In un taglio "il mistero che è proprio delle vere opere d'arte".
Tela di 93 x 73 cm. Cornice di 1161 x 982 x 86 mm. Tate Gallery, Londra |
“Ma io, a sta roba ci sputo addosso”. Lo ha detto, e lo ha fatto davvero. Chi? Forse un ragazzino in gita scolastica,
pieno di adolescenziale sicumera: “E che ci vuole a fare una schifezza così?”. Forse, un quasi distinto padre di famiglia,
fremente d’indignazione: “E a me mi tocca lavorare. A me”. Sconosciuto il colpevole,
incerta la data,
ma sicuro il luogo del delitto: la Galleria nazionale di arte moderna di Roma, i cui addetti ne hanno
scoperto la traccia, o macchia, nel febbraio 2010. La vittima, "quella roba”, era Concetto spaziale – Attese: uno dei “tagli”
(in quel caso cinque, verticali, su una tela dipinta di bianco) che hanno fatto
entrare Lucio Fontana nella Storia dell’Arte.
Un incidente di minor conto, di cui però
si occuparono tutti i giornali, attribuendo l’insulto all’ignoranza; se non
altro del valore economico del quadro. Non si sputa, insomma, su una decina di
milioni di Euro. Da parte mia temo che proprio la conoscenza di simili
quotazioni abbia riempito di sdegno quel visitatore. Questa e la presunzione di
sapere come debba essere fatta un’opera d’arte; il possesso di canoni(certo poco
raffinati) nei quali Concetto spaziale non poteva trovare
posto.
Canoni e presunzione, se li possediamo, che
faremo bene a mettere in disparte anche noi, avvicinandoci a quel quadro o a
quest'altro, che porta lo stesso identico titolo, solo volto al singolare, Concetto spaziale – Attesa, esposto alla
Tate Gallery di Londra. Titolo
importante, quindi, lungamente meditato dall’artista, che lo assegnò a tutti i
suoi quadri di quel ciclo, e che invece faremo bene a tenere a mente. Assieme a
questo, ci serve sapere ben poco altro. Di certo possiamo lasciarci alle spalle
il nostro bagaglio iconografico. Fontana ci chiama ad un’interpretazione, ma
non di tipo ermeneutico; piuttosto simile a quella che operiamo quando
ascoltiamo un brano musicale. Una fuga di Bach, per esempio, capace di dire
anche attraverso i secoli; sempre diversa, a volte solo ineffabilmente, per
ogni ascoltatore e ad ogni ascolto. Un’interpretazione che può anche assumere
la forma di un pensiero compiuto, ma fatto emergere da stimoli che agiscono su
quanto abbiamo di più profondo; che operano oltre il confine del dicibile.
Può invece motivarci all’ascolto, o in
questo caso alla visione, e ad investire l’opera del nostro tempo e della
nostra attenzione, sapere qualcosa in più sul suo autore. Tenere a mente che
quel quadro è stato realizzato nel 1960, e non può che essere figlio di quell’epoca,
ma non da un giovane ribelle che se n’è uscito, chissà come, con la “pensata giusta”.
Che è il punto di arrivo del lungo percorso di un artista che era già grande
prima di prendere una lama e dare quel taglio.
Un percorso di vita cominciato in
Argentina, dove Lucio Fontana è nato, da genitori italiani, nel 1899. Suo padre è uno scultore e lì, nella sua
bottega, Lucio comincia a fare arte. Nel 1927, torna in Italia, dove era già
stato prima della Grande Guerra. Va a Milano, e deve avere dei solidi
fondamentali: viene ammesso all’Accademia di Brera e, soprattutto, entra nella
bottega di quel mostro di capacità tecniche che era Adolfo Wildt. Negli anni
trenta, Fontana si muove tra Francia e
Italia, affiancando la pittura alla scultura in bronzo e alla ceramica. Nel
1936 entra nel gruppo parigino Abstraction-Création.
Resta, però, fondamentalmente un espressionista, e nel 1939 si unisce al gruppo
Corrente di
cui fanno parte, tra, gli altri, Manzù, Vedova, Guttuso e Morlotti.
Nel 1940 è di nuovo a Buenos Aires, dove fonda l’Accademia Altamira. E’
un momento importante nello sviluppo della sua arte. Le sue sono
lezioni-riflessioni, tanto dense di idee da ispirare ai suoi studenti la pubblicazione, nel 1946, del Manifesto Bianco. Nel documento, che Fontana non
firma, ma a cui contribuisce in prima persona, si legge: “Materia, colore e
suono in movimento sono i fenomeni che, con il loro sviluppo simultaneo,
determinano la nuova arte”. Parole che sembrano uscire da un manifesto
Futurista? Non è un caso: Fontana quei manifesti li ha letti. Ammira, e lo
dichiara in numerose occasioni, soprattutto Boccioni. Sono idee nuove le sue, ma
non arrivano dal nulla. E non finiranno in nulla. Costituiranno il nocciolo
teorico che dal suo ritorno in Italia, svilupperà in quattro successivi
manifesti dello Spazialismo e in un Manifesto
tecnico dello Spazialismo (certo, anche questo titoloecheggia Boccioni) pubblicati tra il 1947 e il 1952.
Spazialismo come erede del Futurismo? In comune tra i due movimenti c’è l’attenzione
agli sviluppi della scienza e della tecnica e a come questi modifichino la
nostra coscienza, prima di tutto dello spazio. Lo Spazialismo nasce, però, a
due guerre mondiali di distanza dal Manifesto di Marinetti: nei suoi documenti
non vi è la minima traccia della retorica militarista dei futuristi.
Soprattutto giunge mentre i primi razzi già volano, dando un significato del
tutto nuovo alla parola spazio, e dopo che l'esplosione di due bombe atomiche ha mostrato a tutti come la materia sia composta da particelle; come, sotto l'apparenza di una superficie, si nascondano impensabili forze e tensioni. Ai
futuristi, primi figli dell’era delle macchine, poteva bastare rappresentare, nelle
proprie opere, le interazioni tra spettatore, velocità e spazio. Fontana
vuole-deve andare oltre. Rappresentare quel che gli occhi vedono gli non basta
più. Vuole-deve arrivare ad un’arte che determini un proprio spazio, diverso da
quello, comunque alterato, della realtà fenomenica. Per giungervi Fontana usa
anche nuovi mezzi, come le lampade al neon e di Wood delle sue ambientazioni. Soprattutto porta fino al limite delle loro possibilità espressive, i mezzi della tradizione. Scava nella perfezione parmenidea della sfera, per arrivare ad una
scultura dove non esista distinzione tra spazio interno ed esterno, nella serie
delle Nature. Buca, anzi crivella di fori, la sacra superficie della tela di grandi quadri monocromi:
i primi che chiama Concetto spaziale.
Un nome che dice tanto del suo volere “un arte per l’era spaziale” quanto del
suo tentativo di far acquistare alla pittura, pur restando pittura, delle nuove
dimensioni.
Un’altra idea nuovissima eppure antica. Tanto quanto la pittura barocca,
che Fontana ammirava appunto perché
capace di creare figure che paiono vivere dentro un proprio spazio. Un’idea su
cui Lucio Fontana continuò a lavorare fino ad arrivare a tagli come questo. Sarà
vero quel che racconto Otto Piene? Stavano preparando una mostra, nel 1958, e
uno dei quadri di Fontana arrivò rovinato dal trasporto. Tanto che, irato,
Fontana lo squarciò con un fendente, salvo poi restarsene lì, immobile, a fissare
quel che aveva fatto. Il primo Taglio, insomma, sarebbe nato così. Poco
importa. Croce scrisse che “l’arte è intuizione”. (A dire il vero una frase che,
citata fuori contesto, è tra le più perniciose). Picasso disse “nell’arte non
si cerca ma si trova”. Nessuna contraddizione, tra loro, basta pensare che l’arte sia intuizione che si trova facendo
arte; che ci si merita lavorando.
Intuizione geniale, e arrivata dopo almeno un decennio di riflessioni,
questa che a portato Fontana a ripetere coscientemente quel gesto in centinaia
di opere Anche in quella che abbiamo davanti, che realizzò nel 1960. Ha senso
descriverla? Un taglio quasi verticale attraversa una tela senza tracce di
colore. (Un esempio estremo dell’arte Fontana: di solito le Attese sono uniformemente
campite, di rosso, giallo o altre tonalità, con coloranti all’anilina). Attorno
alla tela, sta una cornice, scelta dall’artista. Punto. Non c’è altro. I valori
spaziali del taglio sono evidenti. Così la sua drammaticità e che conservi una
precisa traccia del gesto deciso dell’artista. “L’arte muore ma è salvata dal
gesto”, scrisse nel 48 lo stesso Fontana, che può certo definirsi anche artista
gestuale.
Il resto è lasciato alla nostra contemplazione. E non una caso che
proprio Arte e contemplazione è il
titolo di una mostra tenuta a Palazzo Grassi nel 1961 dove, ancora non a caso, con
le sue opere erano esposti dipinti di Mark Rothko e Sam Francis. E contemplando,
e ripensando ai rapporti tra Fontana e
il Barocco, vedremo Las meninas
uscire dallo squarcio? Probabilmente no, anche se forse Fontana non si
opporrebbe se nominassimo Velázquez spazialista ad honorem. Credo pure che non
tutti vedranno in quel taglio una porta verso un’altra dimensione, come che
pochi lo vorranno addebitare alla “nascosta energia della materia”, come
vogliono altri esegeti di Fontana. E il taglio in sé? Quanti lo vedranno come
una ferita? Quanti come un’allusione al
sesso femminile? E il nero della seconda tela, posta dietro a quella principale,
che si scorge attraverso il taglio? Qualcuno vi intravederà davvero “i bagliori del vuoto
cosmico”? Semplicemente non credo sia possibile fornire chiavi ad un’interpretazione
che, nel senso che ci siamo detti, non può che essere del tutto personale. Si
può stabilire che cosa si dovrebbe provare davanti ad un alba o vedere dentro
ad un tramonto? E ancora, qual è il vero tema di tutto il lavoro di Fontana? “Il
mistero”, ha scritto giustamente Guido Ballo in Lucio Fontana. L’uomo e l’opera, il catalogo della mostra tenutasi
a Zurigo nel 1985, “il mistero che è sempre evocato dalle vere opere d’arte”.
Un mistero che non si
spiega a parole. Vere opere d’arte , quelle di Fontana, che possono piacere o
no, che possono dire tanto o poco, ma con cui, soprattutto se si è artisti, ci
si deve confrontare. Si può oltrepassare quello squarcio, uscire dalla pittura
e invadere il mondo con le proprie istallazioni. Lo si può ricucire, riprendere
in mano i pennelli e tornare a dipingere, come si fa dagli albori dell’umanità.
Anche questa una scelta che spetta ad ognuno.
Molto interessante, grazie!
RispondiEliminaGrazie a te per avermi letto.
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