“Dipingo le persone non come appaiono o nonostante come appaiono, ma per quello che sono”.
Lucian Freud, Benefits Supervisor Sleeping, Completato nel 1995. Olio su tela di 219 x 151,3 cm. Collezione privata. |
Sta posando per un quadro destinato a diventare il più
pagato di sempre. Perlomeno tra quelli venduti mentre il loro autore è ancora
in vita. Trentatré milioni di dollari, nel 2008. Lei, però, non può certo
saperlo. Dorme: lì, su quel divano scassato, e sulla grande tela su cui stanno
prendendo forma lei e quel divano.
Si chiama Sue. Sue Tilley. Lavora in un
ufficio di collocamento, ma ha tanti altri interessi. E’ stata grande amica di
Leigh Bowery. Al passato, perché siamo nel 1995 e l’Aids ha portato via Leigh
già da un anno. Importa saperlo? Beh, è stato Leigh, uno che definire uomo di
spettacolo è ridurre a ben poco, a presentarla al pittore. Che altro dire di
lei? Quello che tutti si chiedono, quando la incontrano: il suo peso. Già,
perché è un donnone. Anzi, è francamente obesa, e si sa com’e fatta la curiosità
della gente ... Duecentottanta pounds, ad ogni modo; centrotrenta chili. Libbre
e chili che affascinano il pittore. “E’ carne senza muscoli. E per sopportare
tutto quel peso ha sviluppato una consistenza tutta sua”. Libbre e chili che lui
osserva attentamente da nove mesi. Può metterci anche un anno, un anno e mezzo,
a completare un quadro. Questo sì che importa, se si vuol capire la sua arte.
Avete presente l’artista che, dietro al cavalletto, lavora velocemente per
completare un ritratto nel giro di poche sedute? Scordatevelo. Lui, dietro il
cavalletto ci sta pochissimo. Il tempo dare una o due pennellate. Prima e dopo
queste, osserva il modello. Ci parla, sempre che non stia dormendo come Sue.
Vuole conoscerlo a fondo. Preferisce, anzi, ritrarre chi conosce già. Se
stesso, prima di tutto: da qualche parte nello studio, c’è sempre un suo
autoritratto già avviato. Ne ha dipinti decine. Poi sua madre, fino a che è
stata viva. Negli anni ’70, è stata il soggetto di quasi tutti i suoi quadri
più importanti. E poi ancora le sue donne, i suoi amici. E le sue figlie. Le
ritrae anche com’è adesso Sue: nude. Una
di loro, anzi, è il soggetto del primo nudo a figura intera che abbia mai
dipinto: Ragazzina nuda che ride, del
1963. Un quadro importante, per tante ragioni. Lui ha quarantuno anni, quando
lo completa, ed è proprio in quel periodo che la sua arte giunge alla maturità.
Non punto di arrivo, intendiamoci; negli anni seguenti continuerà a evolvere, ma
già lì, in quel quadro è quella del Freud che tutti conosciamo. Del Lucian
Freud, meglio precisare. L’altro, il Freud senz’altro, il fondatore della psicanalisi,
era suo nonno. Nella Germania del 1933, però, era soprattutto un ebreo. Già anziano
ma ancora tanto deciso da andarsene, subito dopo l’ascesa del nazismo, rifugiandosi
a Londra assieme al resto della famiglia, nipotino undicenne compreso. E in
quella città Lucien cresce e vivrà il resto dei suoi quasi novant’anni. Lì
comincia giovanissimo anche a fare arte, con il pieno sostegno del clan.
Scolpisce. Soprattutto dipinge. Attorno ai vent’anni non ha ancora le idee chiare.
Ci mancherebbe. Ha talento, ma cerca una propria strada. Nei suoi quadri si notano
influenze a volte contrastanti. Certe
linee, certi volti, paiono dovere qualcosa agli espressionisti della Repubblica
di Weimar. Alcune sue opere del biennio 1943-44 affettano i modi del
surrealismo. E’ solo un flirt, però. Commentando quei quadri dirà poi: “Penso
che l’ombrello e la macchina da cucire sul tavolo operatorio, suggeriti da
Lautréamont siano una composizione inutilmente elaborata. Cosa c’è di più
surreale di un naso tra due occhi?”. Nel
’45 torna alla realtà. Lo fa con un
capolavoro: Airone morto; il cadavere
di un uccello, dipinto piuma per piuma, con le ali mezzo spiegate, su una
campitura bruna. Un’immagine che s’imprime nella memoria di chiunque la veda; la
dimostrazione di quanta potenza possa scaturire dalla meticolosa
rappresentazione di un soggetto.
Nel ’46 va a Parigi. Un viaggio di formazione. Conosce
Picasso e diventa amico di Giacometti. Inutile cercare nei suoi quadri la loro influenza,
però. O meglio, c’è, ma non è fatta di linee e colori; di un certo modo di
rapportarsi all’arte, piuttosto, di rigore e serietà nel praticarne il
mestiere. Al ritorno a Londra, Freud resta ancorato alla realtà. Solo la
osserva ancora più attentamente, la riporta sulla tela con ancor maggiore
fedeltà. Certe sue composizioni ricordano Ingres che in quegli anni studia e
ammira. Le sue superfici pittoriche, vellutate, certi effetti, fanno
addirittura pensare a Van Eyck e ai fiamminghi. E’ una pittura che già gli
consente risultati straordinari, ma che ancora deve “liberarsi”, che trattiene
energie che restano nascoste, sotterranee.
Uno dei quadri più intensi di quel periodo è un piccolo
ritratto (un olio su rame, parlando di fiamminghi) di Francis Bacon, realizzato
nel 1952. Un’amicizia importante, quella con Bacon. Ancora, credo sia sbagliato
ridurre a una questione di forme e colori, l’influenza che questo altro grande
maestro ha avuto su di lui. Certo, qualche tratto “baconiano” si può ravvisare
in alcune sue opere, ma è vedendo come Bacon dipinge, più che quel che dipinge,
che Freud cambia. Si libera, getta la maschera. Mette nei propri quadri tutto se
stesso. Non nasconde al mondo le proprie pennellate: le esibisce. Contano,
ognuna di loro conta. Cambia pennelli. Abbandona quelli di zibellino,
morbidissimi e finissimi, e adotta quelli di cinghiale. Aveva già smesso di
usare velature, di sovrapporre un colore a un altro; da quel momento ogni suo
gesto è fedelmente registrato, amplificato, dai solchi lasciati nel colore da
quelle setole tanto rigide. Diventa, la sua, una pittura in presa diretta. Una
pittura che il grande pubblico conosce soprattutto per i nudi, di uomini e
donne, dipinti dopo quel primo. Nudi che riescono a scandalizzare, a turbare, e
non solo perché spesso continuano a essere delle sue figlie. Ci torneremo.
Intanto, mentre dà l’ultima pennellata al ritratto di Sue, Lucien Freud è
diventato il più famoso pittore “realista” del mondo. Per quei nudi, ma anche
per la sua vita privata. Scandalosa. Due mogli, almeno una dozzina di amanti ufficiali
e, si vocifera, più di cinquecento amanti occasionali. Tanti amori e tanti
figli. Due dal primo matrimonio e almeno quaranta, di cui dodici riconosciuti,
dalle varie amanti.
Vita privata che però non c’è, sulla tela che ha appena
finito. C’è quel divano con il rivestimento liso, riprodotto in ogni dettaglio.
Ci sono le tavole di legno del pavimento. C’è un telone in fondo, a ricordarci
che quel quadro è stato dipinto in uno studio. Forse non più in quello di
Paddington, dove Freud ha lavorato per decenni, ma quello di Kensington, dove
si è trasferito proprio a inizio anni ’90. Studi che il pittore ci svela nei
sui quadri. Senza esibirli, solo dipingendone qualche dettaglio; lasciandoceli,
come in questo caso, intravedere. Sì, un po’ come il vecchio Rembrandt. Studi
attorno cui ruota la sua vita. Da cui passa tutto quello che finisce nei sui
quadri. Anche i suoi rari paesaggi, mostrano quel che si vede dalle loro
finestre. Non viaggia. Anzi, come dice lui stesso, viaggia “verso il basso”.
Entrando nella profondità delle cose. Imprimendosene nella memoria i
particolari, uno a uno, prima di consegnarli alla tela con quelle sue
pennellate tanto deliberate, tanto lungamente e precisamente calcolate.
Anche con Sue ha fatto così. Sulla tela c’è soprattutto
lei, ritratta dall’alto. Una scelta compositiva, come pure il risultato del
modo di lavorare di Freud che, da quando ha cambiato pennelli, per essere più
sciolto dipinge restandosene sempre in piedi. La vediamo che ronfa, con la testa contro un bracciolo e il viso volto verso di
noi. Un braccio è appoggiato allo schienale che afferra con la mano; l’altra
mano le spunta da sotto il corpo e pare
sorreggere un seno massiccio, pesante come tutto quel che è suo. Il nostro
sguardo va subito lì, a quei suoi volumi monumentali, solidi come quelli di una
natura morta di Cezanne. Li descrivono pennellate tanto larghe ed evidenti da
ricordare ancora il Rembrandt più maturo; sono risultato anche del colore usato
per l’incarnato, reso spesso e denso dalla biacca di piombo, il Bianco di Cremitz, che Freud ha adottato
dagli anni ’60 a imitazione del sempre amato Ingres. Un incarnato che domina
visivamente la composizione; una pelle, quella di Sue, che i nostri occhi si
vedono quasi costretti a percorrere in tutta la sua vastità. Pelle come
confine, come scenografia e come sipario. Tutto quel che possiamo sapere di lei,
è in quelle vene che s’intravedono, in quelle pieghe di grasso, in quella cellulite.
Coltiva dei sogni? Ha delle paure? Freud, a differenza di suo nonno, non
pretende saperlo; solo ci mostra, con
suprema abilità, ogni particolare del suo corpo che è riuscito a cogliere in
quei lunghi mesi di osservazione. E’ questo lo rende un “realista”? No, non del
tutto. I grandi artisti non sono mai davvero etichettabili. Freud meno di tanti
altri. La sua arte “esiste a prescindere da sistemi precostituiti e senza
alcuna deviazione”, proprio come prescrive Courbet nel Manifesto del Realismo, eppure la Sue reale non ha mai avuto l’aspetto
che ha quella sulla tela. Mai. Basta pensare proprio a quei suoi centotrenta
chili, che Freud ha reso con tanta
spietata accuratezza. Centrotrenta chili
che però erano forse meno, quando il Freud ha cominciato a dipingere l’attaccatura
dei suoi capelli e che erano diventati qualcuno in più, nove mesi dopo, quando
ha dato l’ultima pennellata all’alluce. O magari il contrario, se si fosse
messa a dieta. Un altro esempio. Freud ha dipinto quadri meravigliosi che hanno
per soggetto le piante che si trovavano nel suo studio: le ha rese foglia per
foglia, con infinita cura, mettendoci anche in questo caso molti mesi. Sicuramente,
nel momento in cui ha dipinto l’ultima foglia, quella da cui aveva iniziato il
proprio lavoro non c’era più o era rinsecchita. E quell’ultima foglia, quando
aveva dipinto la prima, magari neppure esisteva; doveva ancora spuntare. Anche
in questo caso, il soggetto, la pianta, non ha mai avuto l’aspetto di quella
che vediamo sulla tela.
E allora cosa dipinge Freud? L’anima dei soggetti,
verrebbe da dire, ma l’anima in senso aristotelico, più che piscologico. Non è
un espressionista. Non in quadri come quello che ritrae Sue. Non ci sono
forzature, né coloristiche né d’altro tipo. Non ci sono asimmetrie ricercate o tratti
esageratamente marcati. Non c’è nulla messo lì a bella posta per inquietarci. I nudi di Freud ci turbano, come ammettevamo,
ma in un altro modo: piuttosto che esibendo, rifiutando di nascondere, tanto i
piccoli difetti fisici, cui il pittore dedica la stessa cura che riserva a ogni
altro particolare, quanto i segni dell’invecchiamento. Rappresentano corpi come
il nostro; come lo vedremmo se ci
mettessimo davanti ad uno specchio e ci osservassimo in modo altrettanto
spassionato. Corpi che non possiamo
evitare di interpretare come dei memento mori, in questo simili più alle
nature morte seicentesche che all’Urlo
di Munch.
Non che questo renda Freud un barocco, certo. Se dobbiamo
proprio definirlo con una formula, meglio ricorrere alle sue stesse parole: è
un pittore che ritrae le persone “non come appaiono o nonostante come appaiono,
ma per quello che sono”. Meglio ancora, per come lui le ha conosciute, senza
alcuna pretesa di oggettività, senza che voler affidare ai propri quadri alcun
particolare messaggio. Anzi, senza affidarlo ad un quadro particolare, ma,
piuttosto ed implicitamente, alla totalità della propria opera. Ha ritratto
personaggi della malavita e baronetti, gente comune e miliardari. Tutti con la
stessa meticolosità, rivolgendo quella sua attenzione esasperata, a tutti nella
stessa misura. La regina Elisabetta II ha voluto che la ritraesse. Non ha fatto
eccezioni neppure per lei. La sovrana non poteva posare per le centinaia di ore
che gli erano necessarie per dipingere a modo suo? Bene, il ritratto alla fine
glielo ha fatto, splendido peraltro, ma grande quanto una cartolina. Una regina,
ma pure, solo un altro degli “animali umani”, per usare un’altra sua espressione,
che Freud ha catturato con i propri pennelli. Umani tutti ugualmente degni,
tutti fatti della stessa carne e delle stesse ossa; tutti destinati, un giorno,
a fare la stessa fine. Umani chiamati a condividere, per citare un amico di
nonno Sigmund, il vecchio Husserl rimasto intrappolato nella Germania nazista,
lo stesso “mondo della vita”.
P.S. Benefits
Supervisor Sleeping, che in italiano si potrebbe grossomodo tradurre con Supervisore dell’ufficio di collocamento che
dorme, è oggi nella collezione dello zilionario russo Roman Abramovich, proprietario,
tra le altre cose, della squadra di calcio londinese del Chelsea. Devo
ammettere di conoscere il quadro, purtroppo, solo attraverso le riproduzioni.
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