UNA SUMMA DELLA CULTURA VISIVA DEL PRIMO RINASCIMENTO EUROPEO
Antonello da Messina, L'Annunciata Olio su tavola, cm 46 x 34 Palermo, Galleria regionale di Palazzo Abatellis |
La più bella mano
nella storia della pittura, secondo Roberto Longhi. E’ quella destra, sollevata e aperta, che
l’artista ha scelto di ritrarre secondo una prospettiva diversa da quella del
resto del dipinto. Un gesto che è l’apice drammatico del quadro, ma che resta
misurato; che esprime uno stupore che si sta placando e pare chiedere solo
ancora un momento. Forse quella mano mostra anche un poco d’apprensione.
Comprensibile: quella donna è Maria e di fronte, esattamente là dove noi
stiamo
ad osservarla, ha l’angelo che le ha appena annunciato che sarà madre del
Cristo. Non ha paura, però; non
mostra alcuno sgomento. Gli angoli della
sua bocca anzi, cominciano già a sollevarsi. Un sorriso che prefigura l’accettazione
e che è oggi famoso quasi quanto quello della Gioconda; che dovrebbe
essere considerato, paradigma della pittura rinascimentale almeno al pari di
quello dipinto da Leonardo.
Un
altro suo celebre quadro, il San Girolamo nello studio, ora conservato
nella National Gallery di Londra, viene spesso riprodotto per illustrare
la condizione dell’umanista in articoli che, ovviamente, non possono evitare di
citare Erasmo da Rotterdam. Antonello meriterebbe d’essere associato al grande
olandese anche senza quel particolare dipinto. Erasmo, con le sue opere e
peregrinazioni è, ad un tempo, testimone ed artefice della fondamentale unità
della cultura europea. Antonello, cui vanno strette tutte le etichette
geografiche che affibbiamo agli artisti del Rinascimento, è un suo quasi
perfetto omologo in campo pittorico. Anche, ma non solo, napoletana, toscana e
veneziana, anche, ma non solo, italiana, la sua arte è un ponte che unisce gli
angoli più lontani del continente. Di più. Il suo linguaggio, l’assoluta
coerenza formale delle sue opere, è la dimostrazione visiva di quanto omogeneo
fosse il sentire rinascimentale nelle varie parti d’Europa; solo espresso, nei
diversi luoghi, con accenti diversi.
Il
primo di questi accenti differenti di
cui Antonello si impadronisce, è quello fiammingo. No, non tra Belgio ed Olanda,
dove non v’è prova che abbia mai messo piede: a Napoli. Dopo un apprendistato
nella natia Sicilia, vi si reca quando
ha circa vent’anni, attorno al 1450, per affinare il proprio mestiere. Lo fa
entrando nella bottega di Colantonio, pittore tutt’altro che si secondo piano.
Aggiornatissimo, a suo tempo allievo di Barthélemy d'Eyck, un fiammingo alla
corte di Renato d’Angiò, ma capace poi
di incontrare i gusti di Alfonso V d'Aragona e del suo seguito, è lui ad
insegnargli i fondamenti della pittura ad olio: una tecnica ancora nuova, per
la nostra pittura; nata Oltralpe e di cui riconosciuti maestri sono proprio i
fiamminghi. Gli stessi che tanto piacciono ad Alfonso V. Nelle collezioni reali,
infatti, oltre ad opere di pittori provenzali e catalani, si trovano
dipinti di Rogier van der Weyden e Jan
van Eyck, mentre pittori fiamminghi sono regolarmente ospiti della sua corte.
Antonello, che grazie a Colantonio può ammirare quei capolavori e frequentare i
colleghi stranieri, oltre ad imparare a padroneggiare i nuovi colori, può così fare
propri i modi della pittura fiamminga.
Molti,
specie vedendo quei suoi ritratti di tre quarti, i primi nella storia della
nostra pittura, in passato hanno ipotizzato un suo incontro con Van Eyck, che,
con ogni probabilità, non è invece mai avvenuto. Solo scarse e vaghe prove, sono poi le prove
documentarie di una sua conoscenza diretta di Petrus Christus, che di Van Eyck
fu il miglior allievo. Nonostante questo,
l’Antonello che verso il 1470, dopo
essere tornato a vivere e dipingere in Sicilia per un decennio, comincia a
risalire l’Italia, è un pittore che dei fiamminghi sembra avere acquisito,
oltre a qualche schema compositivo, la peculiare sensibilità agli effetti
cromatici e tonali; che è fiammingo, o quasi, nell’attenzione agli effetti
della luce sulle superfici e nella capacità di renderli con i propri pennelli.
Si
reca prima a Roma. Poi, tra Toscana e Marche, incontra l’arte di Piero: il
rigore della sua prospettiva; la sua capacità di ordinare lo spazio alla luce
della ragione. Antonello aggiunge al proprio bagaglio anche tutto questo. Non
solo. Le sue forme si solidificano; si fanno scultoree. Come quelle di Piero,
appunto. Come quelle di Masaccio e di Giotto, prima di lui. Diventa, in altre
parole, un pittore più italiano.
A
Venezia, arriva verso il 1474. Una leggenda vuole che Giovanni Bellini si sia
finto un aristocratico e gli abbia commissionato un ritratto, per carpirgli i
segreti della pittura ad olio. L’incontro tra i due, comunque sia avvenuto, è
un momento chiave per la storia dell’arte; perlomeno di quella lagunare. Uno scambio non univoco, in cui le figure di
Antonello acquistano un ineffabile ingentilirsi dei tratti; si allontanano un
poco dall’esasperato realismo fiammingo. Un dialogo, però, che soprattutto
consente a Giovanni Bellini di acquisire quel che gli manca per completare la
sua rottura con la tradizione, familiare e veneziana. Gli dà i colori compatti
e vividi di cui la sua sensibilità ha bisogno, gli mostra come modellare i
corpi con luci ed ombre; come immergerli in un’atmosfera. Antonello insegna con
l’esempio, nella propria bottega? Forse. Sicuramente lo fa con le opere che
dipinge in laguna, prima fra tutte la Pala di San Cassiano. Basta
tenerla in mente e fare visita alla sagrestia di Santa Maria Gloriosa dei
Frari. La Madonna al centro del celebre Trittico di Bellini, ricorda
ancora quella dipinta da Antonello almeno un decennio prima. Un poco le
somiglia; soprattutto è avvolta nella stessa aria.
La
stessa che soffia nell’Annunciata. Che solleva le pagine di quel libro. Un
Magnificat, ha scoperto Giovanni Taormina, dopo un restauro conclusosi nel
2013. Un refolo, ha proposto lo stesso Taormina ricordando come ruah, in
ebraico, significa tanto vento come spirito, che potrebbe rappresentare lo
Spirito Santo. Ipotesi interessanti. Non servono però conoscenze di iconografia
o fare dell’ermeneutica, per vedere come quel leggio, di gusto ancora
squisitamente gotico, chiuda visivamente la composizione (un po’ come i
davanzali da cui sporgono i soggetti di tanti ritratti fiamminghi) e allo
stesso ci fornisca, con la sua rigorosa prospettiva, delle precise coordinate
spaziali. E’ la lezione di Piero che ritroviamo nella solida piramide del
manto; nei colori controllati di una
composizione dagli equilibri perfettamente calibrati. Poi, su quella tavola, da
vedere c’è lei: una
Madonna siciliana.
Dipinto nel 1476, il ritratto intenso, attentissimo alla
resa della sua psicologia, di una giovane che possiamo immaginare ancora oggi
per le vie di Messina o Palermo. Nello spazio di un foglio d’album, tanto è
grande quel quadro, la summa della cultura visiva del Primo Rinascimento europeo.
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