Lo dipinse pochi giorni prima di spararsi al petto. Oggi lo veneriamo come un capolavoro di uno dei più grandi pittori "a pennello carico" della storia dell'Arte.
Vincent Van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890. Olio su tela di 50,3 x 103 cm Museo Van Gogh, Amsterdam |
Me ne restavo lì,
incapace di lasciare quel quadro, l’ultimo dell’esposizione. Era la mia prima
volta ad Amsterdam ed ero solo un ragazzo, con più sogni in testa che soldi
nelle tasche dei jeans. Un ragazzo come i tanti che avevano fatto con me la
coda per entrare nel museo.
Una fila interminabile. Era luglio, ed eravamo arrivati
da tutta Europa, ma c’erano anche americani, giapponesi e gente che non si capiva
da che angolo del mondo potesse provenire. Eravamo in quella città per di tutto e di più,
come si diceva allora, anche se in fondo sapevamo che ce ne saremmo poi tornati
a casa con solo il ricordo di qualche risata e, magari, con un po’ di mal di testa. Tra noi erano pochi gli amanti dell’arte.
Il tempo per “andare a vedere Van Gogh”, però, lo trovavamo tutti: non si
completa un pellegrinaggio senza una visita, magari frettolosa, alle sacre
reliquie.
Di fretta, io non ne avevo
avuta. Avevo passato nel museo tutta la giornata. E se ancora non avevo il mal di testa,
provavo avevo un senso di vertigine. Sindrome di Stendhal? Forse. Avevo visto, uno dopo l’altro, una dozzina
almeno di quelli che per me erano, e sono, dei capolavori assoluti. Quadri che
non riuscivo a levarmi dagli occhi, a cancellare dalla retina. E adesso c’era questo
paesaggio sconvolgente. Lo conoscevo già. Lo conosciamo tutti. Ma … ma era li,
davanti a me, con quelle pennellate furenti, strazianti. “L’ultimo quadro che
ha dipinto”, mi dissi. Ora so che forse è solo uno tra gli ultimi, ma poco
importa. Non sapevo neppure che, a proposito di questo e degli altri paesaggi, avesse scritto alla cognata Johanna
di “aver detto con quelle tele quanto la campagna sia salutare per me e mi rinvigorisca”. Una
lettera, apparentemente ottimista, di cui sono però venuto a sapere solo
dopo. Piuttosto ne ricordavo un’altra,
indirizzata a Theo, suo fratello ed unico costante punto di riferimento. “Ho
dipinto degli enormi campi di grano”, vi scriveva, cercando di esprimervi “estrema tristezza e
solitudine”. E queste, come credo tutti, vedevo su quella tela. E la disperazione delle
spighe sferzate dal vento; di quelle pennellate gialle che gemono come anime dannate. E l’angoscia di
quell’oscurità, là in alto, che sta per calare. Una lettura melodrammatica?
Forse. Certo non frutto della mia sensibilità giovanile: se dovessi dare un volto al dolore di vivere, anche oggi che di giovane non mi resta nulla, sceglierei
questo quadro. Anche perché so che Van Gogh, in quel luglio 1890, stava male
sul serio. Il direttore della clinica di Saint-Rémy-de-Provence, dove era rimasto
ricoverato per un anno per curarsi da una “latente epilessia mentale”, lo aveva
proclamato guarito, ma non lo era per nulla. Se n’era accorto anche Theo che, rivedendolo
a Parigi, gli aveva suggerito di trasferirsi ad Auvers-sur-Oise per stare vicino al dottor Gachet (certo,
quello del ritratto) che forse poteva aiutarlo Per questo Vincent era ad
Auvers, tra i campi di grano. Ed era davvero solo. Sì, perché era poi riuscito a litigare
anche con Gachet e non rivolgeva parola
ad altri. Solo davanti alle scelte della vita, mi ero detto già allora,
pensando a quelle che mi aspettavano e notando, come non mi era accaduto
guardando le riproduzioni, con quanta enfasi fossero stati dipinti quei tre sentieri
in primo piano. Chissà se c’erano davvero? Chissà cosa rappresentavano per lui? Theo si era appena sposato e stava per mettersi a commerciare arte per conto proprio.
Avrebbe continuato ad aiutarlo? Sarebbe stato ancora in grado di farlo? Forse
erano questi, terribilmente pratici, i dubbi nella mente di Vincent, in quei
giorni. Di certo, senza qualche soldo passato dal fratello non poteva illudersi
di continuare a fare il pittore.
Aveva 37 anni e non
aveva venduto un solo quadro.
Perché? Per lo stesso
motivo per cui la sua pittura tanto ci affascina. Per quei suoi colori e quelle
sue pennellate. Colori puri, perché appaiano più intensi, e pennellate tanto spesse
da risultare evidenti, che usa con perfetta coscienza. Si porta sempre dietro
una cassettina piena di gomitoli colorati. Li accosta per avere un’idea dell’effetto
che faranno, sulla tela, quel giallo e quel blu o quel rosso, messi uno accanto
all’altro. Il suo scopo? Lo scrisse a Theo, l’11 agosto del 1888: “Non cerco di
riprodurre esattamente quel che mi trovo davanti, faccio un uso più arbitrario
del colore per esprimermi con più forza”. Ed è questa forza, questa visione tutta
personale della realtà, a scontrarsi con i gusti di una società e di una
cultura intrise di positivismo, che ancora credevano nella possibilità di
certezze assolute. Un clima cui non sfuggono gli stessi impressionisti, in
fondo dei continuatori del programma classico della Civiltà Europea, che mirano
a rappresentare con ancora più precisione, addirittura con scientifica determinazione
nel caso dei divisionisti, l’apparenza del reale. Van Gogh, fa altro. Riprende
il discorso dei romantici e va oltre. Non dipinge il proprio con-sentimento con il mondo.
Proietta sul mondo e sulla tela tutti i propri turbamenti. Le proprie angosce.
Le stelle che vorticano nel suo cielo sono quelle che lui, solo lui, vede. E’
un lirico che canta mentre nessuno è disposato ad ascoltare poesia. Anche il
più umile dei soggetti (sì, in questo la penso come Meyer Schapiro) è trasformato
dalle sue pennellate in un auto-ritratto. Espone la propria anima agli sguardi
di una società che nasconde la propria dietro la maschera della rispettabilità
borghese. Che non rifiuta le sue opere, ma, peggio, neppure le degna di uno
sguardo.
“Una persona sana non
si taglia un orecchio”, mi ha spiegato un’amica psicologa: “Era uno psicotico
con una schizofrenia latente”. Un altro amico, medico, qualche tempo dopo mi ha
detto che le vertigini e gli altri i sintomi che Van Gogh descriveva nelle sue
lettere a Theo, e poi diagnosticati per epilessia, coincido piuttosto con
quelli della Sindrome di Meniere, una patologia dell’orecchio interno di cui
ancora non sono bene note le cause. Forse hanno ragione entrambi. Finalmente
uscito dal museo, però, mi dissi allora che chiunque, al posto di Van Gogh,
sarebbe impazzito. Chiunque, convinto
come lui di possedere una verità e lasciato solo, isolato, ad urlare nel
vento. Una verità, quella della sua pittura, in cui lui, nonostante tutti i suoi
dubbi esistenziali, credeva fermamente. Una certezza tutt’altro che folle; che noi
moderni confermiamo con la venerazione che attribuiamo ad ogni suo quadro: ci
pare tanto evidente, ora, che siano opera di un genio.
Non avevo ancora letto,
allora, Van Gogh il suicidato della
società, che sarebbe stato pubblicato in italiano solo qualche anno dopo,
ma ero giunto a conclusioni non troppo diverse da quelle che Antonin Artaud
espone il quel suo saggio. Conclusioni che, nonostante tutto, ritengo ancora
valide. Van Gogh non aveva nervi saldi come rocce? Vero, probabilmente, ma chi
li ha? Il suo destino, piuttosto, non mi
pare diverso da quello di tanti altri profeti, condannati
dall'ignoranza dei loro tempi, a tenere per sé le proprie visioni. Lasciati
in un cantuccio a parlare contro un muro; in un modo o nell'altro,
neutralizzati. A volte, magari senza troppa premeditazione, con l'apposizione a
posteriori di un'etichetta capace di ridurre a ben poca cosa la radicalità del
loro pensiero: pensate a Leopardi e al suo titanico realismo volgarizzato in
sterile pessimismo. Spesso, come nei casi di Wilde o Pasolini occupandosi più
dei loro comportamenti privati, giudicati scandalosi, che delle loro opere. Ancora
più spesso è proprio marchiandoli come folli, che le società evitano il
confronto con i propri più acuti critici. Artaud cita Poe, Baudelaire,
Hölderlin, Coleridge e Nietzsche; a me vengono in mente anche Ezra Pound ed Alda
Merini. Voi avrete pensato ad altri.
A nomi noti, però. A personaggi
che, magari dopo la loro morte, la storia ha vendicato. Ma quanti, con un
talento di poco inferiore al loro, sono stati dimenticati? Soprattutto, quanti,
oggi, sono come loro? Siamo certi che quel trentacinquenne o giù di lì male in
arnese, con i capelli arruffati e lo sguardo folle di chi ha smarrito la dritta
via, non sia un altro Van Gogh?
Chiediamocelo, soprattutto
in questi tempi in cui è massimo il sospetto verso il diverso. Chiediamocelo,
se abbiamo qualche capello bianco, recuperando almeno lo spirito, se non i
sogni, di quanto ce ne andavamo per le strade d’Europa con lo zaino in spalla e
pochi soldi in tasca. E quale che sia il
cammino della vita che abbiamo poi preso, torniamo, magari una sera, a guardare
Il campo di grano con volo di corvi.
Per ammirare un capolavoro di uno dei più grandi pittori “a pennello carico”
della storia dell’Arte. Per riconoscere in quei corvi, che se ne stanno appesi
a quel cielo tempestoso con le loro alacce nere, gli avvoltoi di ogni
conformismo.
Sempre che non siamo
anche noi, sospinti dal vento dell’omologazione, lì a volare con loro.
P.S.
Ho citato esplicitamente: Antonin
Artaud, Van Gogh il suicidato della società, Adelphi,
1988. Implicitamente, un articolo di Meyer Schapiro: The Still Life as a Personal Object. A Note
on Heidegger and van Gogh, del 1968 che
qui potete trovare in Italiano : http://www.ec-aiss.it/biblioteca/pdf/15_corrain_semiotiche_pittura/corrain_semiotiche_pittura_cap14.pdf
Heidegger
fu il primo filosofo a dire la sua sulle “scarpe di Van Gogh”. Lo fece nel 1935
in uno scritto, Dell’origine dell’opera d’arte,
poi pubblicato solo nel 1950 in Sentieri
interrotti e che potete trovare qui: http://www.unipa.it/~estetica/download/Heidegger.pdf
Derrida,
offri un’interpretazione diversa delle stesse opere nel 1978 in La verità in pittura, edito da Newton
Compton ma ora fuori catalogo.
A
chi fosse interessato ad una lettura in chiave psicanalitica dell’opera di Van
Gogh, suggerisco di leggere, di Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri,
2009.
molto interessante
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