Una lettera ricordando Croce a las cinco de la tarde.
Di Schüler, Schizzo per Il Toro. Matita su carta |
Non so per quale ragione, ma non credo importi, sono tornato a pensare a Benedetto
Croce, il filosofo italiano che mi pare d’averti presentato, seppure
brevemente, in un’altra lettera.
Spero
che tu non sia una specialista in materia e che, nel caso, non ti scandalizzi
questa semplificazione, ma questa è grossomodo la sua idea sulla relazione tra
estetica e linguaggio: poiché la scrittura è un’operazione estetica ed è
sicuramente un’espressione del linguaggio, ne consegue che il linguaggio stesso
è un fatto estetico.
Penso
che se si consideri il linguaggio come fatto sociale, nel suo evolversi, nel
suo accettare parole nuove e scartarne di vecchie, nel suo cambiare il modo in
cui queste sono pronunciate, possa davvero essere così.
Non
per gli individui, però; non sempre. Vi sono parole, a volte intere frasi, che
usiamo senza sottoporre al minimo vaglio critico. Le abbiamo apprese tali e
quali durante la nostra infanzia e le pronunciamo,non solo per esprimere
concetti elementari, senza operare la minima riflessione estetica.
Quando
ci serve il sale, insomma, chiediamo “per favore mi passi il sale?” senza
pensarci su e, allo stesso modo, non abbiamo in genere mai riflettuto su come
suonino “pane” o “libertà”.
Le
cose cambiano completamente quando siamo esposti a una lingua straniera; me
ne rendo conto riflettendo su quel che mi sta accadendo con lo spagnolo. Non l’ho studiato da giovane ed ho iniziato
ad apprenderlo solo dopo essere venuto a vivere in Galizia; poche parole
il giorno e ognuna indubbiamente accompagnata da una serie di considerazione di
carattere estetico. Azahar, per
esempio, mi pare un piccolo miracolo di poesia, come del resto la sua
traduzione italiana, zagara, il fiore dell’arancio, che pure ho conosciuto solo
da adulto. Alfombra, altra parola
d’origine araba, mi pare pure affascinate, esotica, e mi canta d’odalische sdraiate
al riparo dai raggi del sole. Tappeto, il suo equivalente italiano che conosco
da sempre, invece, non mi suggerisce proprio nulla. Solo l’immagine di un
tappeto. Oddio, cosa ho scritto; per favore consentimi di tagliare corto qui,
senza neppure cercare di riassumere i termini di una querelle vecchia di un paio di millenni e più; meglio lasciar dormire il vecchio
Platone a quest’ora della notte.
Lascia
piuttosto che ti dica di un altro pensiero che mi hanno indotto le mie
esperienze di neofita dello spagnolo. Poco prima di partire, mentre cercavo non
ricordo quale libro nella confusione
della mia biblioteca, mi sono trovato tra le mani una raccolta delle
poesie di Federico García Lorca: una
splendida edizione, rilegata in marocchino rosso, che Marina, sapendo del mio
amore per i bei libri, mi aveva regalato in occasione di un mio compleanno.
Uno spreco, perché allora conoscevo davvero poco lo spagnolo: dopo averla
aperta una sola volta, non l’avevo più degnata di uno sguardo e, come capita
con molti dei libri che ci regalano e qualcuno di quelli che compriamo, avevo
finito per dimenticarne l’esistenza. Solo quel cuoio rosso, probabilmente, le
aveva evitato di finire, con tutto quel che non ritengo degno d’occupare un
posto nei sovraccarichi scaffali delle librerie, dentro gli scatoloni che tengo
nel sottotetto.
L’ho
sfogliata, godendo della sensazione ineffabile che quella meravigliosa carta
bibbia regalava ai miei polpastrelli, fino a che mi sono trovato davanti agli
occhi la più celebre delle poesie di Federico García Lorca: il Llanto por la
muerte de Ignacio Sanchez Mejias; l’elegia funebre per il torero e poeta
ucciso dalla cancrena, nel 1934, dopo esser stato ferito a una coscia,
nell’arena di Manzanares, da una cornata del toro Granadino. (Non so se mi piacerebbe
vedere una corrida e non so cosa tu possa pensare dell’argomento ma credo che
dovremmo tener conto, prima di emettere le nostre sentenze, del fatto che di
quel toro si ricorda il nome, mentre di quel che furono i nostri hamburger non
si ricorda nulla).
Volendo mettere alla prova il mio spagnolo
conquistato di recente, ho iniziato a leggere il Llanto (sì, il Pianto) cominciando, pare superfluo dirlo, dai primi
versi della prima parte, La cogida y la
muerte, Il cozzo e la morte, che anche tu, magari tradotti nella tua
lingua, conoscerai benissimo:
A las cinco
de la tarde.
Eran las
cinco en punto de la tarde.
(Alle cinque della sera./ Eran le cinque in punto della sera)
Quanto
mi è suonata tonda e cupa la o di quel cinco
che si ripete qui in una precisazione che sa già di presagio e torna poi,
ossessivamente, a ogni secondo verso: espressione di una realtà oggettiva,
cosciente, che si contrappone alle immagini che l’inconscio strappa alla
memoria; grave rullo di tamburo che scandisce i tempi del dramma:
Un niño
trajo la blanca sábana
a las cinco
de la tarde.
Una
espuerta de cal ya prevenida
a las cinco
de la tarde.
Lo demás
era muerte y sólo muerte
a las cinco
de la tarde.
...
(Un
bimbo portò il bianco lenzuolo/ alle cinque della sera./ Una sporta di calce
già preparata/ alle cinque della sera. Il resto era morte e solo morte/ alle
cinque della sera).
Fino
a che punto, però, queste mie sensazioni, parlo soprattutto di quelle sonore,
si devono al lavoro del poeta? Quanto pathos c’è davvero in quel cinco? Suona
così anche alle orecchie d’uno spagnolo o per lui non è diverso da come sono
per me five, funf o cinque?
Ancora
e più ingenerale: quanto di quel percepiamo leggendo è sovrimposto al testo
dalla nostra cultura e dalla nostra sensibilità? Quanto, per finire, e tornando
proprio alla mia rilettura del Llanto,
è il portato delle nostre attese di lettori che, per una qualche ragione,
pensano di conoscere già l’opera o il suo autore?
È difficile
dare delle risposte a queste domande, ma t’invito a fartene di simili, mentre prosegui, e voglio sperare che sia
così nonostante il contenuto di questa, nella lettura delle mie lettere; in
quella che, estendendo il ragionamento di Croce alla luce di quanto abbiamo
appena considerato, non può che essere, anche da parte tua, un’operazione
estetica
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