domenica 11 gennaio 2015

T'AMO, COME LO STERCORARIO LA SUA PALLINA.

Una breve riflessione sul paragone in poesia.




“Come veltri ch’uscisser di catena”, rende con ammirevole economia la frenesia delle “nere cagne, bramose e correnti” di cui è piena la selva del tredicesimo canto dell’Inferno. Così sono i paragoni dei grandi poeti, strumenti per aumentare la suggestione d’un verso grazie ad un’immagine o ad un suono.

As an umperfect actor on the stage, Who with his fear is put beside his part”, Come imperfetto attor in scena, Che paura da sua parte tolle, e poi “Or some fierce thing replete with too much rage, Whose strength´s abundance weakens his own heart”, O come fiera belva d’ira piena, Cui troppa forza il cuor fa molle.  Sono versi di Shakespeare che, nel suo XXIII sonetto, infila due paragoni uno sull’altro per dire delle esitazioni dell’amante che si dichiara; facendolo ci dà però due immagini potenti e allo stesso tempo necessarie, non traducibili con semplici aggettivi.
Anche a questo serve il paragone: ad ampliare il dominio della lingua, se mi consentite la terminologia matematica. Paragoni come piante colonizzatrici di nuovi territori per il lessico, semi di futuri aggettivi che renderanno con più precisione una sfumatura, nello stesso modo in cui “colorato come una rosa” è diventato rosa senz’altro, e il pesciolino dalle squame che luccicano come argento, semplicemente argenteo.
Non è dunque disdicevole usare i paragoni in poesia. Anzi.
Lo diventa quando sono fini a se stessi; quando, stucchevoli nella loro ripetitività, sono tutto quel che si può leggere in quegli strani brani di scrittura incolonnata che s’ostinano a produrre quei poeti d’occasione che, da quando non sono più pagati, si sono fatti numerosissimi e, specie in rete, onnipresenti.

Andrebbero aiutati, questi forzati del verso, obbligati dalla loro mania, o vizio, a sfornare liriche ogni giorno. I poveri Grillparzer volontari (l’originale pare vivesse davvero bene del suo lavoro di poeta) ci sarebbero certamente grati se gli fornissimo la materia prima da incastonare nelle loro composizioni; paragoni nuovi al posto di quelli usati per essere, in mancanza d’altre virtù, perlomeno originali. Che ve ne pare, a questo proposito, di “t’amo, come lo stercorario la sua pallina” o “sei il cipressino del mio cimitero”?

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