Due pillole sul mio rapporto con il vecchio Hank.
“Have you got any Bukowski?”. Sentirmelo chiedere, con
un visino tutto serio, da Selena, studentessa universitaria di una cittadina
dal nome omerico, posta però non nell’Egeo, ma nel settentrione dello stato di
New York,
mi ha fatto subito sorridere e mi ha lasciato addosso poi un ineffabile buonumore che è durato per il resto di quella serata. Me ne sono chiesto la ragione e di primo acchito mi sono detto che avessi trovato divertente, ironico se volete, il fatto che una scrittrice in erba statunitense, domandasse a me, nato e cresciuto nel New Jersey brianzolo, non solo dei libri di un autore tanto americano, ma pure, dopo che le avevo confermato di averne qualcuno, se valesse la pena di leggerli. E’ stato quando ho ripensato a come ho risposto a questa sua seconda domanda che sono riuscito a dare un nome a quel che provavo e (in questo la Bibbia ha ragione, dare un nome alle cose è il primo passo) a comprendere a cosa fosse dovuto. “Non scrive male, il vecchio Charles”, le ho detto, “anche se la semplicità e immediatezza del suo linguaggio è tale da parere, per certi versi, affettata. Quanto ai soggetti delle sue opere, che dire? Probabilmente ci si deve passare, specie se si è dei maschi”.
Ecco cosa c’era nel mio animo, oltre alla tenerezza
del ricordo di quegli anni selvaggi ed innocenti: sollievo. Quello di uno che
le avventure di Henry Chinasky non le ha solo lette, ma ha avuto la fortuna di
lasciarsele alla spalle.
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Ho un debito con Charles Bukowski. Henry Chinaski,
l’alter ego protagonista dei suoi romanzi, aspirante scrittore costretto a
lavorare in un ufficio postale per vivere, era solito ascoltare la Quinta
Sinfonia di Mahler, per rilassarsi. Io, che a quei tempi passavo ancora le mie
giornate in cantiere, per imitarlo comprai delle musicassette con la
registrazione della stessa opera. Tornai a casa, infilai quella con il primo
movimento nel mangianastri, e mi sedetti alla macchina da scrivere aspettando
l’esplosione di energie creative che, ne ero certo, sarebbe inevitabilmente
avvenuta. Non avevo mai ascoltato della musica classica e trovai
raccapriccianti già le prime note della sinfonia di cui, in quell’occasione,
non arrivai ad ascoltarne più di una decina di minuti, mentre le energie
creative se ne rimasero buone là dove erano andate a nascondersi. Ripetei quel
rituale anche la sera seguente e quella dopo ancora; se un grande scrittore
americano faceva così, beh, dovevo farlo anche io. Non saprei dire se accade la
decima o la ventesima volta che ascoltavo quelle cassette, ma improvvisamente,
una sera, vidi la musica. Sì, vidi innalzarsi, come una cattedrale, l’edificio
sonoro costruito da Mahler. Da allora la musica ha iniziato per me ad avere un
senso diverso; non un ritmo più o meno piacevole da usare come sottofondo o,
semplicemente, per tenere a bada il silenzio, ma un’arte tanto vera, concreta,
e quindi degna di assoluta concentrazione, quanto la pittura o la scultura.
Quanto alla Quinta di Mahler, che dire? Per me è la, a
fianco della Sistina o della fisica di Newton, tra i vertici del nostro
pensiero. Ogni anno la ascolto un paio di volte, sempre nel più rigoroso
silenzio, al buio, seguendo le costole luminose delle sue volte che si alzano
altissime.
Grazie Charles.
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