigi
conosce tutti, perlomeno nel mondo dell’arte.
Non che questo significhi che abbia
successo. Anzi. Vive di espedienti. In cambio di un bicchiere, ritrae agli
avventori dei bar. Se non altro ci mette davvero poco; gli bastano quattro
linee per cogliere l’essenza di una persona. E’ anche ironico; firma queste sue
opere: “Modigliani. Dessins à boir”.
I suoi compagni di bevute? Altri artisti come lui: Maurice Utrillo e soprattutto
Cahim Soutine, un ebreo russo, anzi lituano, che è arrivato a Parigi nel ’13 ed
è diventato il suo migliore amico. Modì,
invece, è in città dal 1906. Prima, aveva sempre vissuto in Italia.
E’ nato là, a Livorno, il 12 luglio
1884. Anche suo padre, Flaminio, è italiano; un romano, ebreo ma non osservante,
borghese per estrazione, ma purtroppo assai poco portato per gli affari. Per
fortuna ha sposato una donna in gamba; Eugénie Garsin, marsigliese, capace di
fondare una scuola privata e di guadagnare abbastanza da far crescere i loro
quattro figli. Non abbastanza, però, da consentire ad Amedeo, il più piccolo,
che giovanissimo già mostra uno straordinario talento per il disegno, di seguire
fin da subito dei corsi d’arte di alto livello. E’ sempre lei, però, che riesce
a convincere Guglielmo Micheli, allievo di Fattori e pittore tra i più
affermati di Livorno, a prenderlo a bottega. Amedeo ha 14 anni ed è appena
sopravvissuto al suo primo incontro con la tubercolosi. Da Micheli apprende le
basi della pittura; nel suo studio ha l’opportunità di conoscere altri
macchiaioli, a cominciare da Silvestro Lega e dallo stesso Giovanni Fattori.
Sono i primi ad influenzarlo; i primi tra i tanti grandi nomi che
attraverseranno la sua vita.
Nel 1902 se ne va a Firenze. Per
studiare alla Scuola libera di Nudo,
dicono le biografie. Soprattutto per compiere quel pellegrinaggio agli Uffizi
che sogna fin da bambino, penso io. L’anno dopo è a Venezia. A bere, fumare i
primi spinelli e a frequentare l’ Istituto
per le Belle Arti.
Ci resta tre anni poi, appunto, va a Parigi.
Senza soldi fin da subito, si sistema a Montmartre, in una comune per artisti, Le
Bateau-Lavoir. Soprattutto
scolpisce, nei suoi primi anni francesi. Teste dai lunghi colli e dai lunghi
volti. Volumi e lineamenti semplificati,
nell’arenaria grigia, attento alla lezione dell’arte africana che ama, anche
filtrata da Brancusi, che conosce ed ammira.
Solo dal 1915 si dedica esclusivamente
alla pittura. E’ Leo, preoccupato che la polvere dia il colpo di grazia ai suoi
malconci polmoni, a convincerlo a lasciare gli scalpelli. Da allora, completa
circa 300 oli. Pochissimi paesaggi; molti ritratti. Tanti di Jeanne, da quando
l’ha conosciuta. Tanti dei colleghi: Soutine, ovviamente, e con lui, per citarne alcuni, Diego Rivera, Juan Gris,
Max Jacob e, certo, Pablo Picasso.
Dipinge anche alcuni grandi nudi.
Nessuno più scandaloso di questo.
“Osceno”, anzi, urla qualcuno tra il
pubblico della prima ed unica mostra dei propri dipinti che riesca ad
organizzare, “vergognoso”. Tanto da spingere il capo della polizia, presente
nella sala, ad imporre a Berthe Weil, la
proprietaria della galleria, un’altra amica di Leo, di rimuoverlo.
Cosa può avere tanto turbato quei
parigini? Me lo chiedo. Quel ciuffetto di peli pubici? Non credo; era già
passato mezzo secolo da quando Courbet aveva esposto il suo L’origine du monde. E di nudi se ne sono
sempre dipinti, peli compresi. Basti pensare al pube della Maya desnuda, l’opera a cui Modigliani potrebbe essersi ispirato.
Certo che la modella di Goya, seppure di un nulla, pare torcere le gambe, in un
accenno di modestia, mentre quella di Modì non fa nulla per coprirsi. Non fa
proprio niente, anzi. Neppure ci osserva, come fa la Maya con il suo sguardo
malizioso. Forse sono proprio quei suoi occhi, perduti chissà dove, a
scandalizzarci. La sua indifferenza. Il restarsene lì tutta nuda, non per noi,
ma nonostante noi. Senza offrirsi come senza nascondersi. Sfrontatissima; tanto
da non accorgersi neppure che noi esistiamo. Noi che invece non possiamo
ignorarla. Il suo corpo attraversa tutto il quadro, da un angolo all’altro. E
la sua pelle è così … così vellutata. Non si vede, questo, dalle fotografie, ma
chiunque abbia visto un’originale di Modigliani, quel modo tutto suo di
stendere il colore, specie proprio degli incarnati, sa cosa di cosa parlo.
E poi è così bella. Di una bellezza
fatta non di dettagli, ma di un insieme armonico di forme; di raffinate,
allungate, affusolate, “astrazioni anatomiche”. Una bellezza senza tempo, come
quella delle statuette cicladiche che Modì pure amava. Quella che abbiamo
davanti agli occhi non è la rappresentazione analitica del corpo di una donna,
ma la raffigurazione poetica di una femminilità eterna; quasi di un’idea
platonica di sensualità. Un’idea resa, prima di tutto, dalle linee che ne delimitano
il contorno. Linee che fluiscono quasi senza interruzioni; morbidissime, dolcissime.
Indisturbate; che non debbono ripiegarsi a descrivere mani e piedi che, non a
caso, restano fuori dal quadro. A volte sottile come un filo, a volte spesso e
nero da parere quasi espressionista, Modì traccia sempre il contorno delle
proprie figure. Un’eredità del suo mestiere di scultore. La scultura comincia
dal disegno, e lui è un disegnatore straordinario; la sua mano, e basta
guardare da vicino una sua matita per rendersene conto, è di fermezza e sicurezza
senza paragoni. Un debito verso Toulouse-Lautrec, dicono i manuali; gli stessi
che vedono nella sua pittura l’influenza di tutti o quasi i pittori che ha
conosciuto o di cui ha visto le opere, da Matisse, per le campiture, a Cezanne.
Contorni e linee, dico io, che pure queste influenze non nego, che arrivano
dritti dalla Toscana; prima di tutto, proprio assieme ad una certo ideale di
bellezza, da Botticelli.
Argan non riconosce in Modigliani nulla
di italiano. Solo attribuisce alla sua italianità, e alla scarsa penetrazione
della cultura romantica nel nostro paese, la sua resistenza verso il cubismo, visto
come un “ritorno all’ordine”. Bella
logica; soprattutto pensando a Picasso e a quanto tardo fu il Romanticismo
spagnolo. Preferisco pensare che Modì restò lontano dagli ismi, pur
conoscendone tutti i protagonisti, perché, esattamente come Hopper, che
potrebbe aver incrociato per le strade di Parigi, aveva già una sua visione
della pittura; una sua poetica, capace di evolversi, ma non rinunciare ad essere
sé stessa.
Non solo. Ammiro quelle sue linee, vedo la sua tavolozza quasi tutta di terre,
che pare rubata ad un pittore d’affreschi del primo Rinascimento, e considero
Modigliani un artista assolutamente italiano; la sua pittura, come quella di
Morandi, un condensato della storia della nostra.
E anche quel grande nudo, capace di
suscitare tanto scandalo neppure un secolo fa e che oggi varrebbe decine di
milioni, se la collezione milanese che lo ospita lo mettesse sul mercato, continua
a sembrarmi dipinto da un toscano. Da un italiano, come ce ne sono ancora
tanti, che ha riempito una valigia dei propri sogni e talento per andare in una
delle capitali del mondo a cercare fortuna.
Una fortuna che lui, Modì, non trovò. Dopo
quella mostra senza successo, non visse neppure due anni. Da Jeanne ebbe una
figlia, che fece in tempo a tenere tra le braccia, ma se ne andò, stroncato
dalla tubercolosi, il 24 gennaio 1920, quando lei era di nuovo incinta, al nono
mese di gravidanza.
Jeanne Hébuterne non restò sola. Lo
seguì. Il giorno dopo. Buttandosi dal quinto piano.
Dal 1930, quando la famiglia di Jeanne
ha finalmente accettato che così fosse, sono sepolti uno accanto all’altra, nel
cimitero del Père-Lachaise, sotto
quel cielo di Parigi, che riesce ad essere così struggente quando, tutto basso
e grigio, se ne resta appeso alle guglie di Notre
Dame.
P.S Fino al 15 febbraio, al Palazzo Blu
di Pisa, resta aperta la mostra Amedeo Modigliani et ses amis, con opere dello
stesso Modigliani e di alcuni degli artisti che frequentava a Montparnasse, tra
cui Brancusi e Derain. Invidio chi avrà modo di visitarla.
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