sabato 14 febbraio 2015

LUCIAN FREUD, BENEFITS INSPECTOR SLEEPING

“Dipingo le persone non come appaiono o nonostante come appaiono, ma per quello che sono”.


Lucian Freud, Benefits Supervisor Sleeping, Completato nel 1995. Olio su tela di 219 x 151,3 cm. Collezione privata.

Sta posando per un quadro destinato a diventare il più pagato di sempre. Perlomeno tra quelli venduti mentre il loro autore è ancora in vita. Trentatré milioni di dollari, nel 2008. Lei, però, non può certo saperlo. Dorme: lì, su quel divano scassato, e sulla grande tela su cui stanno prendendo forma lei e quel divano. 


Si chiama Sue. Sue Tilley. Lavora in un ufficio di collocamento, ma ha tanti altri interessi. E’ stata grande amica di Leigh Bowery. Al passato, perché siamo nel 1995 e l’Aids ha portato via Leigh già da un anno. Importa saperlo? Beh, è stato Leigh, uno che definire uomo di spettacolo è ridurre a ben poco, a presentarla al pittore. Che altro dire di lei? Quello che tutti si chiedono, quando la incontrano: il suo peso. Già, perché è un donnone. Anzi, è francamente obesa, e si sa com’e fatta la curiosità della gente ... Duecentottanta pounds, ad ogni modo; centrotrenta chili. Libbre e chili che affascinano il pittore. “E’ carne senza muscoli. E per sopportare tutto quel peso ha sviluppato una consistenza tutta sua”. Libbre e chili che lui osserva attentamente da nove mesi. Può metterci anche un anno, un anno e mezzo, a completare un quadro. Questo sì che importa, se si vuol capire la sua arte. Avete presente l’artista che, dietro al cavalletto, lavora velocemente per completare un ritratto nel giro di poche sedute? Scordatevelo. Lui, dietro il cavalletto ci sta pochissimo. Il tempo dare una o due pennellate. Prima e dopo queste, osserva il modello. Ci parla, sempre che non stia dormendo come Sue. Vuole conoscerlo a fondo. Preferisce, anzi, ritrarre chi conosce già. Se stesso, prima di tutto: da qualche parte nello studio, c’è sempre un suo autoritratto già avviato. Ne ha dipinti decine. Poi sua madre, fino a che è stata viva. Negli anni ’70, è stata il soggetto di quasi tutti i suoi quadri più importanti. E poi ancora le sue donne, i suoi amici. E le sue figlie. Le ritrae anche com’è adesso Sue: nude.  Una di loro, anzi, è il soggetto del primo nudo a figura intera che abbia mai dipinto: Ragazzina nuda che ride, del 1963. Un quadro importante, per tante ragioni. Lui ha quarantuno anni, quando lo completa, ed è proprio in quel periodo che la sua arte giunge alla maturità. Non punto di arrivo, intendiamoci; negli anni seguenti continuerà a evolvere, ma già lì, in quel quadro è quella del Freud che tutti conosciamo. Del Lucian Freud, meglio precisare. L’altro, il Freud senz’altro, il fondatore della psicanalisi, era suo nonno. Nella Germania del 1933, però, era soprattutto un ebreo. Già anziano ma ancora tanto deciso da andarsene, subito dopo l’ascesa del nazismo, rifugiandosi a Londra assieme al resto della famiglia, nipotino undicenne compreso. E in quella città Lucien cresce e vivrà il resto dei suoi quasi novant’anni. Lì comincia giovanissimo anche a fare arte, con il pieno sostegno del clan. Scolpisce. Soprattutto dipinge. Attorno ai vent’anni non ha ancora le idee chiare. Ci mancherebbe. Ha talento, ma cerca una propria strada. Nei suoi quadri si notano influenze  a volte contrastanti. Certe linee, certi volti, paiono dovere qualcosa agli espressionisti della Repubblica di Weimar. Alcune sue opere del biennio 1943-44 affettano i modi del surrealismo. E’ solo un flirt, però. Commentando quei quadri dirà poi: “Penso che l’ombrello e la macchina da cucire sul tavolo operatorio, suggeriti da Lautréamont siano una composizione inutilmente elaborata. Cosa c’è di più surreale di un naso tra due occhi?”.  Nel ’45 torna alla realtà.  Lo fa con un capolavoro: Airone morto; il cadavere di un uccello, dipinto piuma per piuma, con le ali mezzo spiegate, su una campitura bruna. Un’immagine che s’imprime nella memoria di chiunque la veda; la dimostrazione di quanta potenza possa scaturire dalla meticolosa rappresentazione di un soggetto.

Nel ’46 va a Parigi. Un viaggio di formazione. Conosce Picasso e diventa amico di Giacometti. Inutile cercare nei suoi quadri la loro influenza, però. O meglio, c’è, ma non è fatta di linee e colori; di un certo modo di rapportarsi all’arte, piuttosto, di rigore e serietà nel praticarne il mestiere. Al ritorno a Londra, Freud resta ancorato alla realtà. Solo la osserva ancora più attentamente, la riporta sulla tela con ancor maggiore fedeltà. Certe sue composizioni ricordano Ingres che in quegli anni studia e ammira. Le sue superfici pittoriche, vellutate, certi effetti, fanno addirittura pensare a Van Eyck e ai fiamminghi. E’ una pittura che già gli consente risultati straordinari, ma che ancora deve “liberarsi”, che trattiene energie che restano nascoste, sotterranee.
Uno dei quadri più intensi di quel periodo è un piccolo ritratto (un olio su rame, parlando di fiamminghi) di Francis Bacon, realizzato nel 1952. Un’amicizia importante, quella con Bacon. Ancora, credo sia sbagliato ridurre a una questione di forme e colori, l’influenza che questo altro grande maestro ha avuto su di lui. Certo, qualche tratto “baconiano” si può ravvisare in alcune sue opere, ma è vedendo come Bacon dipinge, più che quel che dipinge, che Freud cambia. Si libera, getta la maschera. Mette nei propri quadri tutto se stesso. Non nasconde al mondo le proprie pennellate: le esibisce. Contano, ognuna di loro conta. Cambia pennelli. Abbandona quelli di zibellino, morbidissimi e finissimi, e adotta quelli di cinghiale. Aveva già smesso di usare velature, di sovrapporre un colore a un altro; da quel momento ogni suo gesto è fedelmente registrato, amplificato, dai solchi lasciati nel colore da quelle setole tanto rigide. Diventa, la sua, una pittura in presa diretta. Una pittura che il grande pubblico conosce soprattutto per i nudi, di uomini e donne, dipinti dopo quel primo. Nudi che riescono a scandalizzare, a turbare, e non solo perché spesso continuano a essere delle sue figlie. Ci torneremo. Intanto, mentre dà l’ultima pennellata al ritratto di Sue, Lucien Freud è diventato il più famoso pittore “realista” del mondo. Per quei nudi, ma anche per la sua vita privata. Scandalosa. Due mogli, almeno una dozzina di amanti ufficiali e, si vocifera, più di cinquecento amanti occasionali. Tanti amori e tanti figli. Due dal primo matrimonio e almeno quaranta, di cui dodici riconosciuti, dalle varie amanti.

Vita privata che però non c’è, sulla tela che ha appena finito. C’è quel divano con il rivestimento liso, riprodotto in ogni dettaglio. Ci sono le tavole di legno del pavimento. C’è un telone in fondo, a ricordarci che quel quadro è stato dipinto in uno studio. Forse non più in quello di Paddington, dove Freud ha lavorato per decenni, ma quello di Kensington, dove si è trasferito proprio a inizio anni ’90. Studi che il pittore ci svela nei sui quadri. Senza esibirli, solo dipingendone qualche dettaglio; lasciandoceli, come in questo caso, intravedere. Sì, un po’ come il vecchio Rembrandt. Studi attorno cui ruota la sua vita. Da cui passa tutto quello che finisce nei sui quadri. Anche i suoi rari paesaggi, mostrano quel che si vede dalle loro finestre. Non viaggia. Anzi, come dice lui stesso, viaggia “verso il basso”. Entrando nella profondità delle cose. Imprimendosene nella memoria i particolari, uno a uno, prima di consegnarli alla tela con quelle sue pennellate tanto deliberate, tanto lungamente e precisamente calcolate.

Anche con Sue ha fatto così. Sulla tela c’è soprattutto lei, ritratta dall’alto. Una scelta compositiva, come pure il risultato del modo di lavorare di Freud che, da quando ha cambiato pennelli, per essere più sciolto dipinge restandosene sempre in piedi.  La vediamo che ronfa, con la testa  contro un bracciolo e il viso volto verso di noi. Un braccio è appoggiato allo schienale che afferra con la mano; l’altra mano le spunta da sotto il  corpo e pare sorreggere un seno massiccio, pesante come tutto quel che è suo. Il nostro sguardo va subito lì, a quei suoi volumi monumentali, solidi come quelli di una natura morta di Cezanne. Li descrivono pennellate tanto larghe ed evidenti da ricordare ancora il Rembrandt più maturo; sono risultato anche del colore usato per l’incarnato, reso spesso e denso dalla biacca di piombo, il Bianco di Cremitz, che Freud ha adottato dagli anni ’60 a imitazione del sempre amato Ingres. Un incarnato che domina visivamente la composizione; una pelle, quella di Sue, che i nostri occhi si vedono quasi costretti a percorrere in tutta la sua vastità. Pelle come confine, come scenografia e come sipario. Tutto quel che possiamo sapere di lei, è in quelle vene che s’intravedono, in quelle pieghe di grasso, in quella cellulite. Coltiva dei sogni? Ha delle paure? Freud, a differenza di suo nonno, non pretende saperlo;  solo ci mostra, con suprema abilità, ogni particolare del suo corpo che è riuscito a cogliere in quei lunghi mesi di osservazione. E’ questo lo rende un “realista”? No, non del tutto. I grandi artisti non sono mai davvero etichettabili. Freud meno di tanti altri. La sua arte “esiste a prescindere da sistemi precostituiti e senza alcuna deviazione”, proprio come prescrive Courbet nel Manifesto del Realismo, eppure la Sue reale non ha mai avuto l’aspetto che ha quella sulla tela. Mai. Basta pensare proprio a quei suoi centotrenta chili, che Freud ha reso  con tanta spietata accuratezza.  Centrotrenta chili che però erano forse meno, quando il Freud ha cominciato a dipingere l’attaccatura dei suoi capelli e che erano diventati qualcuno in più, nove mesi dopo, quando ha dato l’ultima pennellata all’alluce. O magari il contrario, se si fosse messa a dieta. Un altro esempio. Freud ha dipinto quadri meravigliosi che hanno per soggetto le piante che si trovavano nel suo studio: le ha rese foglia per foglia, con infinita cura, mettendoci anche in questo caso molti mesi. Sicuramente, nel momento in cui ha dipinto l’ultima foglia, quella da cui aveva iniziato il proprio lavoro non c’era più o era rinsecchita. E quell’ultima foglia, quando aveva dipinto la prima, magari neppure esisteva; doveva ancora spuntare. Anche in questo caso, il soggetto, la pianta, non ha mai avuto l’aspetto di quella che vediamo sulla tela.  

E allora cosa dipinge Freud? L’anima dei soggetti, verrebbe da dire, ma l’anima in senso aristotelico, più che piscologico. Non è un espressionista. Non in quadri come quello che ritrae Sue. Non ci sono forzature, né coloristiche né d’altro tipo. Non ci sono asimmetrie ricercate o tratti esageratamente marcati. Non c’è nulla messo lì a bella posta per inquietarci.  I nudi di Freud ci turbano, come ammettevamo, ma in un altro modo: piuttosto che esibendo, rifiutando di nascondere, tanto i piccoli difetti fisici, cui il pittore dedica la stessa cura che riserva a ogni altro particolare, quanto i segni dell’invecchiamento. Rappresentano corpi come il nostro; come  lo vedremmo se ci mettessimo davanti ad uno specchio e ci osservassimo in modo altrettanto spassionato.  Corpi che non possiamo evitare di interpretare  come dei memento mori, in questo simili più alle nature morte seicentesche che all’Urlo di Munch.

Non che questo renda Freud un barocco, certo. Se dobbiamo proprio definirlo con una formula, meglio ricorrere alle sue stesse parole: è un pittore che ritrae le persone “non come appaiono o nonostante come appaiono, ma per quello che sono”. Meglio ancora, per come lui le ha conosciute, senza alcuna pretesa di oggettività, senza che voler affidare ai propri quadri alcun particolare messaggio. Anzi, senza affidarlo ad un quadro particolare, ma, piuttosto ed implicitamente, alla totalità della propria opera. Ha ritratto personaggi della malavita e baronetti, gente comune e miliardari. Tutti con la stessa meticolosità, rivolgendo quella sua attenzione esasperata, a tutti nella stessa misura. La regina Elisabetta II ha voluto che la ritraesse. Non ha fatto eccezioni neppure per lei. La sovrana non poteva posare per le centinaia di ore che gli erano necessarie per dipingere a modo suo? Bene, il ritratto alla fine glielo ha fatto, splendido peraltro, ma grande quanto una cartolina. Una regina, ma pure, solo un altro degli “animali umani”, per usare un’altra sua espressione, che Freud ha catturato con i propri pennelli. Umani tutti ugualmente degni, tutti fatti della stessa carne e delle stesse ossa; tutti destinati, un giorno, a fare la stessa fine. Umani chiamati a condividere, per citare un amico di nonno Sigmund, il vecchio Husserl rimasto intrappolato nella Germania nazista, lo stesso “mondo della vita”.



P.S. Benefits Supervisor Sleeping, che in italiano si potrebbe grossomodo tradurre con Supervisore dell’ufficio di collocamento che dorme, è oggi nella collezione dello zilionario russo Roman Abramovich, proprietario, tra le altre cose, della squadra di calcio londinese del Chelsea. Devo ammettere di conoscere il quadro, purtroppo, solo attraverso le riproduzioni.

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