Quando penso al mestiere di scrivere e all’idea di resistenza, mi vengono certo in mente i nomi di quelli che per me sono due santi laici, Fenoglio e Calvino, ma pure quello di un personaggio che non è mai vissuto se non tra le pagine di un libro, nella fantasia del suo autore e nella coscienza e sensibilità di generazioni di lettori.
Mi riferisco a Bartleby
lo scrivano, il
protagonista dell'omonimo racconto di Herman Melville.
La sua storia, perché un Bartleby non si racconta da sé, è narrata dal suo
datore di lavoro e benefattore, un brillante avvocato di Wall Street, che, costretto
dal successo della sua attività ad ampliare la cerchia dei propri
collaboratori, lo assume semplicemente perché è l'unico che risponda ad un suo
annuncio.
Timido, decoroso in tutto e
brillante in nulla, il nuovo scrivano dapprima compie le proprie mansioni,
seppur senza troppo entusiasmo e rifiutando
con un educato, ma fermo, "I would prefer not to",
preferirei di no, di svolgere qualunque
compito esuli da quelli per cui è stato assunto. A un certo punto smette
di fare qualunque cosa, anche quelle più strettamente inerenti al proprio
lavoro, opponendo, alle richieste del titolare, sempre lo stesso:
"Preferirei di no" .
Sarà licenziato, dopo qualche
tempo, ma la cosa non pare toccarlo; le sue parole, di fronte a qualunque
suggerimento o ordine, sono sempre e solo quelle: "Preferirei di no".
Bartleby, ridotto al vagabondaggio, finisce in carcere e lì si lascia morire d'inedia.
Bartleby, ridotto al vagabondaggio, finisce in carcere e lì si lascia morire d'inedia.
I tentativi di aiutarlo dell'avvocato,
che si sente responsabile del suo destino, dando dei soldi al vivandiere perché
gli procuri del cibo migliore sono inutili: portando alle estreme conseguenze
il suo preferire di no, Bartleby preferisce non mangiare e si ostina in questo
rifiuto - anzi, in questa preferenza - fino alla morte.
Si può
resistere in mille maniere; nessuna può essere tanto civile quanto il preferire di
smettere di funzionare. Bartleby
resiste alle pressioni della società, e ai luoghi comuni, senza compiere gesti
esaltanti; senza cercare aiuto nella carica d’adrenalina che accompagna
l’azione. Si limita, davanti a chi cerca di convincerlo altrimenti, a restare
inerte e ad esprimere quella sua preferenza; lo fa rimandendo solo, senza il
conforto di alcuno e contro il parere di tutti.
Si può resistere per mille motivi; la preferenza ineluttabile di Bartleby, che viene prima di qualunque ragione o ideologia, non è neppure una scelta, perlomeno io mi rifiuto di interpretarla come tale: è il coraggio morale di chi ha osa seguire, fino in fondo, la propria natura.
“Divieni ciò che sei": questa citazione da un’ode di Pindaro compare con frequenza negli scritti di Nietzsche. Quanto è perfettamente nietzschiano Bartleby, nel suo coraggio d’essere, inerte e pigro, assolutamente sé stesso.
Mi è inevitabile paragonarlo al
freddo Eichmann descritto da Hanna Arendt che, efficiente, meccanico,
irriflessivamente felice di compiere il proprio dovere e di funzionare, è il
suo esatto contrario.
La letteratura ci propone un eroe
che è tale perché preferisce non far nulla; la cronaca, ancora prima che la
storia, ci presenta mostri che sono tali perché fanno come tutti: sono gli
orrendi qualunquisti di sempre; i mattoni con cui vengono costruite le prigioni
di tutti i regimi.
Quanto sarebbe stata diversa la
storia del secolo scorso se ci fosse stato, tra i tedeschi e gli italiani,
qualche Bartleby in più.
Quanto torto si fa ai partigiani
quando, ora, se ne sindacano le motivazioni.
Prima d’essere comunisti,
azionisti ,cattolici o monarchici, i migliori tra loro erano dei Bartleby; in
montagna ci andarono, anche per i pavidi rimasti a casa e per i silenziosi
carnefici di ogni conformismo, semplicemente perché seguendo la propria natura
non potevano fare altro: loro preferivano la libertà
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