domenica 30 novembre 2014

BARBARA HEPWORTH E L'ARTE AL FEMMINILE






Una giovane amica statunitense, poco tempo fa, mi ha accusato di essere un bieco maschilista perché le ho detto di ritenere poco utile un corso di “storia dell'arte femminile” che intendeva seguire. Ho cercato di spiegarle che questo modo di interpretare la storia dell'arte, del tutto simile a quello che ha portato alla creazione dei corsi di studi “afroamericani”, è un passo verso una maggiore 

ghettizzazione delle donne; portatrici di una sensibilità e di un'intelligenza tanto diverse (ma allora, perché mai non inferiori?) da dover essere infilate in un'altra delle già troppe caselle in cui suddividiamo, per epoche e paesi, il percorso della nostra cultura. Non c'è stato verso. Abilissima nel sostenere le proprie ragioni, la mia amica è anzi riuscita a convincermi di essere nel torto; di avere di pregiudizi di cui, a dire il vero, non mi ero mai reso conto. Solo quando ci eravamo già salutati, mi sono detto che avrei potuto ricordarle come uno dei miei scultori preferiti, e se si parla di scultura in legno il mio preferito senz'altro, sia Barbara Hepworth. Come lei, trai moderni, per me ci sono solo Moore e Brancusi. Come lei, quanto a capacità di sentire il legno, di fare del suo colore e delle sue venature una parte integrante delle proprie opere, assolutamente nessuno. E' tra i mie maestri; ho letto e riletto il suo diario e in particolare le pagine in cui descrive come scegliesse i tronchi da cui ricavava le sue sculture: poesia allo stato puro. Perché non mi è venuta in mente poco prima? Semplicemente perché non l'ho mai catalogata come donna, esattamente come non ho mai infilato Count Basie nella casella dei neri. Per me sono, prima di qualunque altra cosa, dei grandi.

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