In città ero nuovo e, anche se non lo avrei
mai ammesso, sperduto ed impaurito come quel bimbo che nella favola si
ritrova solo in mezzo agli sconosciuti pericoli del bosco.
Avevo ventiquattro anni, allora. Giovane, ma
in realtà ancora più giovane, se consideri che gli ultimi sei di quegli anni li
avevo trascorsi nell’esercito; in un ambiente sterile e quasi perfettamente chiuso
alle influenze del mondo esterno. Un universo auto-sufficiente, auto-referenziale,
auto-contenuto. Auto-tutto. Un grembo, a modo suo, che avevo trovato tanto
confortevole, dopo essermi abituato alle sue regole ed ai suoi divieti, da
provare un dolore quasi fisico quando avevo deciso di lasciarmelo alle spalle
per sempre.
Qualcosa che forse non avrei mai fatto, se
fosse esistito un altro modo di sfruttare l’incredibile opportunità, offertami
dalla sorte, di realizzare quel che restava dei miei sogni d’adolescente.
Sono nato in una cittadina di provincia dove
il basket è una vera e propria religione e, dopo averne imparati i sacri
fondamentali nelle formazioni giovanili della squadra locale, allora famosa in
tutta Europa, e nonostante non mi fossi dimostrato poi abbastanza bravo da
guadagnarmi da vivere con una palla tra le mani, a quella religione sono
rimasto sempre fedele.
Non l’ho tradita neppure mentre ero
nell’esercito, continuando a giocare anche mentre vi ero arruolato, seppure
solo in un campionato minore, dopo aver trovato posto nella squadra del
paesotto delle Alpi dove era acquartierato il mio reparto: un gruppo di amici,
molti ben oltre la trentina e con dei normali lavori da svolgere durante il
giorno, che si ritrovava un paio di sere la settimana per degli allenamenti
ridotti,dalle mediocri condizioni fisiche di moltitra noi, a poco più che a
delle sedute di tiro. Soldi? Se pensi che giocavamo la domenica, contro altre
squadre di quella provincia e di quella limitrofa, sul linoleum della stessa
palestra dove ci allenavamo e davanti a un pubblico di poche dozzine di persone,
composto quasi esclusivamente di amici e parenti, capirai chec’era tanta
passione, ma assolutamente nient’altro.
Quell’estate una squadra, neopromossa in serie
A2, per sfuggire all’afa della pianura era venuta a tenere il raduno
precampionato da quelle parti.
Alla fine di uno dei nostri allenamenti un
tipo sulla cinquantina, con la tuta di quella squadra addosso, mi si era avvicinato
e mi aveva chiesto se me la fossi sentita di andare a giocare per qualche giorno
con loro; avevano ancora alcuni contratti in alto mare, uno dei loro playmaker
si era slogato una caviglia ed erano rimasti in nove.
Senza pensarci un secondo, avevo detto di
sì. Ero corso in caserma, avevo pregato
il Capitano, implorato il Colonnello ed avevo ottenuto due settimane di
licenza.