Da una lettera ad un'amica statunitense.
Di Schüler, Parking lot, 1997. Tecnica mista su tela preparata di 100 x 80 cm |
Tornando alle mie non sempre lineari connessioni cerebrali, forse ti piacerà sapere che c’è un po’ d’America dietro la mia ultima idea.
Non so bene cosa mi abbia fatto pensare a lui, ma
tutto è cominciato quando, poco dopo aver udito quelle cornamuse, mi è venuta
in mente un’opera che, nel mio giudizio di europeo, è la quintessenza delle
letteratura del tuo paese: Spoon River
Anthology, L’antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters.
Un libro di cui mi permetto di scriverti perché so non
essere molto conosciuto negli Stati Uniti d’oggi; nemo profeta in patria, d’altra parte, dicevano già i Romani.
Si tratta di una raccolta di poesie, scritte per la
maggior parte nel 1914, in cui è raccontata la vita di una piccola comunità
dell’Illinois.
Qualcosa di analogo a quel che ho in mente? Sì, ma
solo per certi versi. La collezione di
ritratti di Masters, è quella appunto dadaista degli epitaffi, recitati da loro
stessi, dei morti sepolti nel cimitero di questo suo villaggio, immaginario ma
modellato su quello dove trascorse l’infanzia. Si tratta di un gruppo
d’istantanee simultanee (perdona la cacofonia) come quelle che vorrei scattare
io, che nel suo caso non rappresentano però solo i singoli, ma rendono anche,
ed esplicitamente, i rapporti tra loro.
Io vorrei solo mostrare al mondo i miei compaesani.
Far ammirare a tutti la sopravvivenza nei loro sguardi, a dispetto della
modernità, di qualcosa di eterno che altrove è ormai troppo nascosto per essere
riconosciuto. Vorrei che i loro volti testimoniassero della possibilità di una
guarigione, insomma, ma so anche che la mia operazione avrebbe senso solo
perché, anche se nessuno ha ancora trovato la cura, chi mi ha preceduto ha già
diagnosticato il male.
Tra questi c’è Masters, che con la sua opera, ha
inteso offrirci, per di più riuscendoci benissimo, una metafora della
modernità.
Se il villaggio è un luogo comune della letteratura
americana, infatti, la sua Spoon River non è l’Arcadia, come non appartiene
all’ottimistico mondo rurale di Robert Frost, ma è la sede di una società
complessa, dove stanno saltando tutti gli schemi tradizionali e non si sa con
che sostituirli: è già rappresentazione della crisi dentro di cui ancora
stiamo.
Ho usato l’espressione dadaista, nel parlarti
dell’Antologia. Forse ho esagerato, e non solo perché il Dadaismo è
ufficialmente nato solo un anno dopo la sua pubblicazione, ma certo la raccolta
di poesie di Masters appartiene pienamente alla propria epoca e ha in comune
molto, a partire dall’attenzione rivolta alle interazioni tra psicologia e
realtà, con le opere che erano create negli stessi anni su questa sponda dell’oceano.
Sto pensando a Joyce (come sempre, dirai tu) e in particolare a Portrait of the Artist as a Young Man,
Ritratto dell’artista da giovane, come pure ai dipinti dell’Espressionismo
Nordico; ad opere di maestri come Munch o Nolde.
Dico questo senza voler minimamente negare
l’originalità di Masters; soprattutto senza metterne in dubbio il suo essere,
perlomeno ai miei occhi d’europeo, profondamente americano, con la sua
“barbarica” franchezza e la sua apparente mancanza di raffinatezze
intellettuali.
Apparente e nulla più, intendiamoci, in un’opera che,
secondo il suo stesso autore, è stata ispirata dall’Antologia Palatina, una raccolta di epitaffi greci compilata a
Bisanzio verso la metà del X secolo e costituita da componimenti, riguardo ai
più diversi argomenti, di scrittori sia pagani sia cristiani, dell’età classica
come del periodo bizantino.
In questo, nella capacità di prendere gli esausti
modelli del vecchio mondo e restituire loro la vita, trasformandoli, attraverso
una diversa sensibilità, in qualcosa di nuovo, c’è, per me che la conosco solo
di riporto, il segreto dell’America.
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