Riporto qui sotto l'ultimo aggiornamento. Mi scuso per non aver pensato prima a questa soluzione ed aver costretto chi mi voleva leggere a far scorrere, ogni volta, tutto il testo.
Dalle
11:27 del 16 alle 14:26 del 21 febbraio 2015 Schiele.
Questo ramo, che spunta appena dalla sabbia. Dico, così, tutto arcuato, con
tutti sti nodi, pare preciso identico a un quadro di Schiele. Alberto d’autunno mosso dal vento.
Almeno, mi pare il titolo sia questo. Mi è sempre piaciuto. Sarebbe piaciuto
anche a Van Gogh, secondo me. Per quel … non so bene come dire … qualcosa di
giapponese. Uno dice Schiele e pensa a Klimt, però. L’allievo e il maestro.
Klimt resta uno dell’Ottocento: un secolo che è durato fino alla Grande Guerra.
Crede ancora nella forma; che si possa ricostruire un ordine. Un po’ come
Matisse. Come Mahler, soprattutto. Veni,
creator spiritus. La Sinfonia dei
Mille. Cos’è? L’Ottava? La
redenzione per via dell’amore; la potenza di quei cori che si alzano a chiedere
un nuovo inizio. Facile immaginare che Klimt, se si fosse occupato di musica,
sarebbe arrivato a comporre qualcosa del genere. Schiele no. Forse alla forma vorrebbe ancora
crederci, ma, malgrado l’esempio del suo adorato maestro, non ci riesce. Non
fino in fondo. Le sue linee si piegano, si torcono, per le tensioni che non
riescono a trattenere. Per tutto quel che la forma non riesce più a tenere a
bada. Linee sottili, prossime al proprio
carico di rottura, come quelle della musica di Webern. Chissà se parlavano di
queste cose, tra loro? Sì, perché per conoscersi, si conoscevano. Schiele,
oltre quello di Schoenberg che tutti
ricordano, si fa per dire, ha dipinto anche il ritratto del suo allievo
prediletto: Webern, appunto. Ad ogni modo, si conoscevano tutti, in quella Vienna E i giovani, gli Schiele, i Webern, i Berg,
erano già come noi. Anzi, erano già noi . Certo che poi è arrivata la guerra, a
ricordare loro che potevano esserci dolori peggiori dei malesseri esistenziali.
Quell’altro quadro di Schiele, l’Abbraccio, del ‘17 o del ’18. Beh, lì la forma
sta già tornando. E c’è l’amore. Non il
sesso, proprio l’amore. Due che si tengono abbracciati, per tenere lontano
tutto l’orrore del mondo. Lascia che uno
nell’altro si sprofondino, per resistersi. Chissà di quando è Die Liebenden di Rilke? Mi sa proprio di
quegli anni. Indifferente. Intanto ero lì con sto ceppo. In qualche modo ero
riuscito a metterlo in piedi, davanti al portellone aperto della UAZ, ma di
caricarcelo da solo non se ne parlava. Pesava troppo. Riuscivo a sollevarlo di
qualche centimetrò, ma niente di più. Olmo faceva un gran tifo, dai Papà, forza
papà, ma sentivo anche il ginocchio sinistro, quello che mi sono sgarrupato,
che faceva Giacomo Giacomo. Insomma, alla fine mi sono rialzato; aveva vinto
lui, il ceppo. Poi non so bene cosa sia successo. Stavo chiudendo il
portellone, convinto di andarmene,
quando qualcosa dentro mi si è mosso. Un po’ il faccino di Olmo, delusissimo
dal suo Papà che si era fatto battere da un pezzo di legno. Un po’ il senso di
ingiustizia davanti al sopruso che mi stava facendo la forza di gravità,
negandomi quel che ormai avrebbe dovuto esser mio per diritto. Forse non per le
leggi dello Stato, anzi credo che quello fosse tecnicamente un furto ai danni
del demanio, ma per tutta la fatica che avevo già fatto. Insomma, non mi sono
indignato. Mi sono proprio incazzato nero.
Ho lasciato il portellone aperto e sono tornato da quello stronzo di
ceppo. Ho piegato per bene le gambe, tenuto la schiena dritta e uno, due, tre,
mondo toro, con un urlo l’ho fatto volare. E se avesse pesato il doppio, sono
sicuro lo avrei sbattuto sul fuoristrada allo stesso modo. Poi ne ho ricavato
due statue, di quelle che faccio solo per me, senza avere la minima intenzione
di venderle.. Nessuno dirà mai che sono dei capolavori, ma c’è dentro quello
che sono, le mie radici; tutto quello che so veramente. Le darò ai miei figli, quando se ne andranno
per la loro strada. Prima o poi, se ho fatto il mio dovere, le capiranno.
Magari quando arrivati a metà cammino, prima di decidere in che direzione proseguire, si volteranno
per vedere da dove provengono.
---------------------------------------------------------------------------------------------------------Un mare di piombo sotto un cielo di biacca. Alte grida di gabbiano nel vento di mezzogiorno. Fa freddo, oggi, alla fine del mondo. E piove, ma da quelle parti non è una notizia. Bel modo d'iniziare un romanzo, un paesaggio marino. Molto romantico, nel senso più proprio del termine. E ti chiedi cosa dipingerebbe, oggi, Caspar Friedrich. Che paesaggio con-sentirebbe con il suo animo. Forse avrei dovuto iniziare con une mela e due carote perse su un davanzale. Sì, è Cotan il pittore delle mia generazione. Quello che meglio la rappresenta. Juan Sanchez Cotan, il pittore del disinganno. O del tempo sospeso. Hopper? Vero, anche nei suoi quadri il tempo è fermo. Sono immagini di perenni attese. Anche lui, il protagonista, attende. Cosa, non lo si capisce. Attende. Beckett? Hai pensato a lui? Beh, forse più attuale oggi di allora, Beckett. Uno di noi. Il protagonista, però, non sta inerte. Non si limita ad attendere; scrive. Un flusso di coscienza? Una serie di indizi, piuttosto. Chissà se i delfini hanno una coscienza? Con un cervello tanto grosso, dovrebbero. E cosa aspetteranno i delfini? Sapranno cos'è la noia? Belle domande. Una famiglia di delfini risale il fiordo quasi ogni giorno. A volte si avvicinano tanto alla spiaggia che a lui pare di poterli guardare negli occhi. E' soprattutto durante quegli incontri, che si pone domande su di loro. Un banco di grassi sgombri dai dorsi striati che nuotano lenti nella corrente: Sogneranno cose del genere, i delfini? Lui se lo chiede. Gli pare pure che anche i delfini a loro volta, lo stiano osservando. Un tempo si sarebbe curato della loro opinione. Non più. Ha nietzchianamente deciso d'essere, perlomeno stamane (certo che nietzchianamente è orribile). Passare per una foca tanto stupida da non saper nuotare, però, lo disturberebbe. Del proprio abbigliamento, ad ogni modo, non ha più la minima cura. Ai delfini non importa. E poi, si può nietzchianamente essere in giacca e cravatta? Forse sì, ma solo con una giacca scura, di un bel taglio classico. Armani, meglio Armani. Un tempo non riusciva ad esprimere la propria personalità con meno di 3000 euro. Scarpe incluse, eh. Poi è maturato, o gli sono finiti i soldi. Di certo, adesso, per esprimersi, scrive. I delfini, invece, vestono sempre classico. Che i cetacei siano dei conformisti? O dei conservatori? Un delfino americano che vota repubblicano, però, non riesce proprio ad immaginarselo. I delfini anzi, gli sono sempre sembrati di sinistra; perlomeno socialdemocratici. Hippies? A volte lo sospetta. Solo sospetta: non li ha mai visti fumare niente di strano. Loro, i delfini, di politica non vogliono parlare. Riservati come vecchi democristiani, a ripensarci. (Domandina per tutti. Avete mai visto un razzista bello?) Quando aveva vent'anni, gli hippies non c'erano già più. Non che dalle sue parti fossero mai arrivati. I democristiani, invece, c'erano ancora. Ma leggere Kerouac faceva fico. Anche saperlo scrivere: Ke-ro-uac. Si sognava una vita on the road. Erano sogni usati; vecchi di trent'anni. Kerouac scrisse On the road tutto di un fiato, vuole la leggenda: qualche giorno e qualche notte a pestare senza sosta sulla macchina da scrivere, su un rotolo di carta lunghissimo, infinito, per non perdere tempo a cambiare i fogli. Un'impresa eroica, come una fuga solitaria in una tappa pirenaica di un Tour di quegli anni. Chissà che beverone usava Kerouac? Lui va di porto e noci. Poco porto e solo qualche noce: ci deve stare attento. Un po' per il fegato e un po' per la bilancia. E poi non si può nietzchianamente essere in sovrappeso: poco ma sicuro. Sogni che facevano viaggiare, anche se non lungo le strade d'America. Troppo lontana l'America. Almeno 800 mila Lire, andata e ritorno. L'Europa invece era lì, che passava sulla provinciale. Un sacco a pelo, un pollice al cielo e si andava. Certe volte con la macchina di qualcuno. Si faceva colletta per i soldi della benzina e ... via. Monaco. Sembrava dietro l'angolo. In tanti si è cominciato così. Per l'Oktoberfest. Davvero bella. E si conosceva un sacco di gente simpatica. Uno non lo direbbe, infatti, ma i tedeschi hanno la sbronza allegra. Difficile che si finisse per scopare, almeno a lui non è mai capitato Di limonare, invece, capitava quasi di sicuro. Lei sapeva di portacenere usato. E anche tu per lei. Meraviglioso. Meglio fermarsi. Insopportabili i ricordi post-adolescenziali. Specie se conditi di nostalgia Nostos - algos. Il dolore del ritorno. L'Odissea il massimo dei Nostoi. Ma si può avere nostalgia di se stessi? Se sì, allora ci si è abbandonati. Scrivere in presa diretta di avventure giovanili: una ricetta per il disastro. Se poi si condisce il tutto con un po' di sesso, è immondizia letteraria quasi garantita. Però con l'idea di finire a letto con francesi, tedesche o quello che fosse, cucivamo assieme l'Europa. No, troppo cinica questa frase; da sfigato di mezza età. Si sognava l'amore, come credo lo si sogni ora, quando non si hanno neanche vent'anni: poi magari lo si trova sotto casa, ma per cercarlo si andrebbe anche sulla luna. Lui romanzi d'amore non ne legge. Di sicuro non ne scriverà mai. Perché non conosce l'amore? Il contrario; lo conosce benissimo. E sa che non si può spiegare. Non con le parole. Scriverne gli pare un inutile tentativo di fornire ragioni a qualcosa che accade a prescindere Nelle faccende del cuore, vale la proposizione 7 del Tractatus Logico-Philosophicus. Certo che Wittgenstein non si sarebbe aspettato d'essere tirato in ballo, parlando di romanzi rosa. Si può descrivere l'attrazione sessuale; un paio di tette o di chiappe, ma non spiegare l'amore con la forma di un nasino o la leggiadria di un passo. Dell'ineffabile, insomma, meglio tacere. Ci si sentiva a casa ovunque. O forse no, solo si voleva fosse così. I confini degli stati, ad ogni modo, non c'entravano molto. Per lui, nato in un buco della Brianza, nel pieno del New Jersey italiano, la campagna Toscana non era meno esotica della Champagne o del Connemara. Non importava, però. Era fortissima l'idea che l'Europa fosse tutta nostra. Tutta di tutti noi. Ci si conosceva, tra italiani, spagnoli e danesi e di qualunque altro posto. Si stava negli stessi ostelli; si finiva nelle stesse birrerie o spiaggiati negli stessi autogrill. Qualche volte si litigava, ma come si sarebbe litigato tra noi, né più né meno. Cose da nulla per motivi da nulla. Soprattutto ci si scopriva uguali. Tutti, davvero, europei. “Adenauer, Schumann, De Gasperi” si è ritrovato a pensare “assieme a loro dovrebbero mettere anche noi, in un francobollo celebrativo dei padri dell'Unione Europea, con gli zaini in spalla, il pollice alzato e in mano una pezzo di cartone grande come una cartolina: una freccia e, scritto a penarello, Lyon, Stuttgard o un altro nome di città”.
Avevano anche
una lingua in comune; l'inglese, appunto. L' aveva data loro l'America, come
quasi tutto quello che li univa: film, telefilm e musica. Certe canzoni
arrivavano ancora da Londra, è vero, altre da Amsterdam, Ibiza o Rimini.
L'immaginario comune europeo, però, era made in Hollywood. E con questo i
rapporti transatlantici dovrebbero essere sistemati. Le letture, no. Non tutte
venivano dall'America. Solo la maggior parte. Sartre e Camus? No, per quelli
bisogna andare dai nostri fratelli maggiori. Hesse, piuttosto, era un must. Siddartha, ovviamente. Un gran libro, e di
poche pagine: importante, per gente che, in fondo, stava smettendo di leggere.
Tedesco, Hesse. Per far colpo su un'olandese o una greca, però, degli
insegnamenti del Gotama si parlava in inglese. Male di solito, con un accento
da brividi per un suddito di sua maestà britannica, ma non tanto male da non
capirsi. Inglese d'America, ovvio. Nessuno, sul continente, avrebbe chiamato lorry un truck, per intenderci.
E chi se ne
frega? Solo per dire che avevano dei sogni, loro. Un'innocenza. Non ci sono
colpevoli a vent'anni. Allora come adesso. Si è solo giovani. Miller. Dico,
Henry Miller. Non è del tutto vero che non si possano tirar fuori dei libri
decenti mescolando un po' di sesso ai ricordi di gioventù, ma la gioventù
bisogna passarla a Parigi, e andando a letto con Anais Nin. Mica male neanche Il delta di Venere, a ripensarci. E dire
che a lui i racconti di solito non piacciono. Meglio, non gli piacevano un
tempo. Voleva libri in cui immergersi allora: grembi letterari in cui
rifugiarsi dalle paure del mondo; di una maturità che avanzava inesorabile.
Almeno, sul calendario. Nulla di troppo diverso da quello che i ragazzi fanno
oggi, con la testa infilata dentro i videogiochi o le mille altre diavolerie
che passano sugli schermi di computer e telefonini. Era lo stesso anche il velo
di affettata strafottenza a nascondere il dubbio che rodeva dentro: ce la farò
a … ad Essere? Romanzi fiume, allora. I russi? Sì, Ma anche i grandi successi
della letteratura commerciale. Nomi che girano ancora oggi, anche se ricorda
solo quello di Ken Follet. Il vento ha rinforzato. Potrebbe essere una
tempesta, quella che sta arrivando. Steinbeck. La valle dell'Eden. Quello era un grande romanzo che gli era
piaciuto. Lo avrà letto a sedici anni, forse a quindici. Una luce sul mare aperto,
oltre il faro. Un grosso peschereccio, probabilmente. I mercantili passano più
lontano; tanto da non essere visibili dalla riva. Venti anni fa una petroliera
si è spezzata in due, mentre navigava sotto costa: un disastro, una strage di
pesci e gabbiani. Sulla spiaggia ancora si incontrano minute perline traslucide
di catrame. Per questo ora obbligano le grandi navi a starsene a decine di
miglia dal capo. Peccato. Gli sarebbe piaciuto vederle navigare e chiedersi da
dove venissero o dove andassero. Fantasticare. Gli riesce ancora. A volte.
Dov'è cresciuto, di navi non ce n'erano. Solo rombavano via i tir, come canta
il poeta. Sognava con quelli: viaggi interminabili, da Capo Nord a Istambul.
Poi le autostrade d'Europa le ha percorse davvero tutte. Poi. Ma questa è un
altra storia. E i pescherecci come quello, sì è proprio un peschereccio, non
sono tir; assomigliano a trattori, piuttosto, fuori da mattina a sera ad arare
sempre gli stessi campi. E fanno una vita da contadini i pescatori. I
faticatori del mare: tanto sudore e nessuna avventura, solo il rischio di
lasciarci le penne. Cronin. Qualcuno lo legge ancora? Il villaggio dove vive,
sembra uscito dalle sue pagine. Solo la disgrazia che tutti temono, anzi
aspettano, perché non altro che questione di tempo, non è un crollo in miniera
ma l'affondamento di una barca da pesca. Un guasto al motore, mentre getta le
reti a ridosso degli scogli, e sono dodici morti affogati, anche quando il mare
è calmo. E lì non è mai calmo.
Non è un
caso, se quella a ridosso di capo Finisterre è chiamata Costa da morte. Sì, morte,
non muerte: certe parole galiziane
sono identiche a quelle italiane. Melodrammatico? No, drammatico e basta. I
galiziani, per natura, non esagerano. Parlano poco, ma sorridono molto. Bevono
forse un po' troppo, ma dal Donegal in giù lo fanno tutti: un effetto del Nord
Atlantico, probabilmente. Certo che anche la vicinanza delle Alpi fa bere, gli
viene da aggiungere, ricordando i nasi avvinazzati dei vecchi che giocavano a
carte ai tavoli della bocciofila: rari scoponi scientifici e infinite briscole
etiliche sotto i tigli. Quegli alberi non ci sono più, e neanche i campi di
bocce; al loro posto hanno costruito un centro commerciale: un enorme cubo di
intonaco, di un assurdo colo rosa, con una gigantesca insegna finto inglese.
Anche la volgarità è apolide. Gli dispiace per i tigli, ma non ha nessuna
nostalgia della bocciofila, nonostante fosse solito andarci a prendere il
gelato, prima, e le sigarette, poi. Era solo a due passi da casa. Quei
vecchietti, però, mai del tutto sbronzi, mai, neanche alle otto del mattino,
davvero sobri non li aveva mai sopportati. Non che importunassero i clienti o
lui in particolare, ma di loro tutto gli dava, comunque fastidio. Il tono
sempre rancoroso delle loro voci, il loro dialetto tanto chiuso da essere
difficilmente comprensibile anche a lui, che lì era nato e cresciuto. Neppure
il loro abbigliamento, gli piaceva: I pantaloni stirati con la riga o di
fustagno , le camicie bianche o di flanella. Erano, loro e i loro vestiti,
insopportabilmente arcaici; si portavano dietro il ricordo di un odor di stalla
del tutto fuori posto con gli anni '80 alle porte. E poi, se uno proprio doveva
essere alcolizzato, almeno che lo fosse come Harry Chinasky: eroicamente e
giocando a poker. Ovvio che ha letto Bukowski. A dire il vero un po' dopo:
quando Ronald Reagan sorrideva già da tutti i teleschermi del mondo libero.
Libero, ma con Ronald Reagan che sorrideva da tutti i teleschermi . Ovvio pure
che il vecchio Buko lo affascinasse. No, non in senso alcolico, al punto di
indurlo a bere più di qualche birra. Neppure per quanto riguarda le zoccole che
affollavano i sui libri; avrebbe voluto conoscerne, ma in giro lui trovava solo
ragazze per bene, o che non lo erano, non andavano a dimostrarlo a lui.
Bukowski lo convinse di poter scrivere. Non avesse letto Post Office non si sarebbe fatto tentare dalla prima Antares. Uno
non può alzarsi un mattino e dirsi: adesso mi metto a scrivere I Buddenbrock. Ma di rifare Factotum può sentirsela eccome, anche se
non riesce a beccare un congiuntivo che sia uno. Sembra così facile scrivere a
quel modo; senza pretese, come viene. Sembra. Arriva la sera e ti sistemi per
bene: sigaretta che ti pende dalla bocca, lattina di birra aperta sul tavolo,
una cassetta di musica jazz, meglio un sax, proprio come immagini faccia il
vecchio porco. Appoggi le dita ai tasti della macchina da scrivere di seconda
mano che ti sei comprato quel pomeriggio e fissi il foglio bianco davanti a te.
Lo fissi e resti lì ipnotizzato perché su quel foglio non hai proprio niente da
mettere. Perché non puoi raccontare una vita che devi ancora vivere. Alla fine,
però, una mezza paginetta, l'inizio di un racconto o va a sapere cosa, riesci a
riempirla. Una schifezza che se rileggessi adesso ti verrebbe l'ulcera, ma
allora non era adesso, e quella sera, con il sassofono che suonava e la birra
che era diventata calda, ti sei sentito per la prima volta “oh yes” uno
scrittore. E hai scoperto la tua vocazione e, probabilmente, ti sei rovinato la
vita. Non importa. I maestri, almeno agli inizi, dovrebbero essere proprio come
Bukowski; essere dei modelli, ma non di sovrumana perfezione. Devono guardarti
negli occhi e farti capire che se vuoi, puoi essere come loro. Anzi, meglio di
loro. No, ferma tutto. Ci mancherebbe solo che si mettesse a pontificare. Non
finisce a parlare alle onde, chi ha lezioni da dare: almeno questo ha l'onestà
di ammetterlo E poi ci sono già fin troppi profeti, in circolazione, di questi
tempi. Traccia una riga tra cielo e mare il basso volo di un cormorano: è il
più comune degli spettacoli, lungo quella lingua di sabbia, eppure riesce
ancora a stupirlo. Quanto è nitida, precisa, quella traiettoria: sì, proprio
come la riga che ha imparato a fare, alle elementari, sotto alle colonne di
somme. Un volo di cormorano a sigillare il bilancio di una vita. Si stupisce
anche della straordinaria sensibilità del proprio animo, capace di cogliere
un'immagine così squisitamente poetica, poi si infila una mano nei pantaloni
della tuta (Sergio Tacchini, ma comprati in saldo) e si dà una toccata:
"Una vita? E no, eh; per almeno altri trent'anni voglio restare ancora
qui".
Rilke o la maestra Belloni? Le Lettere a un giovane poeta, anche se le ha lette solo per modo di dire, o il ricordo di chi gli ha insegnato a fare i conti, con carta e panna, in una scuola elementare sorvegliata da un alpino di bronzo che moriva baciando il tricolore? Perché sarà vero che la coscienza fluisce, ma uno potrà pure decidere da che parte farla scorrere. "Dulce et decorum est pro patria mori". Erano di bronzo anche le lettere della scritta appiccicata al piedistallo di granito, una specie di grosso cippo, su cui stava l'alpino. Con il latino non è andato molto oltre, ma non è per questa ragione che oggi, per lui, Dolce et decorum est è, prima che il verso di un ode di Orazio, il titolo di un poema di Wilfred Owen. Quando era bambino, di morti per la Patria ce n'era almeno uno per famiglia: zii restati sotto una coperta di neve in Russia e nonni rimasti sfracellati da una granata o croceffisi dai reticolati sulle rive dell'Isonzo. E c'erano i racconti di chi era tornato, soprattutto. Storie raccontate a bassa voce, anche quelle della guerra partigiana, in certi casi soprattutto quelle, che toglievano qualunque illusione che morire per la Patria, oltre che onorevole, potesse anche essere dolce. Owen. Lui si è ripromesso di non parlare troppo di sé, di quel che rende la sua storia diversa, e di raccontare invece di quel che pensa l'accomuni a quelle degli altri: per questo, non vorrebbe neppure sciorinare letture non condivise dalla maggioranza dei suoi coetanei. Se potesse, però, metterebbe la raccolta delle poesie di Owen, sconosciute o quasi in Italia, nelle mani di ogni ragazzo. E' morto per la Patria anche il poeta, per sua sfortuna proprio alla fine della Grande Guerra, ma prima di andarsene, con un pietoso colpo in fronte, o tagliato in due da una scheggia di grosso calibro, è riuscito a lasciarci la propria testimonianza. Versi di un realismo atroce. Terribili. Un vaccino contro le febbri nazionaliste da rendere obbligatorio, come un tempo era quello contro il vaiolo.
Inutile. Per quanto ci provi, non riesce a stare lontano dalla retorica. Un problema tutto suo, deve ammettere, che ha poco a che vedere con i tempi in cui si è trovato a vivere. Forse avrebbe dovuto fare il prete, o il predicatore protestante, ma è proprio a cavallo della sua generazione che è sparita ogni residua traccia di retorica, volatilizzatasi a cavallo del secolo assieme alla ideologie che l’avevano ispirata. Un evento da celebrare? Qualcuno lo ha pensato. Come si chiamava, quello che ha scritto Fine della storia? Fukuyama, se si scrive così. Uno di quei libri che tutti citano e pochi hanno letto. Beh, lui l'ha fatto, ma non la tesi del giapponese, o forse nippo-americano, non l’ha bevuta. Il definitivo trionfo planetario della democrazia liberale e dei suoi valori? Per quanto lo aveva riguardato, Fukuyama avrebbe potuto restarsene a Yale o dove fosse a raccontarsela. Vorrebbe poter dire di aver capito da solo, ragionandoci sopra, come quella fosse una bufala. Semplicemente, nel 1992, quando era uscito quel libro, aveva già visto abbastanza mondo da capire come non ci fosse nulla di fisiologico, naturale e inevitabile, nella democrazia. E, soprattutto, aveva letto Pasolini. Quello sì che era un vero profeta, PPP, capace di vedere decenni avanti. Levati di torno gli ideali, ridotti a meri produttori-consumatori, a componenti massificate di un meccanismo puramente economico, questo il succo del 3P-pensiero, i cittadini avrebbero finito per non riconoscere valori diversi da quelli contenuti nei propri portafogli. “Ed è andata esattamente così. Già a metà anni ’80, l’unica cosa che importasse sapere di qualcuno, era quanto guadagnava”. Un sano pragmatismo, dopo i milioni di morti causati dalle ideologie. Era questo il carattere di quella che allora si iniziava comunemente a chiamare post-modernità? No. Venute meno le identità collettive, le chiese come i partiti, il carattere dominante del panorama umano, quel che un osservatore esterno avrebbe subito riconosciuto, era la solitudine. Mascherata da una isterica allegria, come quella di tante canzonette di quegli anni, ma reale, pesante. Disperata. Anche per i vincitori; anche per chi si ritrovava sommerso dal denaro. Non sono solo le letture a fargli dire queste cose. “E i Righeira mi facevano scoppiare di tristezza. Altro che vamos a la playa”. Ne ha conosciuti anche lui di Gatsby di provincia, strafatti di coca già a mezzogiorno, per reggere il ritmo, sopportare la pressione e continuare a pompare. Per salire più su. Sempre più su e sempre più soli. Poi? L’economia ha cominciato a non girare, i soldi hanno iniziato a scarseggiare e ai Gatsby, e ai tanti che avrebbero voluto essere come loro, non erano rimaste che le solitudini. Feroci. E nessun freno; nessuna asticella morale, per quanto bassa, da superare almeno in apparenza. Oltre l’egoismo, appunto, nessuna retorica. Post-modernità. Lo sapranno, i delfini, di aver attraversato la post-modernità? Perché, lui ne è sicuro, questa non avrà ancora un nome, ma è già un'altra epoca. (Sta esagerando? Non gli importa. Dopo la tirata di prima i lettori casuali se ne saranno già andati). La fine delle grandi narrazioni, scriveva proprio Lyotard, spinge l'uomo post-moderno alla ricerca di nuove giustificazioni alla coesione sociale, di nuovi criteri di legittimazione che abbiano valore locale. “Magari non diceva proprio così, ma quasi. Certo in modo molto più incasinato, ma se uno sapesse scrivere mica farebbe il filosofo”. La ricerca, ad ogni modo, ormai è finita. E’ stata già ritrovata la colla magica necessaria a tenere assieme l’industrialotto, che ha trasferito la baracca in Bulgaria, e l’operaio che ha mandato a spasso, magari con due figli e un mutuo da pagare. A cuocerla nei loro calderoni sono gli stregoni che emergono dopo ogni tragedia; i purificatori sempre pronti ad appiccare il fuoco della pira sui cui bruciare gli untori. Gli ingredienti? “Il sangue e la razza. I miti di un’Europa pre-classica, buia quanto le proprie foreste, che non ha ancora conosciuto o ha dimenticato, la luce d’Apollo e della ragione”. Questo, però, lo dice solo tra sé, quando vuole sentirsi un intellettuale. Se qualcuno, invece, può ascoltarlo, allora sbotta: “Tutto il peggio che era finito nelle fogne della storia, tirato fuori da un branco di sfigati cresciuti all’ombra del campanile”.
Rilke o la maestra Belloni? Le Lettere a un giovane poeta, anche se le ha lette solo per modo di dire, o il ricordo di chi gli ha insegnato a fare i conti, con carta e panna, in una scuola elementare sorvegliata da un alpino di bronzo che moriva baciando il tricolore? Perché sarà vero che la coscienza fluisce, ma uno potrà pure decidere da che parte farla scorrere. "Dulce et decorum est pro patria mori". Erano di bronzo anche le lettere della scritta appiccicata al piedistallo di granito, una specie di grosso cippo, su cui stava l'alpino. Con il latino non è andato molto oltre, ma non è per questa ragione che oggi, per lui, Dolce et decorum est è, prima che il verso di un ode di Orazio, il titolo di un poema di Wilfred Owen. Quando era bambino, di morti per la Patria ce n'era almeno uno per famiglia: zii restati sotto una coperta di neve in Russia e nonni rimasti sfracellati da una granata o croceffisi dai reticolati sulle rive dell'Isonzo. E c'erano i racconti di chi era tornato, soprattutto. Storie raccontate a bassa voce, anche quelle della guerra partigiana, in certi casi soprattutto quelle, che toglievano qualunque illusione che morire per la Patria, oltre che onorevole, potesse anche essere dolce. Owen. Lui si è ripromesso di non parlare troppo di sé, di quel che rende la sua storia diversa, e di raccontare invece di quel che pensa l'accomuni a quelle degli altri: per questo, non vorrebbe neppure sciorinare letture non condivise dalla maggioranza dei suoi coetanei. Se potesse, però, metterebbe la raccolta delle poesie di Owen, sconosciute o quasi in Italia, nelle mani di ogni ragazzo. E' morto per la Patria anche il poeta, per sua sfortuna proprio alla fine della Grande Guerra, ma prima di andarsene, con un pietoso colpo in fronte, o tagliato in due da una scheggia di grosso calibro, è riuscito a lasciarci la propria testimonianza. Versi di un realismo atroce. Terribili. Un vaccino contro le febbri nazionaliste da rendere obbligatorio, come un tempo era quello contro il vaiolo.
Inutile. Per quanto ci provi, non riesce a stare lontano dalla retorica. Un problema tutto suo, deve ammettere, che ha poco a che vedere con i tempi in cui si è trovato a vivere. Forse avrebbe dovuto fare il prete, o il predicatore protestante, ma è proprio a cavallo della sua generazione che è sparita ogni residua traccia di retorica, volatilizzatasi a cavallo del secolo assieme alla ideologie che l’avevano ispirata. Un evento da celebrare? Qualcuno lo ha pensato. Come si chiamava, quello che ha scritto Fine della storia? Fukuyama, se si scrive così. Uno di quei libri che tutti citano e pochi hanno letto. Beh, lui l'ha fatto, ma non la tesi del giapponese, o forse nippo-americano, non l’ha bevuta. Il definitivo trionfo planetario della democrazia liberale e dei suoi valori? Per quanto lo aveva riguardato, Fukuyama avrebbe potuto restarsene a Yale o dove fosse a raccontarsela. Vorrebbe poter dire di aver capito da solo, ragionandoci sopra, come quella fosse una bufala. Semplicemente, nel 1992, quando era uscito quel libro, aveva già visto abbastanza mondo da capire come non ci fosse nulla di fisiologico, naturale e inevitabile, nella democrazia. E, soprattutto, aveva letto Pasolini. Quello sì che era un vero profeta, PPP, capace di vedere decenni avanti. Levati di torno gli ideali, ridotti a meri produttori-consumatori, a componenti massificate di un meccanismo puramente economico, questo il succo del 3P-pensiero, i cittadini avrebbero finito per non riconoscere valori diversi da quelli contenuti nei propri portafogli. “Ed è andata esattamente così. Già a metà anni ’80, l’unica cosa che importasse sapere di qualcuno, era quanto guadagnava”. Un sano pragmatismo, dopo i milioni di morti causati dalle ideologie. Era questo il carattere di quella che allora si iniziava comunemente a chiamare post-modernità? No. Venute meno le identità collettive, le chiese come i partiti, il carattere dominante del panorama umano, quel che un osservatore esterno avrebbe subito riconosciuto, era la solitudine. Mascherata da una isterica allegria, come quella di tante canzonette di quegli anni, ma reale, pesante. Disperata. Anche per i vincitori; anche per chi si ritrovava sommerso dal denaro. Non sono solo le letture a fargli dire queste cose. “E i Righeira mi facevano scoppiare di tristezza. Altro che vamos a la playa”. Ne ha conosciuti anche lui di Gatsby di provincia, strafatti di coca già a mezzogiorno, per reggere il ritmo, sopportare la pressione e continuare a pompare. Per salire più su. Sempre più su e sempre più soli. Poi? L’economia ha cominciato a non girare, i soldi hanno iniziato a scarseggiare e ai Gatsby, e ai tanti che avrebbero voluto essere come loro, non erano rimaste che le solitudini. Feroci. E nessun freno; nessuna asticella morale, per quanto bassa, da superare almeno in apparenza. Oltre l’egoismo, appunto, nessuna retorica. Post-modernità. Lo sapranno, i delfini, di aver attraversato la post-modernità? Perché, lui ne è sicuro, questa non avrà ancora un nome, ma è già un'altra epoca. (Sta esagerando? Non gli importa. Dopo la tirata di prima i lettori casuali se ne saranno già andati). La fine delle grandi narrazioni, scriveva proprio Lyotard, spinge l'uomo post-moderno alla ricerca di nuove giustificazioni alla coesione sociale, di nuovi criteri di legittimazione che abbiano valore locale. “Magari non diceva proprio così, ma quasi. Certo in modo molto più incasinato, ma se uno sapesse scrivere mica farebbe il filosofo”. La ricerca, ad ogni modo, ormai è finita. E’ stata già ritrovata la colla magica necessaria a tenere assieme l’industrialotto, che ha trasferito la baracca in Bulgaria, e l’operaio che ha mandato a spasso, magari con due figli e un mutuo da pagare. A cuocerla nei loro calderoni sono gli stregoni che emergono dopo ogni tragedia; i purificatori sempre pronti ad appiccare il fuoco della pira sui cui bruciare gli untori. Gli ingredienti? “Il sangue e la razza. I miti di un’Europa pre-classica, buia quanto le proprie foreste, che non ha ancora conosciuto o ha dimenticato, la luce d’Apollo e della ragione”. Questo, però, lo dice solo tra sé, quando vuole sentirsi un intellettuale. Se qualcuno, invece, può ascoltarlo, allora sbotta: “Tutto il peggio che era finito nelle fogne della storia, tirato fuori da un branco di sfigati cresciuti all’ombra del campanile”.
No, non ha
mai imparato a tacere. Se ne fosse rimasto zitto, forse non sarebbe lì, a
guardare le impronte lasciate dai propri passi sulla bassa marea. Anche in
questo, non rappresenta quello che è stato il suo mondo. Tanti, quasi tutti,
tra quelli che ha conosciuto, a tacere hanno imparato eccome. Muti e immobili,
come pesci che si fanno trasportare dalla corrente. Omertà mafiosa e vori mia dì (non vorrei dire) lombardo.
Chi pensa che gli italiani siano dei chiacchieroni proprio non li conosce: se
c'è una cosa che li unisce è il silenzio. La capacità di restarsene zitti.
"Di farsi i cazzi loro". Naturale ritrosia ad esporsi di un popolo
che ha conosciuto mille dominazioni? Palle. Nella maggior parte dei casi, solo
individuale e assai post-post moderno cinismo. Paraculismo diarroico, gli viene
di chiamarlo, per combinare in un’espressione il ricordo della società liquida
di Bauman e il disgusto per la rete di vischiose complicità che genera e da cui
è generato. Chissà cosa ne avrebbe detto Rosetta? La Rosetta, anzi, perché, da
buona lombarda di una volta, al determinativo ci teneva. Quanti anni avrà avuto
nel gennaio del ‘44? Forse intorno ai trenta. Era una serata fredda. Doveva
esserlo; il mese era quello e si era a Legnano.
Doveva fare freddo anche sul tram che Rosetta e le sue compagne avevano
preso, come tutte le sere, per tornarsene alla casa, dopo la giornata passata ai
telai di una tessitura. Fuori dai finestrini ci sarà stata le nebbia. Lungo le
strade, forse la neve. All'improvviso una frenata. Lo stridere dell'acciaio
delle ruote su quello dei binari. Un’autoblinda tedesca stava di traverso sulle
rotaie. Un posto di blocco. No, non erano SS. Anche a ottant'anni, quando l'ha
conosciuta, Rosetta ricordava le mezzelune di metallo che luccicavano sui petti
di quei soldati: erano della polizia militare, la Feldgendarmerie. Rosetta e le
sue amiche, sedute sulle assi della panchina in fondo alla vettura, hanno subito
smesso di scherzare. Non avevano niente da nascondere, loro. Lavoravano e
basta, loro. Ma quelli erano davvero tempi cupi. Solo un paio di giorni prima
c'era stata una retata alla Franco Tosi, l'industria meccanica che dava lavoro
a mezza città. Sei operai erano stati arrestati. Antifascisti, si diceva. Già
fucilati, si diceva pure. Non erano solo preoccupate, Rosetta e le altre.
Avevano paura. Negli occhi di un ragazzo, invece, c’era il terrore. Avrà avuto
vent’anni, ma ne dimostrava meno. Rosetta si ricordava perfettamente anche di
lui: piccolino, magro magro e degli occhialetti tondi di metallo. Un ebreo o un comunista come Luigi, suo marito, che si ostinava a rischiare la
pelle per distribuire qualche copia dell’Unità. Questo ha pensato Rosetta,
quando se lo è visto davanti tremante, incapace di muoversi: una foglia secca
d'uomo appesa con un picciolo di mano a una correggia che scendeva dal tetto
della vettura. Lei ha pensato, ma la Irma si è mossa. Un donnone la Irma. Aveva
già passato i 40, ma sprizzava energia ed
era sveglia: tanto che in fabbrica, dove con la guerra erano venuti a mancare
gli uomini, l’avevano fatta capo. E col piglio del capo, prima aveva sbraitato
un ordine al ragazzo, poi, visto che questi non sembrava capire, o la paura l'aveva paralizzato, con
uno scatto si era alzata e, mentre le porte del tram già si stavano aprendo, prima
lo aveva scaraventato tra le gambe di Rosa e poi, con uno strillo e un calcio
non troppo amorevole, lo aveva mandato ad infilarsi sotto la panchina. Tutto in
fretta, svelta come una gatta. Tanto che quando il primo gendarme era salito a
bordo, lei era già tornata a sedersi accanto a Rosetta. “Non so mica le altre,
ma io c’avevo una fifa che non capivo più niente”, gli ha narrato lei, mezzo
secolo dopo, “quando sti qua sono arrivati in fondo da noi a chiedere i
documenti. Ad ogni modo, abbiamo tirato giù le gonne fino alle caviglie,
sperando che non lo vedessero lì sotto, e abbiamo sorriso. E’ andata bene. Lui
è sceso la fermata dopo e io sono qui che posso raccontartela”. Lui sorride
ricordando i suoi occhietti che luccicavano furbi in mezzo alle rughe, ma non
capisce perché Rosetta gli sia venuta in mente proprio ora. Era stata protagonista
di un atto coraggioso, certo, ma pure lontana da qualunque ideologia; blandamente
cattolica, ma per il resto incredula di qualunque grande narrazione come e più di
qualunque neo, iper, post o post-post moderno, liquido o solido. Comunista era
stato suo marito e solo fino alla Liberazione: altro bell'esempio di
opportunista al contrario, aveva visto fare dai compagni cose che non gli erano
piaciute e, poco dopo il 25 aprile, se n'era andato dal partito, pur
continuando a professarsi di sinistra: “Sarò sempre progressista, perché ho
sempre creduto nel progresso”. Questo, però, solo lui. La Rosetta, invece, di
politica non ne aveva mai voluto sapere Forse votava come le suggeriva il marito. Forse, subito dopo
la guerra, aveva votato DC, come doveva averle suggerito il parroco, ma non si
poteva dire che fosse di questa o quella parte; al massimo che fosse rimasta un
po' mussoliniana perché: “Il crapone ne ha sbagliare tante, ma se in fabbrica le
40 ore non le portava lui ...”. Lui sorride ancora, ricordando gli sbuffi con
cui Luigi, gran cuoco di pesce tra mille altre cose, commentava quelle uscite
della moglie. Resta lì con loro, in quel tinello di un appartamentino alla
periferia di Como, e li rivede raccontare un altro episodio. Questo, è dell’aprile
1945. La guerra stava per finire e le fabbriche erano chiuse. C’erano stati
sono anche dei bombardamenti, a Legnano, con tanti morti. Abbastanza da
convincere Rosetta e Luigi, con i loro due bambini, a andarsene in campagna, in
un posto tranquillo, a casa di parenti; contadini che abitavano in una grande
fattoria, una cascina, in un borgo che allora era rimasto agricolo nonostante
fosse a pochi chilometri da Como. Di fascisti, in giro, non se ne vedevano più;
i pochi che si ostinavano ad indossare la camicia nera restavano ormai asserragliati nel capoluogo,
ad aspettare la fine. Di tedeschi, in quel paesino troppo piccolo e decentrato
per attrarre il loro interesse, non ne videro neppure uno fino al 25 aprile, quando
cominciarono a passare, lungo la statale lì vicino, i primi tra quelli che se n’erano
andati da Milano, lasciata nelle mani dei partigiani. All’inizio erano stati
interi reparti, a bordo di autocarri ed automobili, a volte scortati da qualche
raro blindato, a transitare diretti verso la Svizzera, dove pensavano di potersi
rifugiare. Dietro a loro erano arrivati dei soldati appiedati, ma che ancora
marciavano inquadrati, conservando la disciplina. Rosa, Luigi e gli altri abitanti della cascina
restarono ad osservare queste fasi della ritirata da lontano; saranno pure
stati degli sconfitti, quelli là lungo
la strada, ma erano pur sempre tedeschi e, per giunta, armati. Osarono
avvicinarsi solo dopo un paio di giorni “mah, sarà stato il 27, forse anche il
28” e con infinita prudenza. L’avrebbero potuta evitare. I tedeschi rimasti
appartenevano a piccoli gruppi di sbandati, ed erano spesso disarmati. Avevano
ancora la divisa addosso, ma non avevano nulla di militare. Erano solo anziani
e ragazzini “uomini in età da soldato, tra quelli lì quasi non ce n’era” che
stavano cercando di tornarsene a casa. Sporchi, pieni di polvere, con le facce
lunghe e gli occhi da fame. Rosetta, Luigi e i loro parenti contadini se ne
sono rimasti ai bordi della strada per un po’, a vedere i tedeschi che
passavano via guardandosi la punta degli stivali, poi sono tornati alla cascina
e, senza troppi dibattiti, si sono messi a fare quel che pensavano si dovesse
fare. Avevano solo patate, niente altro, ma di quelle ne erano rimasti loro
quintali, nascosti sotto la paglia del fienile. Ne hanno prese tante da riempire
un pentolone, le hanno lessate con la loro buccia, e dentro quello stesso
pentolone, le hanno portate a quelli che fino a pochi giorni prima erano i
nemici. “E mica solo una volta. Finito quel pentolone, ne abbiamo preparato un
altro, e poi un altro ancora. E l’ultimo glie lo abbiamo lasciato a quelli che
passavano di notte. La mattina le patate erano sparite, ma il pentolone era
ancora lì. Due o tre notti lo abbiamo fatto, fino a che hanno smesso di
passare. A potere, gli avremmo dato anche il sale, ma quello non ce l’avevamo
mica neanche per noi”.
Bella storia,
edificante, di quelle da cui tutti possono tirar fuori una morale, ma che non
dimostra proprio niente. Inutile, se non ricordasse anche le parole esatte con
cui Rosetta gli aveva riposto quando le aveva chiesto perché avessero aiutato
quei soldati: “Come, perché? Oh bella; si vedeva che c'avevano fame e noi mica
eravamo bestie”. Sì, proprio così. Chiunque fosse dentro quelle uniformi, Rosetta
ed i suoi avevano la perfetta coscienza di quel che comportasse la propria
umanità. Quelli là avevano fame e sfamarli era un loro dovere. Per non essere
come delle bestie. Per comportarsi come lei e Irma su quel tram, rischiando di essere
fucilate o deportate, ci vuole del fegato. Una dote che oggi non è del tutto
scomparsa, ma che neppure allora doveva essere troppo comune, “altrimenti col
cavolo che quelli marciavano su Roma, prima, e ce li tenevamo per vent’anni,
poi”, e soprattutto una virtù individuale, perché, tano per restare sotto il
bel ciel di Lombardia accanto a Don Lisander, il coraggio chi non ce l'ha non se lo può dare. Quel “mica eravamo bestie”, invece,
ha un valore universale; ha motivato a fare quella che ritenevano fosse la cosa
giusta, non degli eroi o dei santi, ma dei contadini brianzoli che è facile
immaginare come tutt’altro che generosi, attentissimi anzi alla roba, e capaci
di tirar fuori il falcetto davanti alla prima parola che sospettassero potesse
essere d’offesa. Gente piena di difetti, ma, appunto, gente: esseri umani che
non avevano bisogno di alcuna narrazione, grande o piccola, per pensare, per
sentire, di doversi comportare come tali. Col nome di Sartre si sarebbero poi
riempiti la bocca i loro figli e nipoti, magari per raccontare del proprio
pellegrinaggio, in dolcevita rigorosamente nero, nella terra promessa tra
Saint-Germain-des-Prés e la Bastiglia. Loro, gli abitanti di quella cascina, ad
andar bene avevano completato le elementari e Sarte non lo avevano letto né lo
avrebbero letto mai. Non importa: erano già, d’istinto, esistenzialisti; coscienti
di definire con le proprie scelte, con i propri comportamenti, il significato
del nome collettivo "umanità". E certi loro
pronipoti? Sì, quelli che fanno scorrere sulle tastiere le belle dita che non
han mai conosciuto un callo, per comunicare al mondo la propria gioia davanti
all'affondamento di una barcaccia carica di disperati. Lui non ha dubbi su come
Luigi, Rosetta e gli altri li avrebbero chiamati; come quello che loro ri erano
fiutati d’essere: “Un branco di animali”.
“Peggio che
animali”. Capisce che non può continuare così; che finirebbe per rovinarsi quel
pomeriggio, quello di un venerdì, in cui avrebbe solo voluto rilassarsi,
lontano dalla preoccupazioni che lo hanno seguito anche lì, fino sull'ultimo
lembo del vecchio mondo. “Per scappare
dalle bollette, solo morire. Neanche quello, anzi, che di sti tempi trovano il
modo di far pagare le tasse anche ai morti”. Sbuffa, “fanculo, è sempre una vita di
merda”, ma si dà una calmata e in pochi lunghi passi raggiunge un masso,
riparato dalle fronde spettinate di un vecchio rovere, cresciuto chissà come
proprio sul limitare della spiaggia. Vi si siede, come fa spesso; Sempre, anzi,
a sentire i compaesani, che hanno già cominciato a chiamare quel grosso sasso o asiento do italiano. Chissà se quel
nome resterà? Chissà se tra cent'anni si chiederanno chi fosse o italiano, gli innamorati che vi sederanno
per scambiarsi baci ed eterne promesse. Non indugia su quel pensiero, “con l’età
mi sto rimminchionendo. E per fortuna che dico di non scrivere romanzi rosa …”
ma, lasciando vagare lo sguardo nel grigio, tra cielo e mare, finisce per contemplare
il ricordo di un' altro sedile di pietra “e sì, un po’ come the Synge’s chair” in un altro degli antichi
confini del mondo: la scogliera che domina il Gregory’s sound, sull’isola di
Inishmaan, una delle tre Aran che se ne stanno al largo della baia di Galway,
lungo la costa occidentale irlandese. Di Synge, John Millington Synge, per la
precisione, lo scrittore che usava sedere su quest’altro sasso per ammirare le
tempeste atlantiche, potrebbe tacere come di un fatto privato; irrilevante per
la dimensione corale che vorrebbe dare alla propria riflessione. “Sì,
polifonica ... dico, non è che sto diventando schizofrenico?”. Di Synge, ad
ogni modo, lui conosce il nome, ne ha quasi letto il più importante lavoro, The playboy of the western world, “uno:
l’ho letto davvero, solo che mi ricordo quasi niente. Due, col cavolo che lo
chiamo Il furfantello dell’ovest,
come nella traduzione del 1907”, ma sospetta pure di essere, solo per questo,
tra i suoi massimi esperti italiani. “Boh? Magari adesso è tornato di moda;
ristampano di tutto. Allora, però, non lo conosceva proprio nessuno”. Assai più
degno di considerazione gli pare sia il proprio essere arrivato fin là; la
scelta, fatta quando aveva poco più di vent'anni, di passare le vacanze estive,
in compagnia di quella che allora era la sua ragazza, non a Ibiza, Mikonos o su
qualche altra isola del divertimento, ma a girovagare per quei quattro sassi
spazzati dal vento che in tutto e per tutto, quanto a discoteche e locali
notturni, potevano vantare un pub. “Teac
òsta, la casa dell’accoglienza. Qualcuno mi ha detto che è ancora lì”. Una
decisione che diventa comprensibile solo ricordando che in quegli anni ’80, quasi
per definizione frivoli e superficiali “edonistici; si è iniziato a dirlo
proprio allora”, esisteva pure un largamente condiviso sogno irlandese. “E non
solo. Tanti andavano in Bretagna, in Scozia. Anche nelle isolette greche.
Quelle senza turisti, però, o dove i turisti avevano tutti il sacco a pelo”. Una
riedizione in minore, e forse con qualche comodità in più, del gran tour
indiano delle generazione giovanili precedenti? Erano stati, lui e gli altri,
semplicemente dei frikkettoni? Di sicuro, non andavano in quei luoghi sperduti
cercando paradisi artificiali. “Massimo un paio di pinte di Guinness”. Neppure
era interessato loro trovare delle guide spirituali, guru o santoni, da cui
farsi rivelare nuove narrazioni con cui sostituire le vecchie, di cui, almeno
per le orecchie più fini, si sentivano già gli scricchiolii. Perché, dunque, sentivano il bisogno di esplorare
le più remote periferie d’Europa? “Per la musica”, avrebbe probabilmente
risposto a chi glielo avesse chiesto allora. “Beh? vero, eh. Nei pub irlandesi
ho sentito dei musicisti incredibili. Uno, a Clifden, in Connemara, era un vero
mago; pareva facesse cantare il bodhran.
Sì, il tamburello”. Quasi certamente, però, subito dopo avrebbe aggiunto: “E
per la simpatia della gente, chiaro. Ti fermi in un villaggio, e in un paio di
giorni sei amico di tutti”.
Dalle
11:12 e alle 14,53 del 14 novembre 2014 Ora, dopo aver macinato altri trent'anni
di vita, si dice vi fosse troppo giovanile ottimismo in quell'ultima considerazione, “neanche fossero stati dei
buoni selvaggi, gli irlandesi o i bretoni”, ma crede anche sia quella che più
si avvicina alla verità. Ad attirarli in quelle che restavano zone povere e
sottosviluppate, dove molti vivevano ancora della terra o del mare, era davvero
stata la gente; la possibilità di incontrare persone comunque non troppo
diverse da come dovevano essere stati Luigi e Rosa: degli esempi di un'umanità
spessa e solida, seppure certo non perfetta. Uomini e donne che si erano già
fatti rarissimi, in quello che cominciava ad essere il mondo McDonald; che ritenevano fosse proprio
dovere, oltre che piacere, e proprio per il loro essere umani, dedicare agli
altri, anche ai perfetti sconosciuti, un sorriso, un saluto, il tempo di
qualche chiacchiera e, perché no, un boccale di birra o un bicchiere di vino. “La
prima sera, quando arrivavi in un posto nuovo, nell’Irlanda di una volta, era
quasi impossibile pagarsi da bere. Prima ti offriva una pinta uno, poi te ne
offriva un’altra suo cugino. E mica solo lì; mi ricordo una sera, in un paesino
della Sierra Estrella …”. Forse c'era un certo elitario gusto per l'esotico in
quei loro viaggi “altrimenti avremmo potuto resta in Italia. A parte che tanti
andavano in Basilicata, in Molise o in Puglia”, ma di certo lui e tanti suoi
coetanei, se ne scappavano alla larga dalla modernità, più o meno post, alla prima occasione. Forse ancora non
capivano, ma certo già sentivano come più, più nuovo e più costoso, non fosse
la ricetta della felicità. Erano anti-consumisti? Gli piace illudersi che
Prezzolini “non lo conosce nessuno? Beh, magari è la volta che alzano il culo e
se lo vanno a leggere” li avrebbe accettati tra gli apoti. Lui si era rifiutato
di bere la propaganda fascista. Loro avevano riconosciuto il veleno dentro il
nuovo vangelo dell’apparire, che televisioni e riviste predicavano allora senza
posa. “La morte o le tette di Tini Cansino?”. Si sorprende solo fino a un certo
punto di essere combattuto tra concenti apparentemente così distanti “però la
tirata su eros e tanathos, tanto per far vedere che ho orecchiato Sigmund, non
la inizio neanche” ma non è a cuor leggero che permette alle mirabolanti curve
di Tini di emergere dalla memoria. Lo fa per dovere, si dice, “e beh, quando
tocca, toc … ecco, ho evitato di usare
il verbo soppesare assieme alla parola tette proprio per non fare basso
avanspettacolo. Niente; certe cose ce le abbiamo proprio dentro”; per
equilibrare l'immagine che ha appena dato, di sé e degli altri che di questi
tempi stanno a cavallo del mezzo secolo. Resistettero, è vero, ma con troppo
poca convinzione. Furono umani, ma furono anche umanamente deboli. “Adesso tiro
fuori lo staffile e inizio a fustigarmi. Deboli? Può essere, ma quelle erano
proprio delle gran gnocche”. Potevano passare le vacanze scarpinando per il
Donegal, insomma, ma poi erano tutti lì, perlomeno i maschi, davanti al
televisore, a guardare Drive In. Celebrata allora come un trionfo di
modernità e laicità, dopo decenni di
spettacoli castigatissimi offerti dalla televisione pubblica, quella
trasmissione è da molti considerata oggi demoniaca: uno spiraglio da cui il
materialismo maligno è penetrato nei soggiorni
e tinelli degli italiani per deflorare le loro coscienze fino ad allora
illibate. Lui non la pensa così. “Se hai la febbre, mica te la prendi con il
termometro” Piuttosto, vede nel successo clamoroso che quel programma ebbe, e
proprio tra i suoi coetanei, la dimostrazione di quanto ormai ci si fosse già addentrati
nel post-umanesimo. L'umanista solleva lo sguardo dalle sacre scritture e lo
volge verso le humanae litterae, dicono
suppergiù i manuali, non rifiuta il divino, ma torna pure ad occuparsi
coscientemente di stile, di bellezza e di quanto altro è, appunto, più
propriamente e profondamente umano. I post-umanisti, dice lui, “ma io li chiamo
semplicemente post-umani”, pensano che stile e moda siano sinonimi e se ne
stracatafottono di qualunque cosa non sia godibile in modo facile, immediato e
irriflessivo.
Dalle
14:13 alle 17:09 del 15 novembre 2014.
L'umorismo di Drive in resta esemplare. Nessuna ironia, nessuna sottile
trasposizione del reale: solo battute facili per risate istantanee. Rideva lui,
ridevano gli amici con cui gli capitava di vedere il programma e, ne è sicuro,
ridevano con loro tutti i bambini, attorno ai dieci anni, cha fossero ancora in
piedi a guardarlo: non accadeva nulla, dentro quello schermo, che non fosse
alla loro portata. Ha letto da qualche parte che i film, oggi, sono prodotti
per soddisfare uno spettatore che ha l'età
mentale di un pre-adolescente. Drive in era già così è questa fu la ragione
della sua fortuna. Neppure le tette e i culi di Tini e delle sue compagne
miravano a stimolare appetiti adulti, ma a fornire materiale a delle fantasie
erotiche da ragazzini. “Come quando si spiavano le zinne della Franca della
seconda B … . Sì, era proprio un programma per bambinoni”. Si fosse almeno
fermato lì, il fenomeno: ai telefilm, a qualche film, alla parte più mondana
dell’industria dello spettacolo. Anche i libri, le riviste, gli stessi
quotidiani, sembrano scritti per di lettori-bambini o ad imitazione di quella
che un tempo era la letteratura per l’infanzia. Con le loro storielline
semplici dai sentimenti stereotipati, quando non spacciano favolette patinate o
pura e brutale propaganda, cercano di intrattenere, o addirittura informare,
senza costringere a pensare. Non vogliono incomodare il lettore? Per certo non
vogliono che si faccia domande; che dubiti. Come si ottiene un simile risultato
con la narrativa? Facendo la più risaputa e sterile delle accademie. Come lo si
ottiene con un giornale? Confermano i lettori nei loro pregiudizi. E' sempre
stato così? Il dubbio lo sfiora. E lui gli tira un cazzotto: “Come no. Delitto e castigo, anzi, mo’ faccio il
fico, Преступление и наказание, dopo
essere stato pubblicato a puntate, divenne il libro dell'anno, in Russia. Solo
che l'anno era il 1866. E adesso, da noi, chi ci sarebbe in testa alle
classifiche? Sì, lasciamo stare. E i giornali? Quando ero ragazzo il Corsera pubblicava gli Scritti Corsari. Adesso? Ri-lasciamo
perdere che è meglio”. Intravede una verità che gli pare momentaneamente
indiscutibile. “Ovvio, momentaneamente. Se mi viene in mente qualcosa di nuovo,
o lo vengo a sapere, allora cambio idea. Ti sembro un voltagabbana? No.
Piuttosto, tu, mai letto Popper?”. Gliela conferma il confronta tra quanto
ricorda e quel che può vedere del mondo della politica. “Tutti i difetti del
mondo, eh, quelli di una volta, ma cercavano di convincere delle proprie idee.
Chiaro, mi è subito venuto in mente il mitico
dibattito Pannella – Almirante. Per cercare di capirli ci si doveva far venire
il mal di testa? Appunto. Oggi, a parte il becerume che va in tele solo per insultare,
ma che comunque votiamo, parlano tutti a colpi di slogan, come si rivolgessero
a tifosi e non ad elettori”. No, arriva a concludere: sono proprio la società e
la cultura ad essere cambiate. Ad alta voce, finisce per scandire: “Una cultura
post-umanista frivola e superficiale per una società post-umana di eterni
ragazzini”. E questa formula gli pare tanto rotonda da meritare d’essere
celebrata con una sigaretta.
Dalle
14:23 alle 18:29 del 16 novembre 2014. Il vago
sapor di senso di colpa “dolciastro. Se si ha avuto una educazione cattolica è dolciastro”,
che avverte dopo le prime boccate di fumo “se non mi decido a smettere sono
proprio un cretino”, gli impone di cercare un’espiazione in mesti pensieri: “E
sì, mica posso liquidarla con un paio di battute, la politica”. Non osa, però,
in una giornata che ancora non ha conosciuto un raggio di sole, invitare la
depressione a ballare un tango e s’indirizza, invece, verso un argomento meno
tetro: “Dunque, tornando all’idea della morte …”. Lì dove vive, a un centinaio
di chilometri dalla più vicina città, ancora si invecchia e si muore. I capelli
ingrigiscono, le schiene si piegano, i visi riempiono di rughe. Poco a poco, anzi
pouchino a pouchino le persone si
spengono, di solito nel proprio letto. Lo stesso attorno a cui si celebra la
veglia funebre, cui partecipa tutto il villaggio. Poi c’è il funerale: un rito
solenne, con i parenti emigrati che per l’occasione tornano dalla Germania o
dalla Svizzera. E con l’ultima palata di terra, non arriva l’estremo saluto, ma
solo un arrivederci, perché familiari ed amici torneranno spesso alla tomba,
mentre con il loro lutto testimonieranno per anni, anche a chi non ha mai
conosciuto il morto, del proprio dolore. Triste? Umano. Semplicemente umano.
Disumano è che, come è diventato la
norma quasi ovunque, semplicemente si scompaia. Si nascondono i propri anni
come si nascondono, fino a quando è possibile, le malattie. I settantenni
dimostrano cinquant'anni, gli ottantenni sessanta e pochi: giovanili, “e giovanili
fa davvero orrore”, fino al giorno in cui entrano in un ospedale per non
uscirne. Sono migliorate le condizioni
di vita (o più probabilmente ha fatto dei progressi la medicina), è vero, ma
siamo solo marginalmente più sani, questo dicono le statistiche, rispetto pochi
decenni or sono. Vogliano invece
apparire indefinitamente giovani, o almeno di mezz’età; vogliamo sembrare
immortali. Ovvio nell’età dell’immagine? Forse. O è solo paura? Terrore di una
morte che, senza il conforto di una qualunque fede, e anche quella nella
ragione è una fede, diventa una prospettiva insopportabile? Forse. No, non ha
certezze, quando si viene alle questioni umane. Solo ha capito che non vi è
quasi mai un discernibile rapporto tra causa ed effetto. Che quasi mai, quando
si parla degli uomini e delle loro società, la verità di A implica
necessariamente quella di B, per rubare il linguaggio ai logici. “Già. I
fenomeni sociali si muovono piuttosto come fanno elettricità e magnetismo nello
spazio. E' l'oscillazione del campo elettrico che provoca quella del campo magnetico
o è il contrario? Beh, intanto possiamo descrivere il comportamento del
fenomeno che ne risulta: dell’onda elettromagnetica. Come quando un cane si
morde la coda, possiamo sempre dire di che colore è il cane”. Indossa delle
scarpe da ginnastica di pelle o similpelle bianca. Contempla il graffio che
sfregia la punta della sinistra “ma porca … le ho prese solo la settimana
scorsa”, prima di usarla, grazie ad una nervosa torsione della caviglia, per
sotterrare nella sabbia il mozzicone della sigaretta. Distratto, lascia che il
suo pensiero imbocchi una strada secondaria: “Ecco,
ci mancava solo che parlavo delle equazioni di Maxwell. Adesso posso essere
sicuro che mi leggeranno al massimo in tre. Se qualcuno pensa che i post-umani siano
dei super-positivisti, dei discepoli estremisti di Ayer, cui importa solo quel
che possono sperimentare, di loro non ha capito niente. Loro adorano i
cellulari, i computer e tutti i giochini della tecnologia, ma aborrono la
scienza”. E' la debolezza di un momento. Lascia da parte quell'argomento, su
cui pure pensa di poter dire molto, per imporsi di tornare disciplinatamente
alla sua originale e funeraria linea di pensiero: “Se no qua non si arriva a
niente. Anche se a me, di arrivare, più di tanto non è mai importato”.
Dalle
11:27 del 17 novembre alle 04:40 del 18 novembre 2014. Voler sembrare giovani anche quando non lo si è più, pensa
meglio, non è cosa solo di questi tempi. I cosmetici esistono da sempre; sono
antichi quanto la voglia di restare attraenti il più a lungo possibile. Quel
che gli pare nuovo, è l'accanimento con cui si insiste a lottare contro gli
effetti del tempo, anche quando non vi è più la minima speranza di ingannare
qualcuno di diverso da sé stessi. “E’ sempre una questione di misura. Ma può
esistere un lifting aristotelico?”. Ricorda un telefilm, visto da ragazzino.
Raccontava dell'ascesa di Shaka, un re zulu; un tiranno ossessionato dall'idea
della morte che pensava di ringiovanire davvero, di avere di nuovo allontanato
la signora con la falce, ogni volta che un ufficiale inglese, in gran segreto,
tingeva i suoi capelli di nero. “Semplicità di selvaggio? Ora siamo tutti come
lui”. Non tutti si rifanno le labbra o si impiantano nuovi capelli, corregge
subito il tiro, ma tutti, o quasi, ci vestiamo come dei giovanotti o delle ragazze di vent’anni. Come
se quella fosse rimasta la nostra età. Il genere di notizie che attrae i suoi
contemporanei, gli pare un’altra prova della loro rifiuto di venire a termini
con la propria mortalità. Amano infatti conoscere ogni dettaglio dei più
efferati delitti, sapere ogni particolare di morti, sì orribili, ma pure
inusuali, esotiche, come quasi certamente non sarà quella che li attende. “E le
calamità? Le catastrofi? Pare le adorino. Purché siano accadute no lontano passato o minaccino di verificarsi in un
futuro ancora più lontano o, ancora, riguardino popoli tanto distanti dal
nostro da poter stare certi di non rischiare di finire come loro. “Vorremmo
sapere tutto del meteorite che avrebbe causato l’estinzione dei dinosauri e ci
preoccupiamo per l’epidemia di una malattia rarissima che ha colpito una remota
isola dell’Indonesia, ma ci dà fastidio chi solo prova a ricordarci il numero
dei nostri concittadini che muoiono, ogni anno, per il colesterolo o l’inquinamento”.
Spaventarsi per l'improbabile, e si adora essere spaventati così, si paga per
farsi spaventare in quel modo, per non guardare alle tragedie quotidiane; farsi
raccontare di morti eccezionali per non pensare per più di un istante a quella
del vicino di casa, appena andatosene per un infarto che avrebbe potuto essere
nostro. Avvertiamo eccome il senso tragico della vita, ma non l'abbiamo risolto
scoprendo un nostro personale Dio, o impegnandoci per vivere vite degne
dell'eternità, come ci invitava a fare Unamuno. Abbiamo preferito esorcizzare
la nostra personale mortalità partecipando ad un grande rito collettivo. Uno
scongiuro così efficace da permettere a tanti suoi coetanei, o quasi, di
comportarsi da adolescenti, o perlomeno di illudersi d’essere ancora lontani da
quella mezza età che, per le statistiche, hanno abbondantemente superato. “A
trentacinque anni, Dante scrisse la Commedia; a quaranta e più noi ce ne stiamo
davanti al televisore, magari per giocare con la Play-station. Una
considerazione banale? Beh, la verità lo è quasi sempre”. Da dov’è, se si
alzasse in piedi, potrebbe vedere, costruita a ridosso della spiaggia, la
chiesa del villaggio. E' piccola, anche se fin troppo grande per i pochi che
vivono lì, di pietra grigia, con una facciata semplice, solo ornata dalle
volute di due riccioli barocchi. In uno, forse un poco morboso, dei suoi rari momenti
poetici, ha dedicato un sonetto al cimitero che le si trova accanto e dove,
vigilati da un grande rovere, stanno i cenotafi di antichi balenieri scomparsi
durante le loro cacce. Era stato fiero, allora, di quella poesia, ma adesso ne
ricorda solo l’ultimo verso “lapidi di tombe vista-mare”. Non ricorda neppure
il nome della chiesa, a quale santo sia dedicata, sempre che l’abbia mai saputo.
“In otto anni, ci avrò messo piede due volte”. Non capisce, dapprima, perché si
sia ritrovato a fare quelle considerazioni, poi si accorge che le campane
stanno suonando.
Dalle
05:08 alle 18:33 del 18 novembre. Per un
momento teme (non è scaramantico, ma crede agli scherzi del destino) che possa trattarsi di un lutto. No, si
accorge subito, è solo il batter delle ore. “Solo? Per me uno dei sonetti più
belli è proprio quello che comincia: when
I do count the clock that tells the time. Devo ricordarmi, piuttosto di
dire qualcosa a proposito di Per chi
suona la campana. Il romanzo, intendo. Se c’è una cosa che può aiutarci a
uscire da questo pantano, è una nuova epica. Certo, con eroi che non
imbracciano un fucile. E Donne, invece? La sua Meditazione, mi pare sia la diciassettesima, andrebbe fatta leggere
nelle scuole: un antidoto contro la barbarie. Diventiamo più poveri ogni volta
che sentiamo suonare la campana, dice. perché
siamo, uno per uno, tutti allo stesso modo importanti, pezzi della stessa
umanità. Bel concetto, eh? E, a proposito di tragedie di cui non vogliamo
sapere niente, diventiamo tutti più poveri anche quelle trentamila volte al
giorno, sì, trentamila, in cui in giro per il mondo, con discrezione per non
disturbarci, la fame si porta via un bambino. Un pensiero buonista? Vienimelo a
dire in faccia, e scoprirai che non sono buono per niente. Con i fessi”. Per
quanto oggi si possa indignare, fino ai quarant’anni, anche lui si è rifiutato
di sentire suonare la campana. Non si pensi che conducesse una vita frivola.
Era, anzi, almeno all'apparenza, esemplare per serietà e maturità. Sposato, con
due figli, e un buon lavoro, che forse lo teneva troppo a lungo lontano da casa,
ma gli consentiva di guadagnare assai bene. Certo non abbastanza da
soddisfarlo, perché nel mondo del più e più costoso, non si guadagna mai
abbastanza, ma tanto da consentirgli di vivere con agio e indulgere nelle sue
passioni. No, niente droghe, festini erotici o gioco d'azzardo; era esemplare
anche in quelle: gli piacevano l'arte, e quindi andava per musei ad ogni
occasione, e i libri, di cui aveva la casa piena. “Anche i libri antichi o le
prime edizioni. Non sono quasi mai andato dagli antiquari, però; la caccia,
magari tra le bancarelle, era la cosa più divertente. E una volta, ho mancato
di un niente la prima edizione di Ossi di
seppia. Si quella pubblicata da Piero Gobetti nel ’25. Come so di averla
persa? Perché so che qualcun altro l'ha trovata”. E non è finita. Nonostante si
ritrovasse, a volte per intere stagioni, a lavorare ad un ritmo frenetico, aveva
poi lunghi periodi di riposo, in cui poteva dedicarsi alla pittura, sua altra grande
passione, o provare a scribacchiare. Una
situazione invidiabile? Si, se solo quel lavoro che si era ritrovato a fare
fosse stato davvero il suo. Così era stata solo accettabile. Comodamente
accettabile. E avrebbe continuato ad accettarla, nascondendo le proprie
pavidità ed ignavia dietro la foglia di fico del senso del dovere, se una mattina
la sua personale campana non avesse lasciato partire un primo rintocco. Non ha
la minima intenzione di esibire la propria cartella clinica. Quel che importa è
che ora sta bene, ma a quel tempo, per alcuni mesi di notti insonni, si era
trovato dinnanzi la possibilità della mancanza di
possibilità.
Dalle
04:22 del 19 alle 04:55 del 20 novembre 2014. Essere e
tempo. Non ne aveva capito quasi nulla, quando aveva provato a leggerlo, in
una delle sue febbri filosofiche: troppo difficile, quella scrittura; troppe le
parole nuove da assimilare. Le notti passate con gli occhi sbarrati a
contemplare il buio, o il proprio riflesso nello specchio nero del televisore, spento
dopo un'insopportabile televendita di troppo, lo hanno convinto della verità di
quello lui crede sia il nocciolo dell’opera: solo quando comprendiamo che il
nostro tempo è limitato, ci decidiamo a spogliarci di ogni orpello per,
finalmente, essere. “Capire che potresti morire, ti cambia. Anzi, capire una
volta per tutte che tra un anno o quaranta sarai morto”. E’ stata solo una crisi
di mezza età, la sua? Nel caso, sarebbe pure stata fisiologica; una fase di
transizione, naturale come l’adolescenza e attraverso cui, suppergiù alla sua stessa
età, devono esser passate anche le generazioni precedenti. Lui, però, è sicuro che
senza quel rintocco di campana, l’avrebbe attraversata molto più tardi. Heidegger
forse non intendeva proprio quello con età delle deiezione “ovvio, anche io ho
sorriso quando ho letto questo termine
per la prima volta”, ma quale sia il nome che si vuole dare a questo momento di
riesame, a lui pare che molti dei suoi coetanei lo debbano ancora affrontare e,
a questo punto, dubita che lo faranno prima che la biologia arrivi ad
avvertirli che il loro tempo è quasi scaduto. Li vede sopportare, adeguarsi,
con molta rassegnazione e tanta pigrizia, ripetere a se stessi e a chi li vuole
ascoltare dei “per ora”, o vagheggiare sogni da realizzare in un vago e lontano
futuro, come sarebbe comprensibile se avessero vent’anni, ma come è solo
patetico a cinquanta. “Ormai la maturità arriva assieme alla senilità”. Non gli piace l’ultima frase.
Lo fa sembrare uno dei tanti che accusano i trentenni ed i quarentenni d’oggi di essere dei
bambinoni viziati. Non pensa, invece, che l’evoluzione si sia messa a fare
degli scherzi e che la loro indole
naturale sia diversa da quella di chi li ha preceduti, e neppure crede che
siano stati educati in modo particolarmente sbagliato. “Troppa libertà? Ma non
scherziamo … Troppi soldi? Rispetto agli svizzeri o agli svedesi? Ma per favore
…”. Crede che molti di loro se ne stiano
abbarbicati di divani dei soggiorni
paterni, un po’ perché vittime di questa infinita crisi economica “ma se
comincio a parlarne non finisco più. Certo che tanti un lavoro ce l’hanno,
però, e a volte anche pagato bene”, e almeno altrettanto proprio per l’efficacia
di quel grande scongiuro collettivo contro la possibilità della fine: “Se pensi
di avere tutto il tempo che vuoi, perché mai dovresti affrettarti a crescere?”.
Esorcismo che, però, non può essere completamente efficace; che non può cancellare
del tutto qualcosa di tanto proprio della condizione umana. Nascosta, infilata
in un cantuccio della coscienza, la consapevolezza della propria mortalità,
resta. E con lei quella dello scorrere del tempo. Cognizioni che tolgono buona
parte della gioia alle sterminate adolescenze dei Peter Pan; che le venano,
anzi, di una sottile ma sempre presente angoscia. ”Non fosse così, perché hanno
tanto timore di restare da soli con sé stessi? Perché provano tanto orrore per
la noia? Se pensi di avere tempo da gettare, tanto che devi trovare dei modi
per passarlo, non dovresti avere timori di perderne un po’, magiari per
restartene sdraiato a pensare guardando il soffitto. Sartre, quando diceva che
le rivoluzioni iniziano a letto, intendeva questo; mica che cominciano con un’orgia
generale”. Il timore della noia, comporta l’esigenza di un intrattenimento
continuo; il dovere, quasi, di bombardare i propri neuroni con continui
stimoli. “Faccio multi-tasking, dicono,
mentre chattano con qualcuno, clikkano avanti e indietro la prima pagina
del giornale e, contemporaneamente, seguono un telefilm. Si è sempre fatto, ri-dicono;
si filava e chiacchierava. Beh, te lo immagini Einstein tirar fuori E uguale
emmeciquadro in quelle condizioni? E sta sicuro che di rivoluzioni, così, non
se ne faranno mai. Sti cavolo di indignati continui a colpi di mouse!”.
Dalle
5:00 del 20 alle 13: 58 del 21 novembre 2014 S'infervora, al punto da rialzarsi senza neppure darsene conto, e così, perso in quei
pensieri, s'incammina verso il molo, al capo opposto di quella lunghissima
spiaggia. “E stimoli sempre nuovi. Ormai hanno la capacità di attenzione dello
scarafaggio”. I suoi piedi scelgono quasi da soli la via più comoda; la
striscia di sabbia umida e compatta che la marea in ritirata ha appena scoperto.
“O era la memoria, quella dello scarafaggio? Boh. Basta pensare ai film. Ma si
fanno di acidi, adesso, i montatori? Scene di trenta secondi, una dietro
l’altra, come una successione di spot pubblicitari. Una narrazione agile,
dicono. E la magia di un campo lungo,
dov’è finita? E i piani-sequenza di Renoir o Antonioni, cosa sono, vecchiume?". Un’onda più alta delle altre si frange sulla
battigia. “I libri? Stesso discorso. Se sono turbociofeche da mille pagine,
devono avere almeno duemila colpi di scena”. L’onda smorzata risale sottile la
bassa marea. Lui, con la coda dell’occhio, la segue. “Altrimenti, solo
romanzetti anoressici, da leggere in un paio d’ore. A volte anche belli, ed è
quasi peggio; non fai in tempo ad entrarci, ed è già il momento di uscirne”.
Continua a seguire quell’onda mentre gli
avvicina. “Al posto delle copertine ci dovrebbero mettere delle porte
girevoli”. E con uno scarto, proprio all’ultimo momento, evita di bagnarsi le
preziose scarpe. “Certe sveltine possono essere intensissime, è vero, ma per
fare l’amore bene serve tempo”. Tra spesse ciglia di nubi ammicca un occhio di
cielo. “Sempre lì, si finisce per tornare: al tempo che adesso nessuno ha più.
Si rincoglioniscono per cinque o sei ore al giorno davanti alla tele, ma non
hanno tempo: dopo quello che hanno ingannato, non glie ne resta”. Si ferma e
alza il mento e lo sguardo per
contemplare quella pennellata d’azzurro. Sospira: “Di questi tempi, leggere Guerra e Pace è un atto di resistenza”.
L’ultima parola che pronuncia porta con sé il ricordo di suo nonno partigiano.
I nonni di tutti i suoi amichetti, erano stati nella Resistenza. Il suo, però,
per davvero. Senza eroismi, ricordandosi di avere già famiglia, non fosse stato
abbastanza eroico essere lassù in montagna. Senza odio, soprattutto. Senza che
ne fosse rimasto nei suoi scarni racconti, perlomeno. Senza il minimo
ripensamento, però: convintissimo d’aver fatto la cosa giusta; certo di averla
fatta dalla parte giusta. “Vedesse quel che c’è in giro adesso, vomiterebbe”.
No, si corregge; si limiterebbe ad una smorfia di disgusto: in fondo lo aveva
previsto. Proprio la retorica del tutti partigiani, diceva, non aveva
consentito al paese di fare i conti col fascismo. La Resistenza, aveva sì
fornito le basi morali su cui costruire la Repubblica, ma pure permesso
d'indossare una maschera d’antifascismo ad una società che antifascista, nel
suo complesso, non era mai stata. “I
partigiani del 26 aprile. Nonno li chiamavo così. Alla Liberazione, lui e
gli altri erano ancora su a spararsi addosso con gli ultimi fascisti. Finalmente
scendono. Arrivano in paese e scoprono che sono in giro tutti col fazzoletto
verde o rosso al collo. E nessuno di loro, prima, che avesse detto o fatto
niente contro il regime. Alcuni, addirittura, fascistissimi. Almeno, fino al 25
luglio del ’43. Dopo, diceva sempre, anche con la repubblichina, di fascisti in
giro se ne vedeva ben pochi. Gli altri? In un angolo, cercando di non farsi
notare; di scamparla in attesa di capire, tra Franza e Spagna, chi avrebbe vinto”.
Comprensibile. L’eroismo è cosa per pochi. Non è allora che abbiamo commesso il
nostro peccato originale, ma prima, durante gli anni d’oro del regime, quando
nessuno, o quasi, ha avuto il minimo problema ad indossare la camicia nera. “E
tantissimi lo hanno fatto con sincero entusiasmo”. Benedetto Croce, antifascista che negli anni
prima del ’22 era arrivato ad un passo dall’invocare il fascismo, e che con il
regime era rimasto il saldo ras della nostra cultura, paragonò poi i fascisti
agli Hyksos; ad invasori arrivati da chissà dove. “E noi abbiamo preferito
raccontarcela così: che i fascisti fossero arrivati con i dischi volanti, che
li abbiamo sconfitti, e che li abbiamo rispediti nell’iperspazio”. Ci siamo
così assolti da qualunque responsabilità collettiva e abbiamo preferito
dimenticare Gobetti “uno, che mica per caso hanno massacrato” che ci avvertiva
come il fascismo fosse, semplicemente, un’autobiografia
della nazione. Con la leggenda partigiana, anzi, lo abbiamo decisamente
negato e abbiamo continuato imperterriti a scrivere la stessa autobiografia,
solo cambiando i colori delle nostre camicie.
Dalle
13:59 del 21 alle 17:18 del 22 novembre 2014. In questo, almeno in questo, crede che la sua generazione
abbia ben poche responsabilità. C'era la violenza politica, negli anni in cui è
cresciuta, è vero; c’era il terrorismo rosso e nero. C’erano gli scontri nelle
strade e gli omicidi; scoppiavano le bombe, nelle piazze e sui treni.
Addirittura, si vociferava ci fossero stati dei tentativi di colpi di stato.
Tutto questo, però, era percepito come perverso; opera di schegge impazzite,
compagni che sbagliavano, camerati incapaci di comprendere il senso della storia
e sparuti manipoli di cospiratori. Il paese in quanto tale, e proprio il modo
con cui affrontava quelle emergenze pareva dimostrarlo, appariva come
solidamente democratico. “Il venticinque aprile, si faceva festa tutti quanti”. I neri, c’erano
ancora, ma, isolati in un angolo della società, prima che del parlamento,
parevano una specie ancora pericolosa, capace di rompere teste a sprangate, ma
pure in via d’estinzione. In quelle condizioni, e con la vulgata resistenziale
divenuta unico vangelo, era stato impossibile, per lui a chi altri aveva allora
vent’anni, riconoscere che un sottile velo di fascismo era ancora depositato
ovunque. Non solo; che se i loro connazionali erano stati fascisti prima ancora
che ci fosse il fascismo (e questo è il senso di quelle parole di Gobetti),
avevano poi continuato ad esserlo anche dopo aver dismesso l’orbace. Peggio
ancora, non avevano capito quanto loro stessi fossero attratti da quel fascismo
che avevano imparato ad esecrare solo a parole. Non certo dal fascismo dei
saluti al duce (anche se la voglia di uomo forte da noi non è mai morta; il “ci
vorrebbe qualcuno” è sempre stato attuale) e dei rituali di cui era tanto
facile sorridere. “Anche se il Brambilla, che non si sarebbe mai messo gli
stivaloni e la camicia nera, adesso va magari a Pontida con addosso quella
verde e l’elmo con le corna in testa”. Era piuttosto il fascismo d’ordine a
piacere già ad alcuni di loro “perché con tutti sti tossici in giro non si può
andare avanti”, così come già avevano una visione fascista dei rapporti tra i
poteri dello Stato. “Il governo dovrebbe fare una legge, ti dicevano. E il
parlamento a cosa serviva? Il governo deve fare le riforme, dicono adesso. E
tutti a litigare su queste riforme, e nessuno, o quasi, a dire che in una
democrazia parlamentare il governo deve fare tutt’altro che quelle”. Fascista,
poi, fascistissima, l’idea di uno Stato che forgia i propri cittadini; di un
governo che li civilizza, li illumina, a colpi di decreti legge. Soprattutto,
nell’Italia di trent’anni fa, era già (o ancora) fascista la
gestione e conservazione del potere. Come si manteneva in piedi, il regime? Con
l’OVRA, con i tribunali speciali? In parte. Solo in parte. E quanto poco
valesse questo apparato repressivo, lo si è vide il 25 luglio del ’43, quando
nell’arco di una notte scomparì senza quasi lasciare traccia. Il fascismo
comprò il consenso degli italiani, questa è la verità. Lo fece elargendo
privilegi a questa o quella corporazione, concedendo diritti a questo o quel
particolare gruppo di lavoratori e, soprattutto, assumendo una pletora di
dipendenti pubblici, a cominciare proprio dai graduati della Milizia. “E chi
pagava? Ci si riempiva di debiti e si svalutava la Lira, almeno in termini
reali. Dal ’34 alla vigilia dell’entrata in guerra, un bel 40%, se non ricordo
male. Ad ogni modo, facile capire come andavano avanti le cose: trippa un po’
per tutti, il filetto per i gerarchi e poi, guerra o no, cavoli di chi prima o
poi si sarebbe trovato a pagare il conto”. E questo rende il fascismo
completamente diverso da quella specie di social-democrazia senza democrazia
che certi suoi apologeti amano descrivere. Lo denuncia per quello che era: un
populismo come tanti altri, più o meno dittatoriali. “E cos’era, quello dentro
cui siamo cresciuti? Cosa erano i politici spazzati via da tangentopoli?
Fascisti loro e una fascismo completo di ludi elettorali quello che avevano
costruito. E fascisti i loro complici; i milioni che per un po’ di denaro o
favore qualche erano dispostissimi a votarli, chiudendo gli occhi per non
vedere come fossero negati i diritti, e rubati i soldi, di tutti”.
Dalle
17:23 del 22 alle 17:55 del 23 novembre 2014 E’
ancora con lo sguardo rivolto al cielo e sta parlando ad alta voce. Se ne accorge;
subito si zittisce e riprende a camminare, dopo aver lanciato un’occhiata
attorno. “Se mi ha visto qualcuno, deve aver pensato che stessi avendo una
crisi mistica”. La spiaggia, come quasi sempre in quella stagione, continua ad
essere deserta. E’ straniero, uno dei pochi che vivano lì tutto l’anno, e
soprattutto è artista; cose per cui gli abitanti del villaggio danno per scontato
che si lasci andare a delle stranezze. Non vuole, però, approfittare di questo
suo status; scandalizzare troppo quella piccola
comunità che lo ha accolto a braccia aperte. “Certo che ogni tanto, potrei mettermi
addosso qualcosa di più normale”. Domenico Morelli. Sì, lo so che non se lo
ricorda quasi nessuno. Grandissimo pittore del nostro ottocento napoletano e
oggi sottovalutato in Italia. Come tutti gli italiani, non solo pittori, non
solo di allora. Beh, vestito com’è, il camminatore di spiagge avrebbe potuto benissimo
posare il per il suo Sant’Antonio. Come
sempre, se non nel pieno dell’estate, si è coperto le spalle con un burnus; una
specie di mantello, riccamente adornato,
che ha comprato in un villaggio della Valle d’Ourika, nell’Atlante
marocchino. Nessun berbero d’oggi si sognerebbe d’indossarlo, ma lui lo trova
comodissimo, capace di sostituire un giubbone o un cappotto. “E poi, se piove, posso sempre tirarmi su il
cappuccio”. Utile, insomma, oltre che scenografico il giusto; confacente ad un
certo suo gusto “perché di vestirmi proprio come gli altri, non mi è mai
piaciuto” e capace di mostrare al mondo che lui, quando vuole, le vacanze va a farle Marrakech. “Bellissima.
Solo che ormai è rovinata. Sempre piena di turisti …”. Medita per due passi se sia il caso di aprire
una digressione sulla disastrosa influenza che il turismo massificato ha sulle
culture locali “ma se hai messo su una pensione, ovvio che la pensi
diversamente”, magari condita da un certa sua teoria sulla bellezza fatta di nulla e come questa scompaia non appena
arrivi un autobus carico di suoi simili. “Non ci vuole molto a capirlo. Il
fascino del deserto c’è perché … è deserto”. Sorride amaramente al ricordo di un
“a Robé ma ‘ndo cazzo semo venuti? Qua non ce sta ‘n cazzo”, strillato da una ignota
voce di romana, persa tra le struggenti
brume di tramonto lungo la costa bretone, ma, a proposito di cavoli, torna ad
occuparsi di quelli suoi e della sua generazione. “Difficile dire quale sia,
oggi, il compito dell’intellettuale”, ha tuonato ad uno dei pochi amici che
ancora finga di ascoltarlo, “ma non può essere quello di fornire facili
assoluzioni collettive”. Sta facendo proprio questo? Sta scaricando ogni colpa
su chi è venuto prima. Se lo chiede. Un’attenuante, perlomeno una, a sé ed ai propri
coetanei pensa di poterla comunque concedere: quella, atroce, dell’irrilevanza.
“Non abbiamo mai contato un cazzo e, inutile farsi illusioni, non conteremo mai
un cazzo”. Sono stati tagliati fuori da qualunque posizione di responsabilità.
Qualcosa che ha a che vedere con la loro lenta e difficile maturazione? “Se per
caso, il contrario. La maturità arriva dopo anche altrove, nel mondo McDonald,
in America dicono 26 it’s the new 21, ventisei anni di adesso valgono ventuno
di una volta, ma se da noi arriva a 40 e passa è anche perché, a quell’età, sono
pochissimi quelli che hanno avuto l’occasione di affermarsi nel lavoro”. La
ragione, pensa piuttosto abbia a che vedere con le conseguenze di una
pluri-decennale crisi economica su una società chiusa come quella italiana. “Pluri-decennale,
sì, e tutta nostra. Esacerbata da quella globale di oggi ma iniziata quando noi
eravamo ancora dei ragazzi. Lo sviluppo degli anni ’80? Finto. Risultato di una
spesa pubblica finanziata col debito. E solo spesa, eh, pura spesa, con pochi
investimenti. Quasi nessuno”. Lui non è un economista, e di economia capisce
pochissimo. Anche con il mistico burnus addosso, non se la sente di giocare al
profeta; di indicare, come ogni altro solone da Bar Sport, una propria
personale via allo sviluppo. “Quando sento sti sfigati, che non hanno mai
alzato il culo dalla sedia, cominciare con i si dovrebbe …”. Ha buona memoria,
però. Ricorda gli anni ’70. Un’epoca di piombo, certo. Der Spiegel, nel ’77, la riassunse con una copertina che fece
scandalo. “La P38 dentro il piatto pieno di spaghetti”. Un periodo, però, pure di
straordinario sviluppo economico. Sviluppo vero, fondato su un aumento di
produttività che non aveva pari al mondo. Neppure in Giappone. “Eravamo lì,
sulla soglia di un nuovo miracolo economico, e poi …”. Gli errori che ancora
paghiamo, dunque, furono compiuti solo a partire dalla fine dei quel decennio e
dall’inizio di quello successivo.
Dalle
13:50 alle 19:25 del 25 novembre 2014. Da parte
dei dirigenti politici o industriali? “Degli uni e degli altri. E vai a capire
chi ha iniziato; è un altro cane che si morde la coda”. I politici, si sono
comportati né più né meno che come i gerarchi del ventennio. Ancora più di
quelli, hanno badato a riempire le tasche proprie e dei propri famigli; almeno
quanto quelli, ma è cosa per certi versi ancora peggiore, hanno comprato il consenso,
anzi la complicità, di tanti italiani. Ovviamente al solito modo: con pensioni elargite a chi non ne avrebbe avuto
diritto “i baby pensionati … dico: gente che smetteva di lavorare dopo 14 anni
e mezzo. Non serviva Einstein a capire che poi, i soldi per pagare quelle
pensioni sarebbero mancati” e assunzioni di dipendenti pubblici a cui nessuno
sapeva bene cosa far fare. Per peggiorare le cose, mentre la spesa pubblica
aumentava costantemente e l’efficienza delle burocrazia precipitava, perché con
quanti più dipendenti aveva, più
pratiche doveva inventarsi per fingere d’occuparli, si è rinunciato a lottare
contro l’evasione fiscale. “Un patto scellerato dentro un più generale e
scellerato patto sociale. Aumento sempre più le tasse, fino ad arrivare ad una
pressione fiscale teorica da Scandinavia, così faccio contenta tutta quella
parte dell’elettorato che, un po’ perché cattolica, un po’ perché comunista e
molto perché qualunquista, pensa che i ricchi debbano essere tartassati visto
che se tali sono, devono per forza aver rubato, ma quelle stesse tasse, poi,
non le esigo; quei soldi, a imprenditori, artigiani e commercianti, non li vado
davvero a chiedere”. Risultato di tutto questo? Lo abbiamo sotto gli occhi: un
settore pubblico da proverbiale repubblica delle banane e un debito pubblico
che non abbiamo neppure idea di come cominciare a ripagare. “E che ci lega mani
e piedi, altro che fandonie. Ci vorrebbero politiche per lo sviluppo?
Verissimo. Ma come le finanziamo? Chi ce li presta i soldi? Facciamo già fatica
a trovare quelli per pagare gli interessi sui debiti che abbiamo già sul
groppone”. E i dirigenti industriali e finanziari, che colpe avrebbero? Prima
di tutto, accettarono questo andazzo. I loro e televisioni, così pronti a
scatenare campagne conto questo o quello al minimo sollevarsi di un
sopracciglio padronale, su questi temi tacquero. Cominciarono timidamente ad
occuparsene solo a partire dai primi anni ’90, quando il paese arrivò per la
prima volta a sfiorare il fallimento; vale a dire, troppo tardi. Un
comportamento per certi versi comprensibile. Dal punto di vista degli
imprenditori, in fondo, il sistema era equilibrato. Le loro imprese dovevano
confrontarsi con una burocrazia da terzo mondo, è vero, i servizi fuori dai cancelli delle loro
fabbriche erano suppergiù dello stesso livello, vero pure, ma da terzo mondo
erano pure le tasse che si ritrovavano effettivamente a pagare. “E tanti di
loro, con la politica, assieme ai politici, mangiavano alla grande”. Assurdo,
invece, quel che fecero dentro le proprie aziende. Molti, semplicemente,
smisero di investire. Iniziava a soffiare il vento della globalizzazione?
Sarebbe stato il momento di cominciare a sviluppare nuovi prodotti e di
acquistare macchinari più moderni, per continuare fare meglio e con minori
costi quel che già si produceva. Fecero, invece, quasi l’esatto contrario.
Esisteva un meccanismo, comunemente detto scala
mobile, che adeguava automaticamente
i salari agli aumenti del costo della vita. Dato che gli adeguamenti seguivano
l’inflazione, vale a dire avvenivano dopo che questa era stata misurata, ed
erano calcolati in base a dati ufficiali costantemente inferiori a quelli
reali, anche un semi-deficiente avrebbe dovuto capire che questi, se
commercianti ed industriali non avessero inglobato nei propri prezzi anche le
aspettative di aumenti dei costi futuri, non potevano essere all’origine dell’inflazione
galoppante di quel periodo. Anche un semi-deficiente, ma non la pubblica
opinione che, dopo una martellante campagna di quegli stessi mezzi d’informazione
così taciturni riguardo agli altri problemi nazionali, si spellò le mani per
applaudire all’abolizione di quel meccanismo. “Era il 1985. E una buona metà
del nostro disastro è cominciata lì”. Sa benissimo che, udendo una simile
affermazione, la maggioranza dei suoi connazionali scuoterebbe la testa. “Bravi.
Sanno tutto, loro; glie lo ha raccontato Bruno Vespa. Si sono mai chiesti,
però, perché la nostra produttività industriale ha smesso di crescere proprio
allora?”. Lui, una spiegazione se l’è data. Rozza? Semplice, e pertanto,
ricordando fra’ Occam e il suo rasoio, probabilmente non troppo lontana dalla
verità. “Prima, gli imprenditori sapevano che per stare a galla dovevano
prepararsi ad affrontare costi del lavoro sempre crescenti, o che perlomeno non
sarebbero diminuiti. Unico modo per farlo, affinare i cicli di produzione,
investire in macchinari e inventarsi prodotti a sempre più alto valore
aggiunto. Da lì in poi, troppi di loro si sono illusi di poter continuare a
competere semplicemente contenendo il costo del lavoro”. Illusi, quelli che
continuavano a produrre merci dozzinali, perché il mondo stava cambiando e non
si trattava più solo di pagare stipendi più bassi di quelli tedeschi o
francesi. “Sempre che in Francia e Germania ancora ci fosse qualcuno che
continuasse a fare le loro stesse carabattole”. La nuova concorrenza arrivava,
infatti, da paesi che nessuno poteva seriamente pensare di sfidare su quel
piano: “Pagalo pure poco, un milanese o napoletano, ma se gli passi uno
stipendio da cambogiano poi non ti viene a lavorare. Perché? Beh, muore di fame”.
Illusioni a cui tanta parte del mondo imprenditoriale è rimasta comunque
abbarbicata. Al punto che ancora oggi, “ma forse qualcuno inizia a capire il
giro del fumo”, tutte le discussioni italiane di politica industriale si riducono alla ripetizione del mantra: “Dobbiamo
abbassare il costo del lavoro”. Sì, mentre le infrastrutture diventavano
fatiscenti, i servizi scadevano di qualità e la pubblica amministrazione
scendeva fino al 95esimo posto della classifiche mondiali di efficienza “non da
paese in via di sviluppo; da paese che lo sviluppo non sa neppure cosa sia”,
tutto quello che le imprese italiane chiedevano alla classe politica più
squalificata dell’Occidente era di poter pagare sempre meno i propri
dipendenti. “Perché, inutile raccontarsi palle, se il sistema pensionistico è
quello che è, e la spesa pubblica va tutta in stipendi e non si può toccare, le
tasse sui lavoro non si possono diminuire e la riduzione del suo costo si
traduce, semplicemente, in una riduzione dei salari reali”. E la classe
politica, glie lo ha permesso, eccome: stipendi in buona sostanza bloccati per
chi aveva già un lavoro e introduzione di nuove figure contrattuali, a diritti
e salari limitati. I sindacati? Sulla carta tra i più potenti e organizzati d’Europa,
hanno detto poco e fatto nulla. Prontissimi a minacciare scioperi “poi
dichiararli è sempre stato un altro paio di maniche” per influenzare decisioni governative
anche quasi puramente politiche, si erano ben guardati dal farlo per difendere
il potere d’acquisto dei salari nel settore privato. “Sai quanto glie ne
fregava … metà dei loro iscritti è in pensione; un altro quarto abbondante è
fatto di statali”. Non lo hanno fatto a livello nazionale e tanto meno nelle singole
aziende. “Nelle fabbriche si agitano solo quando la baracca sta per chiudere.
Utilissimo. E’ un bello sciopero quello che fa cambiare idea a chi se ne sta
andando. Se poi sta fallendo …”.
Dalle
11:14 alle 18:30 del 26 novembre 2014. Certo, fallendo. Neppure su questo, si riflette. Per ogni
azienda grande e organizzata abbastanza da programmare il proprio trasferimento,
magari in uno dei paesi del vecchio Patto di Varsavia, sono decine quelle che
hanno semplicemente chiuso i battenti. Per colpa loro, spesso; della loro
incapacità di riposizionarsi su mercati stra-saturi di merci e a tecnologia
stra-matura. La dimostrazione, comunque, di quanto a poco sia servita la sola
politica di moderazione salariale. Una dimostrazione che trova la sua riprova
nella sostanziale incapacità dell’Italia, nonostante il costo orario del lavoro
sia orami tra i più bassi di tutta l’Ocse,
di attrarre imprenditori stranieri. “Ma solo un pazzo può pensare di
aprire da noi; anche se gli operai dovessero lavorare gratis. Tra burocrazia da
manicomio, mazzette da distribuire e
sentenze che non arrivano mai, se ti capita di andare in causa, c’è solo da
mangiarsi il fegato”. Per le imprese che lavorano soprattutto sul mercato
nazionale, poi, la diminuzione dei salari reali di questi ultimi due decenni è
stata un vero e proprio suicidio. Quegli stessi dipendenti che finivano per
ritrovarsi con buste paga dal potere d'acquisto sempre più basso, erano anche i
loro clienti. Meno soldi per operai e impiegati, si traduceva in minor domanda
di beni e servizi, e quindi in minori fatturati per le aziende. E queste
ultime, per restare a galla in un mercato in contrazione, tornavano a
comprimere i salari, finendo per tirarsi un’altra salva di siluri sotto la
chiglia. Si accorge subito, con non poco fastidio, dell’imprecisione di quel
paragone nautico “eh, se i siluri passano sotto la chiglia, non fanno danno”, ma sull’abbrivio riesce a proseguire il
precedente ragionamento per altri tre passi ed uno sbuffo: “Dico, a me pareva
lapalissiana la cosa. Ho provato anche a parlarne, ai vecchi tempi, con un paio
di clienti con cui ero diventato mezzo amico. Di sono messi a ridere; lo
avevano sempre saputo che in me si nascondeva un comunista. Sì, bravi fessi,
comunista rosso fuoco. Come Henry Ford”. Solo a questo punto fa macchina
indietro per spiegarsi il precedente errore. Si consola subito, motivandolo con
una raffinata scelta stilistica “avevo appena detto stare a galla; galla
…galleggiamento, mi pareva stesse da schifo”, che però gli pare a sua volta
degna di essere meditata: “Questa cosa che abbiamo noi italiani di evitare a
tutti i costi le ripetizioni, però, è ben strana. Gli anglosassoni se ne
fregano. Se devono scrivere nave, tanto per restare in tema, scrivono nave.
Anche dieci volte nella stessa pagina. Noi? Non lo faremmo neanche sotto
tortura. Con nave potremmo anche iniziare, ma poi passeremmo subito a specificare,
chiamandola mercantile o petroliera. Sì, fin lì tutto bene. Ma poi ci scappa
imbarcazione, come minimo, e si finisce per scrivere natante”. Accompagna il
pensiero di quell’ultimo termine, così offensivo per la sua sensibilità di
quasi marinaio, con una smorfia di disgusto: “Ogni volta che lo leggo, penso a
qualcuno che nuota. Un tipo con un panzone immenso che si sta facendo venire un
infarto per finire una vasca”. Una lunga ombra, che attraversa il suo cammino
un poco più avanti attira la sua attenzione. E’ il tronco di un albero che la sabbia ha quasi sommerso. Le
piogge dei giorni scorsi devono averlo
lavato via, assieme al pezzo di collina su cui cresceva, e le onde e la marea lo hanno portato fino a
quella spiaggia. Lui, spera: “Se fosse un bel rovere, come quella volta, potrei
ricavarci qualcosa”. Per poco; solo fino a quando arriva abbastanza vicino da
riconoscere le grosse squame che coprono quel che resta della corteccia: “E no;
è solo un pino. Mezzo marcio, per giunta. Serve proprio a niente”. E’ deluso,
ma solo un poco, “tanto lo sapevo. Sono quasi sempre pini, quelli che trovi
qui. Al massimo, qualche eucalipto”; certo meno di quanto non sia compiaciuto
per la rapidità e freddezza con cui è arrivato a quella conclusione. “Prima
cosa, capire come stanno le cose. Ma come stanno davvero. Poi, solo poi, se per
caso, si può cominciare a fare dei progetti. Ecco: anche noi italiani dovremmo
fare così”. Noi italiani. Ama dirlo. Non è un nazionalista, ormai lo si sarà
capito, ma gli piace l’idea di appartenere. “Noi italiani”, quasi assapora, a
voce più alta. E per levare ogni dubbio circa la propria italianità di confine,
è da perfetto italiano che, dall’esaltazione delle proprie supposte virtù
“perché io mica sono uno che se la racconta”, passa all’esecrazione di quelli
che lui considera essere dei difetti nazionali: “In Italia, invece no. Siamo lì
a illuderci, a sperare in Dio solo sa cosa, e intanto ce la raccontiamo alla
stragrande. Bene eh, magari con stile, almeno quelli che firmano gli articoli
di fondo, ma non giusta”. Perché siamo sempre stati un popolo di sognatori? “Ma
quando mai. Se avevamo un pregio, era proprio il realismo. Romanticismo e
idealismo da noi non hanno mai attecchito. Cinici, questo sì: spesso al punto
da non riuscire a concepire un bene comune più grande del nostro individuale; sempre,
abbastanza da non credere mai per intero proprio a niente. E a volte abbiamo
fatto benissimo, eh. Basta pensare alla propaganda razziale del fascismo. E’
Hanna Arendt a dirci che non se la filava nessuno. No, politicanti e intellettualucci,
potranno anche aver provato ad affabularli, ma fino all’altro ieri gli
italiani non li ascoltavano neppure. Si
fidavano, e mai del tutto, solo di chi appunto diceva pane al pane e vino al vino” E
questo lui sta cercando di fare, finisce per dirsi, mentre scolla un piede per
liberarsi da un lungo fuco, altro lascito della marea, in cui è finito per
incespicare. “Un tempo, mi ha detto qualcuno, raccoglievano ‘ste alghe per
farci concime. Oh, ma ti vuoi staccare, o cosa?”. Non è per nulla sicuro, però,
che a tanti suoi connazionali piacerebbe il modo in cui ha riassunto la loro
storia recente: senza indicare chiari colpevoli e senza concedere assoluzioni
quasi a nessuno. Teme che dopo lustri di
ininterrotto bombardamento televisivo, siano rimasti loro pochi spirito critico
e capacità di analisi. “Tre stronzate in prima serata, e tutti a crederci. Un libro
per capire tanta parte d’Italia? Cecità,
di Saramago. Anche da noi, tutti ciechi: abbagliati dai teleschermi”. Ancora di
più, crede che il senso di colpa per il passato, quello d’impotenza per il
presente e l’ansia per il futuro, non li inducano a scoprire cause e capire
ragioni, ma solo a cercare dei capri espiatori: “Vuoi che ti ascoltino? Devi
solo riprendere una delle tante teorie che circolano già e metterti a urlare
contro l’America, l’Europa, l’Euro, la Merkel, i politici di ieri e di oggi,
(quelli di domani no, perché si suppone che tu sia tra loro) le banche e i
banchieri, specifica anglosassoni, che se poi tanti ci leggono ebrei è ancora
meglio. Poi scatenati contro gli zingari, anzi chiamali rom così sembri un
razzista beneducato, e prenditela con gli extra-comunitari, ovviamente neri
e islamici, ma anche con i sudamericani
o cinesi il successo è quasi assicurato. Incolpa di tutto chi ti pare, insomma,
ma lascia stare gli italiani. Lasciaci stare, anzi; mi ci metto anche io. La
responsabilità di quel che è accaduto all’Italia, su questo almeno siamo tutti
d’accordo, non può essere nostra”.
Dalle
13:21alle 17:27 del 28 novembre. Non
mi piaccio. Non mi piace come lo sto dicendo. Anche quello che sto dicendo non
mi piace, ma come non mi piace la realtà. Quella che a me pare essere la realtà.
Quello che mi sembra siamo diventati. Pare? Sembra? Ma affanculo le pretese di
oggettività. Via, assieme alla terza persona: ci sono io, su questa spiaggia. E
sono incazzato nero. Con chi ce l’ho? Con noi. Me incluso. Cosa ho fatto di
male? Me ne sono venuto via e, soprattutto, poi ho continuato a girare al
largo. Per non vedere il volto sfigurato del paese che amo, dico, quando mi voglio
dare un tono. Per orgoglio e per non schiattare, dovrei ammettere invece. Lo
stupido orgoglio del Don Chisciotte che va alla carica di qualunque mulino a
vento, e l’istinto di sopravvivenza di chi
si ritrova con le ossa rotte dopo aver pestato il culo una volta di
troppo. Sia come sia, una scelta con tante ragioni, ma senza coraggio. E adesso
ci mancherebbe solo che mi mettessi a posto con la coscienza al modesto prezzo
di una passeggiatina socratica, per giunta raccontata con distacco. La
letteratura è lo scudo del timido. Bella frase. E’ di Ricardo Piglia, escritor argentino. Non è vera solo per
il timido, però. vale per chiunque abbia bisogno di una maschera; per chiunque voglia dire, ma non
del tutto o senza metterci dentro troppo di sé. Poi ce l’ho con noi. Tutta la
mia generazione, dico. I più vecchi, meglio lasciarli perdere. Capacità di
auto-critica, zero. Capacità di comprensione, meno di zero. Hanno lavoricchiato
quel che gli è toccato. No, con gli eroi della ricostruzione, loro non c’entrano
niente; quelli sono già sottoterra. Hanno guadagnato bene, ma speso tutto e
ancora di più. Sono quelli che ci hanno messo nella bagna, parandosi il culo e
fottendosene di chi sarebbe venuto dopo. E adesso, l’unica cosa che importa
loro è di continuare a ricevere la pensione. Tutti furbi? Se non quello, salvo
rare eccezioni, è gente che ha declinato il proprio personale fascismo
consegnando il cervello ad uno dei due ammassi ideologici. Il contrario di chi,
adesso, di anni ne ha quaranta o meno. Di ideologie, da quelle parti, non se ne
trova. Scuse, però, questi nostri fratelli minori ne hanno a bizzeffe. Sono
cresciuti in un mondo che era già quello McDonald e in un’Italia già
completamente tele-decerebrata. Non sanno, perché non possono sapere; non
capiscono, perlomeno tanti di loro, perché non hanno gli strumenti per farlo. Noi,
invece, di scuse non ne abbiamo. Siamo stati dei testimoni. Eravamo lì. E per
di più non abbiamo fatto in tempo a diventare complici; quando abbiamo iniziato
a lavorare, magari il grande falò degli anni ’80 bruciava ancora, ma per noi è
durato solo un momento. Il tempo di sbirciarlo; di dargli un occhiata dal buco
della serratura. Abbastanza, però, da capire come abbiamo fatto ad imboccare la
discesa. Dovremmo essere noi, i resistenti;
i primi a mandare a quel paese i nuovi imbonitori. Se solo ricordassimo le nostre
personali storie, tra noi le loro baggianate non attecchirebbero. Gli
extracomunitari? L’Euro? E dove erano quando la festa è finita? No, no: era un’Italia
ancora bianco latte, e che faceva i conti in lire, quella in cui si siamo
ritrovati, tra i venti e i trent’anni già senza prospettive. Senza attorno
nulla, o quasi, che la ferocia. E noi eravamo ancora innocenti. Solo la scuola,
ce si eravamo stati, ci aveva preparato alla vita in azienda. In che senso? No,
niente a che vedere con la cultura. Solo che chi aveva un diploma sapeva già
come sorridere ai capi; proprio come aveva fatto fino a poco prima con gli
insegnanti. Ovvio, il discorso non vale per chi finiva a lavorare in una ditta
artigiana. Lì di capi ce n’era uno solo, e mica ti pagava per il tuo sorriso. “Se
c’è una cosa che mi fa incazzare, è quando sento parlare dei diritti dei
lavoratori come di una conquista avvenuta. Sì, per chi lavora nelle grandi
aziende e per lo Stato. Gli altri sono messi come i loro bisnonni. Io sono
arrivato a lavorare 60 ore la settimana, nell’edilizia. E senza straordinari. Tanto
per dirne una”. Sorrisi o no, facevi in fretta a capire dove eri finito. Salvo
eccezioni, quelle ci sono sempre, in un posto dove i suddetti capi si facevano
gli affaracci propri. Impegnati solo a farsi le scarpe l’un l’altro. In questo,
lavorare nel settore pubblico o in quello privato, cambiava poco. Capivi anche
subito quello che ti si chiedeva. Proprio come a scuola: di fare il tuo
compitino, a almeno di fingere di farlo, e soprattutto di non rompere; di non
disturbare il più o meno quieto vivere. Motivazioni? Zero. “Ovunque si danno
premi in denaro a chi si fa venire un’idea su come fare le cose meglio. Da noi?
Ho provato una volta a suggerirlo a un industriale; mi ha riso in faccia: io a
questi pago già lo stipendio”. Possibilità di carriera? Se eri un operaio,
nessuna. Se eri altro, nessuna per decenni comunque. Da noi, prima di tutto, si
premia l’affidabilità. Cosa vuol dire? Che devi dimostrare, restandotene lì
fino al più completo rimminchionimento, di non avere grilli per la testa: di essere
un uomo solido, affidabile. O un’ameba.
Dalle
17:29 del 28 alle 12:12 del 30 Novembre. “Troppo
lungo da spiegare il come e il perché, ma fatto sta che una società americana
mi offre un lavoro. Un’opportunità di cui non so che fare. Sempre così: i treni
passano quando non hai bisogno di prenderne uno. Vado a vedere, ad ogni modo.
Un po’ per curiosità, un po’ perché non si sa mai. Loro mi dicono; io ascolto.
Loro mi chiedono; io rispondo. Si arriva a parlare di soldi. Mi interessassero
solo quelli, potrei davvero essere tentato. Alla fine, quando gli ho già detto che voglio pensarci su
e farò loro sapere, il tipo tossicchia. C’è ancora una cosa che mi deve
chiedere. Gli interesso davvero, precisa. Siamo in pochi a conoscere quei posti
e a parlare un inglese decente. E, non lo dice, ad essere occidentali. La loro
politica aziendale, però, era di assumere solo persone di provata affidabilità.
Insomma, finisce per dirmi, se vene fosse stato bisogno, data la particolarità
della situazione, si sarebbe trovata una qualche scappatoia, ma sarebbe stato
meglio se …se non avessi avuto più di tre datori di lavoro negli ultimi
diciotto mesi”. Sembra una barzelletta? Si è messo a ridere, anche il mio amico
Alberto, quando glie l’ho raccontato. “Vorrai mica che diventiamo come gli
americani? Bella vita la loro … senza garanzie”. Lui, invece, sì che le aveva le garanzie. Di restare
in quel buco di ufficio a passare colonne di cifre vita natural durante. Sempre
che la baracca non fallisse. Dovrei capire la sua prospettiva di dipendente
poco portato al cambiamento? E la capisco. E so che si serve la Patria anche
facendo la guardia ad un bidone di benzina. “O a qualche centinaia di
tonnellate di filo spinato risalente alla grande guerra. Mi è capitato, sopra a
Bressanone, una notte a meno quindici. Mai sentito così cretino”. Quello che
non capisco è come diavolo si pretenda poi di fare innovazione. Non si fa ricerca,
si lamentano tutti, Confindustria in testa. “Bisogna innovare, dicono, ma mai
che spieghino casa impedica alle loro aziende di farlo. I sindacati? I
komunisti?”. Si trovassero i soldi, ovviamente pubblici , e ci mancherebbe, per
finanziarla, questa benedetta ricerca, chi dovrebbe poi decidere se e come
metterne in pratica i risultati? I nostri ottuagenari mega-dirigenti? Quelli per
cui la posta elettronica è distribuita da un postino con l’auto a batteria? Campa
cavallo. E azienda crepa. E ne sono crepate a migliaia. Vittime della propria
incapacità di cambiare, di provare a fare in modo diverso qualcosa di diverso da quello che hanno fatto
sempre. “Facevano tessuti da due lire, con telai dell’anteguerra e chiedevano
dazi. Liberismo all’italiana; io faccio il meno possibile, poi ci pensi lo
stato”. Esagero? Ci sono imprese che si sono sapute rinnovare e sono fiorite
proprio in questi anni? Vero. E sono quelle che esportano e, in un modo o nell’altro,
si tengono e ci tengono ancora a galla. Ma sono eccezioni. Peggio sono
eccezioni anche le realtà burocratizzate, dove si avanza solo per anzianità. La tradizione civica nelle regioni italiane.
Dice qualcosa questo titolo? E’ di un libro del ’93, scritto da Robert Putnam,
un politologo americano. Fece scandalo, a quel tempo. Le differenze di sviluppo
tra le regioni italiane, diceva in buona sostanza, si spiegano prima di tutto
con il diverso collante che ne tiene unite le compagini sociali: al nord, il
senso civico, ereditato dai liberi comuni, e il mero familismo nel sud. Una
tesi che pecca d’ottimismo, per quanto riguarda il settentrione. Tengo famiglia
dovrebbe figurare nello stemma della Repubblica. Dalle Alpi in giù, mitica
Padania assolutamente compresa, le reti familiari ed amicali contano più di
qualunque altra cosa. Forse non proprio come in Sicilia o Campania, ma anche il
Piemonte o Lombardia, le possibilità di carriera, o semplicemente di accedere
ad una determinata professione, dipendono soprattutto da quelle. Addirittura conta,
come se l’anciene régime fosse d’attualità,
la genealogia. “Sono lì che parlo di Bernardino Luini. Sono appena stato a
vedere gli affreschi di Santa Maria degli Angioli a Lugano e li sto descrivendo
tutto infervorato. Non mi capita tutti i giorni di avere attorno una decina di
persone che mi vogliono stare a sentire. Sono ad una cena di non ricordo quale
associazione. Non ricordo neanche bene come ci sono finito. Ad ogni modo, ad un
certo punto, una sciura mi interrompe. Sciura, sciura, eh; di quella Milano
bene che c’era allora e che quando voleva sapeva ancora parlare in dialetto. Scusi,
mi fa, lei è per caso parente degli XY. Io sorrido. Mica per dire, ma alle
sciure ho imparato a sorridere, e gli dico di no; che gli XY li conosco solo di
nome. Chiarita la faccenda, vado avanti. Come non vedere Leonardo in quel
fanciullo in primo piano? Alla sciura, del fanciullo e di Leonardo frega
proprio niente. Vuole sapere altro. Ma lei, mi torna a chiedere, esattamente
come nasce? Io ri-sorrido e declino le mie generalità; non arrivo da troppo
lontano da Milano, ma da lontanissimo dalla sopracitata Milano-bene. Nel giro
di trenta secondi mi ritrovo solo, in piedi, a rigirarmi nelle mani un
bicchiere vuoto di cui non so cosa fare. Almeno le avessi risposto come mi era
venuto in mente. Come nasco? Ma dalla fi ...a, c … zzooo!”.
Dalle
12:20 del 30 novembre alle 13:46 del 1 dicembre 2014. Ferma. Ci manca solo
che mi emetto a urlare anche io. Sono qui per ragionare, invece. Certo che se
appena esce un po’ di sole sembra di
essere ai caraibi. Guarda il mare. E’ cambiato già il colore. Non arriva mai ad
essere turchese, come in Sardegna, ma può
diventare tanto celeste da far male agli occhi. Madonna. No, mica bestemmio.
Dico, color manto di Madonna. Anche se pensando a come le cose andavano da noi … . Anzi, a come vanno, perché non è
cambiato proprio niente. Nel settore privato come, soprattutto, ai piani alti
della pubblica amministrazione, si sistemano prima i figli, poi i nipoti, poi i
parenti, quindi gli amici, poi gli amici degli amici …. Le libere professioni?
Stesso discorso; complice il sistema degli ordini e delle corporazioni, il
figlio del farmacista o del notaio finisce quasi inevitabilmente per ereditare
il posto del padre. “E finisce che anche il figlio dell’attore fa l’attore, il figlio del giornalista fa il giornalista e,
ovviamente, che il figlio del politico faccia il politico”. Succede così
dappertutto? Tutto il mondo è paese? “A parte che io, quelli che dicono così,
li spedirei per qualche anno in Ciad”. E’ vero che certe cose contano ovunque,
basta pensare alle connessioni tra gli old boys, gli inglesi delle classi alte
che hanno frequentato le stesse scuole esclusive, ma in nessun paese dell’Occidente
si verifica una situazione paragonabile alla nostra. Pregiudizi miei?
Proiezioni delle mie personali esperienze? Ma quando mai. Basta dare un’occhiata
alle statistiche: la società italiana è la più immobile di tutta l’Ocse. Se da
noi nasci povero, muori povero; se nasci ricco te ne vai da questo mondo ancora
più ricco. Non funzionano più gli ascensori sociali, come ci dicono dagli
schermi certe anime candide, che per essere lì, in televisione, più che un
ascensore hanno quasi certamente preso il razzo di qualche raccomandazione. E
quando sarebbero mai funzionati, da noi, questi ascensori? Solo in un momento
della nostra storia recente: durante gli anni della ricostruzione e del
miracolo economico. In periodi di crescita tanto vertiginosa da comportare una
offerta di lavoro, anche nelle professioni di maggior prestigio, superiore a
quella che potevano soddisfare i soli figli, parenti ed amici di. “Una crescita
economica che noi abbiamo visto al cinema. Letteralmente; nelle commedie all’italiana
degli anni ’50 e ‘60”. Quando è arrivato il nostro turno, il clima era tutt’altro.
L’economia stagnava già. I posto buoni erano già stati tutti presi, non s ne
creavano altri e, quando se ne liberava uno, di solito perché l’occupante se n’era
andato al creatore, finiva sempre ai soliti noti, magari a loro volta in lista
d’attesa da anni. No, non siamo innocenti, ma per il passato colpe ne abbiamo
davvero poche; semplicemente, non abbiamo avuto opportunità di averne. Scuse?
Altre proiezioni delle mie personali sconfitte? No. Sono il primo ad ammettere
di essere stato fortunato; di aver avuto molte più opportunità della
maggioranza dei miei coetanei. E’ guardando anche a loro, a quanto pochi siano
quelli di loro che contino qualcosa nella politica, nell’economia o nella
cultura, che posso parlare di fallimento generazionale. Un fallimento che avvertiamo
tutti, ma, ed è questa la nostra vera colpa, di cui andiamo a cercare cause
diverse dalle più evidenti e banali. Lasciamo perdere i naziqualunquisti, gli
xenofobi più o meno analfabeti, e tutto quanto il cialtrume urlante, tra cui,
però, sono finiti anche tanti di noi. Come si fa, come azzardano certi mei
colti amici, a tirare in ballo una supposta crisi della liberal-democrazia
quando si parla delle cose italiane? E quando mai ci sarebbe stata, da noi, la
liberal-democrazia? Per non dire dei vagheggiamenti su un fantomatico nuovo
modello di sviluppo. E quale? Nessuno che ne abbia idea, salvo proclamare che
quello liberistico-capitalistico, proprio così liberistico-capitalistico, la
mania dei trattatini è rimasta loro dai tempi gloriosi dei dibattiti sulle
problematiche storico-socio-politico-economiche, è finito. Finito mentre domina
incontrastato il pianeta. E non dico affatto che sia un bene. Un anno fa, ho
sentito un pregiato professore universitario, insigne critico e padre delle
patrie lettere, dire che il genere romanzo è un reperto del passato:
agonizzante, se non morto. Applausi della platea. Brillanti i ragionamenti del
pregiato, e per certi versi condivisibili. Un giro in libreria, mi sono però
chiesto, sarà da molto che non lo fanno, lui e i suoi seguaci? E’ di uno o due
generazioni prima della nostra, il professore. Noi, ad ogni modo, siamo fatti
esattamente come lui: capaci di inventarci le più raffinate teorie, o di raccontarci
le più assurde fregnacce, per continuare ad illuderci che le cose possano
andare da sole come vorremmo, ma non di guardare in faccia la realtà.
Perfettamente in grado di accettare con rassegnazione, se non addirittura auspicare, i più sconvolgenti scenari “questo sarà il
secolo dell’Asia. Il futuro è della Cina. No, è dell’India. No, è bla bla bla …”,
ma non di ammettere che qualcosa deve e può essere cambiato.
Dalle
14:00 del 1 alle 9:42 del 3 dicembre 2014 Perché
diavolo ci comportiamo così, non l’ho mai capito del tutto. Il peso delle
vecchie affiliazioni ideologiche? Può essere. Noi, dico proprio quelli nati
fino a metà anni sessanta, perché poi le cose sono cambiate in fretta, abbiamo
fatto tempo a partecipare al giochino del destra-sinistra. Giochino, viso da
qui, da me, oggi. Allora tutti si era di una o dell’altra parte ed era una cosa
seria: ci si identificava prima di tutto così. “Quasi tutti di sinistra, almeno
dalle mie parti. Anzi, leva il quasi.
Come sono finiti, non certo in pochi, poi a votare il duo B & B? Una delle tante
cose da capire”. Non solo: tutto era di destra o di sinistra; anche le scarpe,
i giacconi “bomber o eskimo?” o le automobili. Convinzioni che ci sono rimaste dentro, alla
faccia della morte delle ideologie, e che trasformano ogni discussione in uno
scambio di accuse o, quanto meno, nella ripetizione di vuote dichiarazioni di
principio ed inutili atti di fede. Discussioni che spesso non si riesce ad
iniziare; in cui è impossibile intendersi anche sulle più ovvie premesse. Parlavo
di giri in libreria? Mi hanno fatto ricordare una serata, di non molto tempo
fa. Siamo tra amici. Tutti più o meno colti, tutti più o meno con arie da intellettuali. Si comincia a
parlare dello stato della cultura in Italia. A me pare opportuno ricordare come nel nostro paese si legga
pochissimo. Lo faccio. Mi becco immediatamente del qualunquista da un serio
psicologo, occhialuto e barbuto, che, conoscendomi meno bene degli altri, pensa
voglia tirare in ballo questo argomento
per “attribuire alla scarsa preparazione degli elettori” quello che in realtà
sarebbe dovuto alla “mancanza di un fattiva progettualità politica” o qualcosa
del genere di non ricordo neppure che fazione del PD. Non solo, sempre
serissimo, barbuto, occhialuto e psicologo, quasi mi dà del bugiardo: “Non mi
interessano le statistiche. Io so sono che in Feltrinelli, certi sabati non si
riesce neanche ad entrare”. Mi viene da ribattere; bella forza, sta parlando di
una libreria su cui gravita, per mancanza di valide alternative, il mezzo
milione che abita la città e le zone vicine. Bella libreria, purtroppo
aggiungo, ma come se ne trova almeno un paio anche nelle più sfigate cittadine
della provincia inglese. Purtroppo perché da lì, i miei amici hanno cominciato
a discutere di temi appassionanti, e di cui sono grandi esperti, dato tra tutti
quanti non sanno mettere assieme tre frasi nella lingua del Bardo. Quali? La perdurante
e perniciosa anglofilia di certi settori della nostra società, la rozzezza del
proletariato nella Gran Bretagna post-thatcheriana e, viso che a parlar male d’America
si continua a non sbagliare mai, i terrificanti dati sull’analfabetismo di
ritorno negli Iuessei. E i dati ancora più terrificanti sul nostro analfabetismo
funzionale? Dico, un italiano adulto su tre sa leggere solo dal punto di vista
strettamente tecnico; non è in grado di comprendere appieno neppure un normale
articolo di giornale. Cifre irrilevanti. Fuori tema. Fuori dal nonsicapiscebenecosa,
che era diventato l’argomento del nostro berciare. Fuori tema anche che in
Italia si vendano, secondo la SIAE, solo sessanta milioni di libri l’anno.
Certo, un solo libro per abitante, e comprendendo tra i libri anche gli
almanacchi calcistici e le guide per la pesca alla mosca. Suona male? Ma c’è di
peggio. Il sessanta per cento degli italiani, e quasi il settanta per cento dei
maschi non legge neppure quel libro. Una questione di scolarizzazione? Non legge neppure un libro l’anno anche il
quaranta per cento dei diplomati. Cifre, soprattutto l’ultima, che quei miei
amici, tutti appartenenti al 10 per cento di italiani che compra la metà dei
libri venduti nel paese, quella sera hanno preferito ignorare. Perché? Lo so
io. Perché non si può evitare, se si ha un minimo di onestà intellettuale, di
discutere con loro anche il ruolo e la qualità delle nostre scuole. Non da oggi,
dopo i deprecatissimi tagli, ma da decenni. E tra quei miei amici vi erano
degli insegnanti? No, ma erano tutti, con varie sfumatura, di sinistra. E da
quella parte, la scuola pubblica, siano quali siano i suoi risultati, non si
critica. Si può, anzi si deve, dire che spendiamo poco per l’istruzione; si può,
anzi si deve, auspicare che i professori siano meglio pagati. E’ pure
consentito muovere generiche critiche ai programmi d’insegnamento. Tutto il
resto, invece, è tabù. E ce ne sarebbero di cose che dovremmo dirci. Abbiamo la
popolazione lavorativa più ignorante di tutta l’Ocse. Come da noi, solo in alcuni
degli stati più poveri della Confederazione Messicana. Popolazione attiva, eh.
Levarsi subito dalla testa i protagonisti di Sciuscià o i vecchietti con il somarello, in qualche remoto
villaggio delle Alpi o degli Appennini: siamo noi, e quelli più giovani di noi,
i protagonisti di questa statistica. Tutti quanti abbiamo completato perlomeno
la scuola dell’obbligo, e il settanta per cento di quelli con meno di
trentacinque anni ha almeno un diploma, eppure abbiamo competenze linguistiche
ridicole e abilità matematiche
inesistenti. Costare che la scuola riesce solo a tramettere un sottile velo di
nozioni, rapidamente dilavato dagli anni, parrebbe ovvio. Chiedersi se debba
cambiare metodi di insegnamento e, oddio oddio, di formazione e selezione dei
propri insegnanti, pure. Ovvio, ma, a sinistra, praticamente impossibile. “A
parte quella sera, l’ultima volta che ci ho provato, mi sono beccato del
disfattista, sempre pronto a dileggiare la Patria. Era una compagna, la tipa,
ma sembrava recitasse un testo scritto dal Minculpop per un cinegiornale Luce”.
E a destra? Lo si va ad avviare di là, allora, un dibattito su questi temi? Ma
figuriamoci … .
Dalle
12:22 del 3 dicembre 2014 alle … Claudio è
quella casetta bianca laggiù, che sembra quasi costruita direttamente sulla
spiaggia. La pancia rubizza che lo manda avanti, si chiama Paco, però. Fino a
pochi anni fa, vendeva anche generi alimentari e Claudio era il nome della
catena di negozi a cui era affiliato; per questo continuiamo a chiamare così il
posto e chi sta dietro il suo bancone. Adesso
non ha insegne; solo un vecchio cartello pubblicitario della Estrella. Estrella
Galicia, si intende: la birra di qui. D’estate, ma solo allora, compare un
altro cartello. Solo un foglio di carta, a dire il vero, appiccicato al vetro
del finestrone che dà sulla spiaggia. Quanto basta ad un pennarello per dire la
mondo: hay bocadillos para llevar. Il cartello si presenta male, ma i panini, los bocadillos, sono davvero buoni.
Quali sono i più popolari? Tra i turisti, quei pochi che arrivano qui tra
Pasqua e metà settembre, non saprei. Tra noi del villaggio, che però non li llevamos, ma li mangiamo lì, invece non
ho dubbi: ad andare a ruba sono quello con i calamari fritti e quello con il
bacon. Sempre fritto, ovviamente. Piacciono anche a me, lo ammetto, e anche ai
miei amici italiani, che pure hanno un palato così delicato. Sarebbero piaciuti
anche a Timothy Leary. Sono delle baguette
intere, delle barras, riempite di
quella roba. Mangiane mezzo metro di una sulla terrazza vista oceano, ma con
zero ombra, alle due di un pomeriggio a metà luglio e scopri cosa vuol dire
psichedelia. Quello, ad ogni modo, chiamalo Claudio o Paco, è anche il mio bar.
Il bar di tutti: è l’unico che abbiamo. Per il resto, è come credo chiunque
immagini un posto del genere. Bancone e pareti rivestiti di perlina che gli
danno un’aria finto rustica, o forse rustica per davvero, ma in un altro senso.
Qualche tavolo di ferro con i ripiani di formica all’interno; qualche atro
tavolo, ma di plastica, sul terrazzo. Appeso ad un muro, un supermegamaxischermo
ultrapiatto, attivato con i mondiali; un po’ dappertutto le foto dei clienti
che se ne sono andati in giro per il mondo. Alle Canarie, Maldive o Baleari?
No, nel Mare del Nord a trivellare pozzi di petrolio, lungo le coste del Cile a
pescare sogliole o al largo della Somalia a tirare su tonni. E le foto sono
tutte di pescherecci, rimorchiatori e piattaforme petrolifere. I turisti vanno
e vengono, insomma, durante il fine settimana può arrivare qualche cittadino,
ma quello resta un bar di marinai e pescatori. E i pescatori, quando non
pescano, bevono. Qualcuno di loro, magari appena tornato dalla Groenlandia, lo
puoi trovare lì ogni sera. Il martedì, però, ci sono tutti. Non pescano, perché
quel giorno c’è un divieto, per permettere a qualche pesce in più di scamparla,
e quindi bevono. Di tutto. Birra, vino. Soprattutto liquori di qui; licor de cafè o de hierbas, a base di grappa. La serata inizia a mezzanotte. Per le
due nessuno è davvero ubriaco, ma nessuno è anche solo lontanamente
sobrio. Bene. Sarebbe molto più facile
parlare con loro, in quelle condizioni, dei benefici della temperanza che
farlo, a proposito di scuola o cultura con quel che da noi passa per destra. “Chiamala
destra. Gente a cui i vecchi liberali non avrebbero mai rivolto la parola”. Una
vasta area politica dentro cui si possono trovare molteplici posizioni. “Come
no; un vero Kamasutra di intelligenze”. Fatte le debite distinzioni tra nuovi e
vecchi fascisti, nazisti con diversi gradi di consapevolezza, seguaci di questo
o quel capo e semplici qualunquisti, su alcune idee chiave vi è, ad ogni modo,
un quasi perfetto accordo. Una, che pure avrebbe interessato il vecchio
Timothy, perché sicuramente dovuta al consumo di qualche modernissimo ritrovato
della chimica, è che la nostra società soffra di un eccesso di cultura. Che ve
ne sia più di quanta la gente si disposta digerirne “la gggente, anzi. Loro l’enfasi
la mettono su ‘sta parola; gli altri lui lavvvoratori. Come se non fossimo
tutti gente e non lavorassimo tutti. Beh, più o meno”. Di certo, sei si parla
di quella che un tempo si diceva alta cultura “perché adesso abbiamo anche la cultura
del pizzocchero”, che ve ne sia più di quella che la gente sia disposta a
finanziare con i soldi delle proprie tasse. “I teatri? Se non incassano
abbastanza, che chiudano. La lirica? M a chi interessa, quella roba? Fessi al
cubo; a qualche centinaio di milioni di persone in giro per il mondo. Con un
minimo di furbizia, di che viverci meglio degli arabi con il petrolio”. Non
solo; secondo alcuni raffinati pensatori di quella parte politica, e tanti,
anche tra noi, che da quella parte votano, tra le cause della nostra crisi c’è
il tempo che i giovani perdono a studiare. “Studi inutili, per di più, dicono
loro, senza interesse pratico. Che quando è un commercialista on un avvocato a
parlati di praticità ti viene anche da ridergli in faccia. E poi, lo decidono
loro cosa sarebbe pratico? Cosa c’era, di pratico, nell’occuparsi di
elettricità a inizio ottocento? E di relatività a inizio novecento? Quando li
sento cominciare con certi argomenti …”.
Abbiamo la forza lavoro meno educata dell’Ocse, o quasi, eppure per loro
ci sono già troppi laureati; addirittura troppi diplomati. Troppa gente,
dicono, che preferirebbe fare altro piuttosto che zappare la terra o sudare in
fonderia. “Cape di m … . Sono come quei deputati siciliani che, subito dopo l’Unità,
firmarono una petizione perché la scuola dell’obbligo non fosse introdotta
nella loro regione. Se ci carusi avesse imparato a leggere e scrivere, si
preoccupavano, nessuno sarebbe più andato spingere i carretti nelle zolfatare”. Mentecatti? Diciamo che hanno visione assai
peculiare della società e dell’economia; che sono propugnatori di uno sviluppo
secondo il modello cambogiano o vietnamita. Sulla scuola? Anche qui le opinioni
variano, ma in buona sostanza quasi tutti, a destra, pensano che sarebbe opportuno
tornare a renderla obbligatoria solo fino alla terza media. “Non tutti sono
fatti per studiare, dicono. E ti viene il dubbio che nel loro stesso caso
abbiano ragione. La terza media è sempre andata bene, dicono ancora. E prova a
spiegargli che non andava già bene allora ed adesso è ridicola; che ci vorrebbe
una laurea anche per fare bene il contadino, altro che zappare la terra”. Ovvio
che, dato che nella loro opinione già si studia troppo, a molti di loro
parrebbe il caso di ridurre gli orari di lezione. “E magari del tutto torto non
hanno; se uno non ha il tempo di soddisfare le proprie personali curiosità, una
vera cultura come se la fa? Facendo i compitini? Ma questo, è un altro discorso
…”. A questo, a che debba durare e se possibile costare di meno, si riducono, ad ogni modo, le idee della
nostra destra sulla scuola. Per il resto, a giudicare dai costanti peana che da
quella parte si innalzano a severità e disciplina, pare quasi la confondano con
un carcere minorile; un’istituzione il cui compito primario è il controllo
delle esuberanti energie giovanili. “Non sia mai che i ragazzi pensino …”. E la
qualità degli studi? E il livello dell’insegnamento? Su questi temi, a destra, non si dice proprio
nulla. Al massimo si può arrivare a contestare, in una media o in un liceo, l’adozione
di un libro di testo considerato pericolosamente filo-comunista. “Vorremo mica
dire che la Seconda Guerra Mondiale l’ha vinta l’Unione Sovietica, vero?” o
auspicare che, mentre gli orari delle altre materie sono ridotti, siano
aumentate le ore di Religione. “Perché dire le preghierine non ha mai fatto
male a nessuno. E il Vaticano è sempre meglio tenerselo buono”. La verità è che
se nella scuola pubblica capita d’imparare qualcosa, a destra tanti si
dispiacciono. Perché loro mandano i figli nelle scuole private? In un certo
senso. Non che a loro di quel che imparano i loro ragazzi importi troppo; avremmo
delle scuole private come quelle inglesi e non dei diplomifici, se fosse così.
No, anche se faticano ad ammetterlo, a loro farebbe piacere vedere fallire la
scuola pubblica proprio perché pubblica: sarebbe l’ennesima dimostrazione che
niente di quel che è della collettività può funzionare; che è intrinsecamente
sbagliato in quanto figlio di una concezione della società, diversa dalla somma
degli interessi individuali, che trovano ripugnante.
Dalle
13:34 del 5 alle dicembre 2014. Quei due
scogli davanti al capo, che si vedono appena tanto sono bassi sull’acqua, sono las Brujas, le Streghe. Molti, però, li
chiamano los Pezones, i capezzoli.
Pacucho, gran custode delle memorie di qui, oltre che patron de barco, dice che in fondo hanno ragione tutti quanti, perché
per i vecchi il loro nome era los Pezones
de la bruja. Sembra un po’ troppo per due pezzi di roccia? L’ho pensato
anche io. Poi Pacucho ha cominciato a farmi l’elenco delle navi che ci sono
andate a sbattere e sono affondate. Sassi pericolosi, insomma. E non solo nei
tempi antichi. Se hai un problema al motore, mentre sei all’imboccatura della
Ria, le correnti ti ci portano proprio sopra. Ad ogni mondo, adesso, ogni volta
che li vedo penso al Giovane Holden.
No, non a The catcher in the rye (l’originale
l’ho letto solo quando avevo già vent’anni e più) proprio alla traduzione
italiana. Fino a poco fa pensavo fosse di Fernanda Pivano. Gran donna. Mi
sarebbe piaciuto un casino conoscerla. Persone così sono monumenti. Anzi, sono
sequoie. alte alte, che hanno visto tutto, lontanissimo, per tantissimo tempo. Avrei dovuto trovare il coraggio di andarla a
trovare. Peccato. Peccato anche di non sapere niente di chi l’ha fatta davvero,
la traduzione che ho letto io. Solo il suo nome: Adriana Motti. Chissà se il
titolo lo ha scelto lei? Azzeccatissimo, ad ogni modo; per me, anche meglio
dell’originale. Ma quale sarà stato il giovane che aveva in mente? Werther o Törless?
Domande che mi sono fatto dopo, si intende. Quando ho letto il titolo di ‘sto libro, che una mia
cugina doveva aver lasciato a casa dei nonni, non ho certo pensato a Goethe o a
Musil. Anzi, non mi sono chiesto un bel niente. Massimo se si trattava di un
giallo, anche se dalla copertina non pareva proprio. Pioveva, però. E in quella
casa, da leggere, non c’era altro. L’ho aperto su una pagina a caso, e subito i
miei occhi sono corsi ad una frase: l’aria
era fredda come i capezzoli di una strega. Non avevo mai, mai, letto niente
di tanto indecente. Di tanto sconvolgente. Di così pornografico. Roba da
richiudere immediatamente quel libro, come se dentro ci fosse stata una vipera,
e correre fino al piano di sopra, alla camera dove dormivo. Portandomelo
dietro. E mi è anche piaciuto. Dico, il resto del libro. Non come mi è piaciuto
quando l’ho riletto da grande, ma mi è piaciuto. Questo, solo per spiegare cosa
c’entrano quegli scogli con Salinger. No, perché se dovessi dire qual è stato
il libro più significativo della mia adolescenza, non so se sceglierei proprio
il suo. Forse finirei per dire Lo
straniero, per fare il fico, o magari Furore,
per farlo solo un po’ meno. Finirei per dire,
appunto. Quanto a pensarlo, tutta un’altra faccenda. Anche se non lo ammetterai
mai, in pubblico, il libro che in quegli anni cruciali per la mia formazione
più mi ha segnato, al punto da farmi venire le occhiaie e, se si dà retta a
certe voci di popolo, farmi perdere almeno due diottrie, è certamente Porci con le ali. Mi ricordo ancora dove
l’ho comperato: ad una festa dell’Unità. Con un po’ di batticuore, per quel che
si vociferava si trovasse tra le sue pagine, e molto imbarazzo, nonostante il
sorriso, che ora direi materno, della veneranda compagna, quasi quarantenne,
che gestiva quella bancarella. Resta che a me, allora, era sembrato un capolavoro;
da passare delle ore su ogni pagina. Tu lo hai fatto con le Upanishad in Sanscrito? Sì, come no. Io,
intanto, faccio ancora i complimenti a
Antonia e Rocco, anche se non ricordo più esattamente chi fossero. Lo avevo
letto da qualche parte, ma … . Eh, la memoria. Se mi ricordo i libri fatti a
scuola? Certo. A parte che in quel fatti c’è la chiave di tutto. Nelle nostre
scuole si fanno gli autori, a cominciare
dallo studiare le loro immancabili biografie, ma non se ne leggono le opere, se
non ridotte a frammenti; disperse in
coriandoli. Poesie nel vuoto cosmico e brani di narrativa che così, isolati dal
proprio romanzo o racconto, possono al massimo servire come esempi di stile. I
primi autori si fanno, e non si leggono, alle medie inferiori. Alle superiori stesso
discorso; solo non se ne legge qualcuno in più. All’Università? Là, non si
legge moltissimo e in modo molto, ma molto, più approfondito. Almeno, se devo
giudicare da certi mie conoscenti. Devo limitarmi a parlare di me? Beh, io a scuola ho solo
fatto qualche mezzo canto della Divina Commedia, con tanto di traduzione in italiano. Unico romanzo davvero letto per intero o quasi, I
promessi sposi, per di più trasformato in una noiosissima successione di
capitoli, studiacchiati uno ad uno. Di che far passare a chiunque la voglia di
avvicinarsi ad un libro; altro che stimolare l’amore per la letteratura. Parlo
sempre male della scuola? A volte, lo ammetto, La svaluto? Assolutamente no. Se
me ne occupo, oltre che perché ho dei figli che stanno passando il suo tritacarne
(e la scuola di qui è pressoché identica alla nostra, nei modi come nei
risultati), è proprio perché la reputo fondamentale: perché resto dell’idea che
i cittadini si formino lì; che li incontrino, per la prima volta, lo Stato e le
sue istituzioni. Mi rendo anche conto, però, che la nostra non è, e non è mai
stata, la miglior scuola del mondo,
come ama ancora ripetere qualcuno., che il mondo deve conoscere davvero poco. E’
suppergiù quella che dicono le statistiche. Pessima, qualcosa i metodi di
insegnamento dovranno pur contare, solo per quanto poco ricorda, già dopo pochi
anni, chi l’ha lasciata. Per il resto, per le competenze dei suoi studenti, è perlomeno
mediocre o quasi: un risultato tutt’altro che negativo, considerando quanto
poco vi investiamo. Assieme alla sanità è, anzi, il fiore all’occhiello della
nostra pubblica amministrazione; l’unico suo settore degno, o quasi, di un
paese sviluppato.
Dalle
8:34 del 7 alle 14:09 dell’ 8 dicembre alle 2014. E’ tutto il resto che è un disastro. Dalla posta che non
arriva mai, sempre che arrivi, agli ottanta e più adempimenti fiscali “dico,
adempimenti fiscali; si finisce anche per parlare come dei rincoglioniti” che
esige ogni anno si esigono anche alla più microscopica delle bottegucce, agli
oceani di tempo sprecati in pratiche burocratiche senza senso o alla ricerca di
certificati inutili, o che tali sarebbero se solo ci si decidesse una buona
volta ad istituire un archivio centrale informatizzato, il nostro apparato
statale pare essere stato disegnato da un mente malata. Sì, da un altro
Chisciotte con il cervello fritto dalle troppe letture. Di Borges e di Kafka. Il
nostro pubblico impiego, detto altrimenti, ci sta trascinando a fondo. E’ una
palla al piede; un plinto di cemento ai piedi, anzi, per omaggiare gli
atteggiamenti para-mafiosi di certi sui apparati. Chi ci lavora potrà anche
essere esemplare, per diligenza ed impegno, ma non produce un bel nulla, anche
nel più ampi e lato dei sensi. “Un poeta ordina le parole per produrre un
sonetto. Chi è costretto, nel 2014, a tenere in ordine chilometri di faldoni,
che servizio reale dà?”. Idee mie? Non si trova una sola statistica che indichi
che attribuisca alla nostra pubblica amministrazione un’efficienza degna anche
solo di un paese in via di sviluppo. Secondo i numeri forniti dalle
organizzazioni internazionali, pare quella di un paese che allo sviluppo debba
ancora arrivare e, di questo passo, non arriverà mai. Prima in Europa in un
solo settore: nella corruzione, alla pari con la Romania. “E poi prendiamocela
con questi o con quelli. Sì, proprio, tutta colpa dei clandestini … ma va”. Non
si vogliono compulsare tabelle? Basta riflettere su una cifra che dovremmo
conoscere tutti. Il bilancio de nostro stato vale la metà del Pil. Sì, come in
un paese scandinavo. E i servizi che riceviamo in cambio? Sono paragonabili a
quelli di cui godono danesi e svedesi? E … già! Colpa dei politici che rubano?
Anche, certo. Colpa, soprattutto, di quella fottuta eredità fascista di cui non
riusciamo proprio a liberarci. Lo so, finisco sempre per battere su quel
chiodo. Una mania? No. Un minimo di ragionevolezza. La pochissima che serve per
capire che i servizi come i servizi pubblici dovrebbero esistere solo per
fornire servizi al pubblico. Quanto destinarvi, quale debba essere il livello
di tassazione necessario a mantenerli, fino a che punto debbano estendersi,
sono tutte decisioni politiche; quelle su cui dibattono conservatori e
progressisti in tutti i paesi civili. Da noi, ancora come durante il ventennio,
le aziende pubbliche servono prima di tutto a distribuire salari, creare
consenso e consolidare basi di potere. Un esempio dalle cronache di questi
anni: Atac Roma, l’azienda di trasporti pubblici della capitale. Gli autobus
sono dei catorci che stanno assieme col filo di ferro. Le linee sono poche. La
qualità del servizio, in generale, degna di una città di provincia dei Balcani
che furono. Le amministrazioni si susseguono, le pratiche clientelari pure. Il
bilancio è sempre in profondo rosso, tanto da determinare una voragine di debiti
che lo stato deve provvedere a ripianare. Un bel quadretto? Non basta. Un’indagine
della magistratura scopre una vera e propria associazione a delinquere, tutta
interna all’azienda, che stampa e vende biglietti falsi. “Eggià; falsificavano
se stessi”. I soldi finivano poi nelle tasche di politici di tutti i partiti. Prima
in quelle di chi amministrava prima; dopo in quelle di chi ha amministrato
dopo. Stessa fine anche per le bustarelle per la fornitura di pezzi di
ricambio, ovviamente pagati decine di volte il loro valore di mercato. Di una
sola cosa è ricca, l’Atac: di personale. Zeppa di dirigenti strapagati,
ovviamente; amici e parenti di che andavano sistemati assieme a mezze giure
della politica cui andava offerto un paracadute dopo qualche trombatura. Sono
però più del necessario, molti più del necessario, anche impiegati ed autisti.
Tanti, tra loro, sono dei raccomandati. Gli altri votano comunque tutto,
assieme alle proprie famiglie. Di autisti, in particolare, ce ne sono talmente
tanti che, nonostante la salute cagionevolissima, che rende molti di loro
inabili permanenti al servizio, una discreta percentuale, specie durante i fine
settimana deve essere lasciata a casa. Liberi con paga, la dizione ufficiale. Perché?
Semplice non si trovano proprio mezzi da far guidare loro. Bene. Preso atto di
questo disastro, si fa un po’ di pulizia. Si trovano anche i soldi per tirare
avanti. Si tratta di rilanciare l’azienda; di elaborare un nuovo piano
industriale. Incontro tra la rinnovata dirigenza ed i sindacati. Si trova
presto un accordo. Da dove si riparte? Acquisto di qualche centinaio di nuovi
autobus? Ma nooo … seicentocinquanta nuove assunzioni. Cosa? Roma ladrona?
Perché, al nord cambia qualcosa? Le assunzioni delle amministrazioni leghiste
in questi anni, hanno prodotto servizi migliori? Ancora un numero. Tra il 1996
e il 2011, piangendo di taglio in taglio, la nostra spesa pubblica è aumentata
del settanta (sì, sette zero) per cento. Un aumento tutto avvenuto a livello di
amministrazioni locali. Con che benefici per i cittadini? Nessuno, ma in fondo
questi non interessavano. Colpa di chi? Di tutti, o quasi, come tutto o quasi
nel nostro paese. Un altro esempio tratto dalla tragicommedia Atac. Troppi
passeggeri, si dice, non pagano il biglietto. Nonostante la pletora di
dipendenti, di controllori, forse perché la mansione era troppo umile, ce ne
sono pochissimi. Assumerne di nuovi, con quell’Everest di monte salari che già
grava sul bilancio, non si può. Come fare? Qualcuno se ne esce con un’idea rivoluzionaria.
Presa pari parai da un film di fantascienza, o forse semplicemente da una corsa
in autobus in una qualsiasi città del resto d’Europa. Si potrebbero far salire
i passeggeri dalla sola porta anteriore e chiedere agli autisti di dare un’occhiata
ai loro biglietti. Immediate le proteste della categoria, già tanto oberata di
lavoro. Ovvio l’appoggio immediato dei sindacati; in fondo si sono limitati a
fare il proprio mestiere. Meno ovvio che l’amministrazione cittadina non abbia
insistito. Poi ci si ricorda che è di sinistra e che da quella parte i
lavvvoratori, (quelli che hanno un contratto con tutte le garanzie, si intende)
non si toccano. Anche quando non lavorano; nonostante i conti li debba poi
pagare chi, magari con una vi sola, in una delle mille forme di sottoimpiego
inventate in questi anni, lavora davvero.
Dalle
14:20 dello 8 alle 9:15 dello 11 dicembre 2014. Da destra si saranno fatti sentire? Ma figurati. Meta di
quegli autisti sono loro elettori; li hanno assunti loro, il giro prima. E per
il funzionamento dell’Atac, non hanno comunque il minimo interesse. Tanto è
un’azienda pubblica, quindi disastrosa per definizione. E poi, comunque, loro
vanno in Mercedes. Sì, in buona sostanza si ripetono gli stessi preconcetti che
impediscono di dibattere dei problemi della scuola. Gli stessi che impediscono
che si possa anche solo pensare di avviare un cambiamento. E non solo nel
settore pubblico. In un paese che conserva i notai come durante il Medio Evo, e
dove è bastato ipotizzare una liberalizzazione delle licenza dei taxi per
scatenare una mezza rivoluzione, ogni categoria ha il pieno appoggio di una
parte politica e mantiene i propri privilegi, a volte minimi, a volte
miserabili, grazie alla connivenza o al disinteresse dell’altra. “Cozze. Siamo
un paese di cozze. Ce ne stiamo aggrappati al nostro scoglio sperando di veder
risalire la marea”. Potrei anche a prenderne un po’, prima di tornare a casa.
Magari mi faccio prestare un sacchetto da qualcuno, là al molo. Sono belle
grosse quelle che crescono sulle rocce del frangiflutti, e per quando arriverò la marea dovrebbe
essere scesa abbastanza. Il nostro oro nero, ad ogni modo. Quelle specie di
zattere, che galleggiano tra l’isola e l’insenatura, servono a coltivarle.
Cozze, come pure cappesante e ostriche. Sembrano piccole, viste da qui, ma sono
dei quadrati di una ventina di metri di lato. Bateas, le chiamano così. Molte famiglie ne hanno una; qualcuna
due. Delle griglie di travi di eucalipto, che qui cresce dappertutto, peggio di
un’erbaccia, da cui pendono centinaia di funi che dei pesi tendono verso il
fondo. Le donne, sono sempre loro i lavori di pazienza, inseriscono una ad una,
in ognuna di queste funi, migliaia di minuscole conchiglie. Gli uomini, ogni
giorno, vanno alle bateas, mettono in
mare una o due delle funi così seminate e ne recuperano altrettante di quelle
dove, negli giro di qualche mese, ma mi pare che per le ostriche serva un anno,
le conchiglie sono cresciute fino alla dimensione giusta per essere vendute. E’
uno spettacolo assistere a questo raccolto; vedere gli argani salpare questi
cavi ricoperti di quintali di cozze. Almeno, a me piaceva, le prime volte.
Adesso mi sono abituato anche a questo. L’esotico, non appena diventa
domestico, annoia. E se non fossimo cozze di scoglio, ma d’allevamento? Se la
storia un bel giorno decidesse che è venuto il momento di recuperare la nostra
fune? Non riusciamo a capire, intelligenti come presumiamo d’essere, i rischi
che stiamo correndo? “Ma figurati. La verità è che potremmo anche non essere
stupidi, ma non riusciamo a capire un bel niente. Ci mancano gli strumenti
minimi per farlo; innanzitutto ci informiamo poco e male”. Sempre le
statistiche, le orride cifre davanti a cui fuggiamo a gambe levate, a
raccontarci come siamo fatti. Non solo non leggiamo libri, non ci sogniamo
neppure di sfogliare i giornali. Quando vediamo qualcuno, magati il lunedì
mattina, sprofondato tra le pagine rosa della Gazzetta, non dobbiamo sorridere con aria di superiorità: ci
troviamo davanti, ad ogni modo, un rappresentante della nostra élite culturale.
Solo il 9% dei nostri compatrioti, infatti, compra dei quotidiani. E comprendendo
nel conto anche quelli sportivi. Pochi? Oh, ma questo è solo il dato nazionale.
In certe zone del Mezzogiorno, a comprare il giornale è solo un abitante ogni
24. Ma la gente si informa in rete? Ancora un paio di anni fa, lo faceva solo
il 2% di noi. Navighiamo, anche se meno degli abitanti di altri paesi, ma sul
web non andiamo certo a caccia di notizie. No: per tutti noi, o quasi, la
televisione è l’unica fonte di informazione; quel che dice il telegiornale è quello
che si sa delle cose del mondo. E dalla televisione, oltre alle notizie,
arrivano anche le chiavi interpretative; le idee e le opinioni. I materiali con
cui pensare. “Vivi lontano da troppi
anni, ormai”, mi dicono, “che ne vuoi sapere dell’Italia”. E voi, che ne
sapete, più di me? Conoscete la strada che dovete percorrere per andare e
tornare dall’ufficio e gli scaffali del supermercato dove fate le spesa il
sabato. Poi, cosa? Cosa si capisce da una sbirciata alle vetrine dei negozi del
centro? E da un fine settimana fuori città? E dalle ferie, se ancora andate a
farle? Che con lo stipendio non si arriva più a fine mese; che le cose non
vanno bene perché si vede sempre meno gente in giro. OK. Ma perché? E soprattutto,
cosa si può fare per andare meglio? Ovvio che queste domande ve le fate. Me le
faccio anche io. Le risposte che troviamo già pronte, confezionate con un bel
nastrino, sono le stesse, per me e per voi. Sono quelle fornite da organi che
fanno sempre meno informazione e sempre più propaganda. E non solo i maledetti
telegiornali; quelli pubblici, sotto controllo politico, e quelli privati,
controllati da soldi che in politica si sono messi in proprio. Anche l’informazione
su carta stampata è dello stesso infimo livello. “Ma se tanto non la leggiamo?
Appunto. Dato che copie non se ne vendono, perché gli editori continuano a
pubblicare?”. Basta guardare i bilanci
dei vari quotidiani. A parte i due più grossi, ce ne sono solo un altro paio
che non chiudono in rosso. “Pensi che i loro proprietari si accollino le
perdite per spirito di servizio? Ma ti bevevi le favole di Ciriaco de Mita? Ah,
non sai neanche chi fosse. Ma quanti anni hai? Cavolo, cinque più di me. Certo
non li dimostri. Complimenti. Ma come fai a non ricordarti di De Mita? Ah, non
ti sei mai interessato alla politica. Adesso ti astieni e ai tempi votavi DC.
Meraviglioso”.
Dalle
3:07 alle 5:56 del 12 dicembre 2014. Si vede che sono maturato. Da bambino, mi ero
inventato un amico; da adolescente, avevo un harem di ragazze con cui facevo
l’amore con la fantasia. Adesso passeggio su una spiaggia con uno sfigato
immaginario. Uno impara a non farsi illusioni neanche quando si fa delle
illusioni. E certo meglio non farsene sui nostri editori. Quasi tutti loro,
oltre a stampare giornali, fanno altro. Controllano società attive nei più
diversi campi. E non sono certo dei benefattori. Cosa voglio dire? Che le loro
testate possono benissimo perdere dei soldi, ma loro proprio no. I capitali che
devono versare per chiudere i buchi di bilancio dei loro quotidiani, tornano
poi moltiplicati nelle loro tasche. Sono un investimento; una spesa di rappresentanza. Per piccoli che
siano, i loro giornali, e spesso sono tutt’altro che piccoli, influenza
l’elettorato nelle zone in cui sono distribuiti. A livello nazionale, alcuni;
nelle proprie città i vari Gazzettini. Un’influenza che, da sempre, è merce di
scambio con la politica. L’Onorevole è in odor di mafia? Si tace. Anzi, lo si
descrive come un santo o poco meno, in un bell’articolo pubblicato in prima
pagina. Una solenne marchetta firmata da direttore. Dal capo –marchettaro; dal
tenutario del bordello. E i lettori? Sono solo un secondo pensiero. Si
indignano? Qualcuno, forse. Altri, si limitano a sollevare un sopracciglio. Non
leggono neppure l’articolo, immaginando cosa ci sia scritto e perché sia stato
scritto. Conservano il proprio spirito critico, ma quel titolo e quella foto
dell’Onorevole sorridente e rilassato, resteranno nella loro memoria. Quasi
tutti, si limitano a scrollare le spalle; magari capiscono di comprare una ciofeca di giornale, ma tanto
sono delle schifezze anche gli altri. E se qualcuno di loro non torna in
edicola, poco importa. Non sono le copie vendute a tenere in piedi quel
quotidiano. I loro Euro e spiccioli, sono solo bazzecole. Ci sono in ballo
contratti, appalti e licenze. Soldi veri. A palate. E l‘Onorevole e il suo partito,
grati, prima o poi troveranno il modo di farli avere all’editore e al resto
delle sue imprese. Sì, certo, è un altro cane che si morde la coda: non
leggiamo, e i nostri giornali campano facendo interessi diversi da quello dei
propri lettori; i nostri giornali fanno schifo, e noi non li leggiamo. E i
giornalisti? Tra loro ci sono stati, e ci sono, degli eroi. Pochissimi. Sono quelli che ci hanno lasciato la pelle, o
che oggi la rischiano, scrivendo delle nostre mafie, occupandosi di terrorismo
o cercando di raccontare guerre e rivoluzioni.
Sono stati e sono dei martiri dell’informazione. Sono anche i paraventi
dietro cui si nasconde una categoria screditata quanto e più delle altre che si
dividono la nostra sfera pubblica. I giornalisti televisivi, tutti, dal primo
all’ultimo, compresi i gestori delle tele-osterie pseudo-rivoluzionarie, sono
arrivati dove sono grazie a raccomandazioni, spintarelle ed aiuti. Nel caso di
quelli che lavorano per la reti
pubbliche, soprattutto grazie all’aperto padrinaggio di questa o quella parte
politica. Per quelli di lungo corso, per meriti di tessera ai tempi della
vecchia partitocrazia. E quelli delle reti private? Per lodo discorsi del tutto
analoghi, con il più il dovere di dimostrare fedeltà al jefe superrimo. E le cose non cambino troppo con la stampa. Non c’è
modo migliore di entrare nella redazione di un quotidiano o di un settimanale
che essere figli o amici di, protetti o raccomandati da. Una massa di
paraculati? Esatto; magari pagati pochissimo, specie agli inizi, ma questa è
un’altra faccenda. Risultato? Un giornalismo velinaro, fatto di interviste
inginocchiate al potente di turno e di articoli che non osano discostarsi dalla
sacra e santa linea editoriale.
“Bell’eufemismo. Potevano anche chiamarla spartito, però. Tutti in coro e bene
intonati e il primo che stecca può fare la valigia. Ma tanto loro non steccano
mai”. E il giornalismo d’inchiesta? Fatti salvi un paio di nomi “beh, la Gabanelli mi piace proprio. E Saviano, anche se scrive come scrive, povero, pure”, quelle che
leggi o vedi in tivù sono tutte inchieste monocole, fatte per favorire una
parte e danneggiare l’altra. Il sistema nel suo complesso, salvo i soliti alti
quanto generici lai, non si mette mai in discussione. Forse dai giornalisti che
ci ritroviamo, non possiamo pretendere di più. Forse hanno un minimo di senso
della decenza, dopo tutto. Capiscono di non poter denunciare il nepotismo,
quando è grazie a questo che hanno iniziato le proprie carriere. E neppure
possono prendersela troppo con la corruzione: sono i primi ad essere corrotti
sotto ogni punto di vista, solo escluso, e neppure sempre, quello penale. Sono duro con la categoria?
Durissimo. Proprio perché ritengo abbia responsabilità enormi. I giornalisti
dovrebbero essere i cani da guardia della democrazia. “Bella ‘sta frase; ho
scoperto che arriva da una sentenza della Corte europea per i diritti
dell’uomo”. Bene, se hanno ancora il coraggio di guardare al paese per quello
che è, per quello che è diventato sotto ai loro occhi, i nostri dovrebbero
chiedersi se non si sono piuttosto comportati da chihuahua. “Sì, da cani da
salotto; anzi, da lecca”.
Dalle
8:59 del 13 alle 13:58 del 14 dicembre 2014 Pretendo
troppo da loro? Ho una visione irrealisticamente alta e nobile del loro
mestiere? Non credo. Per cominciare, non credo affatto che il compito dei
giornalisti sia quello di rivelare assolute quanto astratte verità. Avessi
avuto di queste illusioni, ci ha pensato mio nonno a levarmele, quando ero poco
più che un bambino. Tutto un personaggio,
Nonno; prima o poi, sicuro che gli dedicherò un romanzo. Partigiano, ma solo
perché aveva sentito essere proprio dovere salire in montagna “I ragazzi, se
no, buoni solo a farsi ammazzare”. Per il resto, disgustato dalla politica “vedeva
lontano, il nonno. Magari perché era così alto. Oddio, poco più di me adesso,
ma per la sua generazione doveva essere un gigante. Dove fosse diretta il
paese, ad ogni modo, lo aveva capito benissimo” anche se era una specie di
eminenza grigia di quella locale. Credo si prendessero più decisioni nella sua
cantina, dove i suoi vecchi amici, diventati democristiani o di sinistra (comunisti? Da quelle parti ce n’erano
pochissimi e, per solito, di una o due generazioni dopo la sua) si riunivano a
prosciugare un litro di Valgella dopo l’altro, battendo i pugni sul tavolo, che in consiglio
comunale. Di sicuro votava, questo sì,
ma non saprei dire per quale partito. Forse Repubblicano, forse
Liberale. Secondo Nonna, che ricordo
strillare ai tempi del referendum sul divorzio, forse addirittura per quei
drogati senza Dio dei radicali. Il suo partito, però, non c’era più. Ogni tanto,
per esempio mentre si stava facendo la barba “usava un rasoio a mano libera; dopo
l’ho visto usare solo da qualche vecchio barbiere”, gli saliva alle labbra una
canzone. Ne ricordo di sicuro la prima strofa: “ Il Partito d’Azione è un gran
partitone”. Non un granché, lo ammetto. Il ritornello, ma non sono certo
facesse proprio così, forse era meglio: “Per un’Italia federale, repubblicana e
liberale ...”. Canticchiava, va detto,
sempre a bassa voce. Quando parlava, invece, lo sentivano anche in cima alle
montagne. Con lui e la nonna passavo le vacanze estive. Mamma e Papà lavoravano
e, appena terminava la scuola, mi portavano da loro. Su. Mi piaceva, su. Non so
se fosse così, ma adesso lo ricordo come una specie di paradiso, di prati
verdissimi e cieli perennemente azzurri. C’è il sole anche mentre vado a fare
la spesa con Nonno. E’ in pensione; Nonna cucina e quello è compito suo. Siamo
a metà mattina. Il giorno, uno qualsiasi di luglio, forse proprio nel 1973.
Abitavano fuori dal paese. Camminiamo lungo gli argini dell’Adda, tra i campi. “Adesso
hanno costruito di tutto; sembra una versione brutta di una periferia brutta”.
Lui cammina col suo passo ancora spedito, con quelle sue gambe lunghe lunghe.
Per stargli accanto, devo quasi correre. In piazza, davanti al monumento con il
solito alpino morente e baciante il tricolore, la prima fermata. Una buona mezz’ora.
Deve salutare questo e quello; questo e quello devono assolutamente parlare con
lui di chissà cosa. Io mi annoio, ma me ne sto buono. Ormai ci sono abituato;
succede così tutti i giorni.
Soprattutto, so che dopo, finito di compare le cose che la Nonna gli ha
segnato nel negozio del signor Bruno, mi comprerà un ghiacciolo o forse anche
un gelato. Prima di incamminarci verso casa, infatti, andiamo nel bar-edicola
dietro la torre del campanile. Il Nonno, di giornali a volte ne compra più di uno. Il
Corriere della Sera, però, sempre. Oggi, mi viene di chiedergli perché. Lui
allarga le braccia: “Cosa vuoi, Daniel è il mio giornale. L’ho sempre letto …”.
Io capisco subito come devono stare le cose: “E lo hai sempre letto, perché
dice sempre la verità”. Nonno mi da una carezza sulla testa. Una sola, pesante
e ruvida, come sono le sue. Sorride. “Ma
figurati, Daniel. Racconta un sacco di panzane, solo sono quelle che piacciono
a me, raccontate come piace a me”. Una bella lezione; una delle tante che devo
a mio nonno. Da allora, so che non è tra le pagine dei giornali che troverò un’astratta
e assoluta verità. Cosa chiedo, dunque, ai giornalisti? Proprio in quest’epoca
in cui siamo sommersi di notizie, che tornassero a scovare le proprie; che non
si limitassero a rivestire con parole proprie, per di più in modo spesso
sciatto, i lanci delle agenzie. Oltre a questo, che credo sia destinato a
restare per sempre un pio desiderio, “ con le redazioni ridotte all’osso…”,
qualcosa di ancora più importante; di assolutamente fondamentale. Vorrei che
nei loro articoli, soprattutto in quelli di commento, i giornalisti
esprimessero le proprie opinioni. Le proprie personali, non quelle del
direttore, dell’editore o, peggio ancora, di qualche partito o movimento
politico di riferimento. “Se si dovesse scegliere se vivere con un governo ma
senza giornali o con dei giornali ma senza governo, io preferirei tenermi i
giornali e farei a meno del governo”. Dovremmo inventare delle virgolette speciali,
per dire che siamo citando, ma solo grossomodo. Qualcosa simile all’uguale con
quell’onda al posto del trattino superiore che usano matematici e fisici per
dire che un risultato è solo approssimato. Insomma, quella frase, magari non
suona proprio così e qualcuno ne potrebbe conoscere un’altra versione. E’ di
Thomas Jefferson, comunque, e io l’ho sempre trovata bellissima, almeno per
quel che dice. Questa forse suona meno bene, ma credo fermamente sia
altrettanto vera: “In un paese in cui gli organi di informazione sono ridotti a
meri megafoni di gruppi d’interesse, politico od economico, la democrazia è
morta. Peggio, se n’è fatto uno zimbello”.
Dalle
8:48 del 15 alle 5:48 del 16 dicembre alle 2014. E noi? Intendo, i miei coetanei. Abbiamo cercato di cambiare
un sistema informativo che pareva, già quando eravamo ragazzi, una specie di
campo di concentramento per il controllo e la soppressione delle idee? Ma
figurati. Quelli tra noi che ce l'hanno fatta,
a entrare nelle redazioni di giornali e televisioni, hanno solo svolto
diligentemente il proprio compitino. Si sono rivelati quasi tutti dei
carnefici, e spesso tra i più volonterosi. Tra loro,
tra noi, non sono certo emersi dei nuovi Montanelli o Bocca. Tutt'altro che dei rivoluzionari, quei due, ma, avevano una loro dignità. Se leggevi un
articolo con la loro firma potevi stare certo che quelle che vi trovavi fossero
le loro idee. Spesso le stesse dei loro direttori od editori, ma non sempre.
Non per forza. Se avevano un’opinione scomoda, di quelle che non piacciono a
nessuno, “turiamoci il naso e votiamo DC? Di che far incazzare proprio tutti”, anche
a rischio di scontentare i propri stessi lettori, non avevano remore ad
esprimerla. E le loro idee non erano mai banali; le loro opinioni, soprattutto,
non erano mai scontate. Alla faccia degli appassionato del dest-sinist, io stimavo
entrambi. Andavo cercare i loro articoli
come si va a chiedere un parere a qualcuno di cui ci si fida. Un parere e nulla
più, con cui potevo essere d’accordo o meno. Che poteva anche farmi arrabbiare,
addirittura indignarmi, ma che era onesto, sentito. Davvero loro. Oggi? C’è
qualcuno cosi? Travaglio? Ma figuriamoci.
Su qualunque tema, ma i suoi temi sono proprio pochi, sai già quello che
scriverà. Gramellini? Forse. Un po’ troppo beneducato, ma forse sì. Quasi. Per
il resto, meglio stendere un velo pietoso. Anzi, un sudario. Non ci sono più
neppure dei Biagi. Dei professionisti, magari senza troppi lampi, ma sempre
seri. Penne che forse non svolazzano libere, ma che neppure sono sempre piegate
al volere di un padrone; che non si sono vendute. “Fosse vivo mio padre, so benissimo
come li avrebbe chiamati, certi kapò del nostro giornalismo”. E' passato
qualche anno, da quel mattino col Nonno. E' una domenica pomeriggio. Sto
guardando la tele con Papà. Stiamo aspettando il collegamento per la partenza
del Gran Premio. Lui è già malato, sa che non gli resta molto, ma la Formula Uno
continua a piacergli. Perlomeno lo distrae. Nell'attesa, ci ritroviamo a
guardare un programma sul Primo. Domenica
In. Credo vada in onda ancora di questi tempi. La trasmissione è appena
iniziata. Il conduttore sta presentando gli ospiti. Tra loro, uno dietro l'altro,
un prelato, un politico "allora li
trovavi dappertutto; peggio che adesso" e un famoso giornalista. Dico una
qualche stupidaggine; forse sento il bisogno di mostrare il mio adolescenziale
anticlericalismo con una battuta su quel vescovo o cardinale. Papà è tutt’altro
che un baciapile, ma so che certi discorsi, oggi li definirei qualunquisti, gli
danno fastidio. Non replica, però. Sa che devo ancore crescere; solo gli
dispiace, almeno credo, che dovrò farlo troppo in fretta. Preferisce spiegarmi,
con quella sua voce che si va facendo sempre più roca: “Vedi, Daniel quei tre
non fanno dei mestieri, seguono delle vocazioni. Dovrebbero. Se è così, possono
fare, ognuno a modo suo, del gran bene. Se invece quelle vocazioni non ce le
hanno, o le tradiscono, sono peggio delle peggiori puttane”. A proposito di
vocazione; ieri sera Paracha è venuto a cena. No, non l’ho invitato. Per lui la
porta è sempre aperta e un piatto da mettere in tavola è sempre pronto: è un
mio amico. E’ anche el Roquero mas grande de Costa da Morte, perlomeno lo presentano
così, quando lo presentano. Ha la mia età, è più alto di me e pesa una
sessantina di chili, con gli anfibi addosso. Canta per vivere. No, non per
guadagnarsi da mangiare (la sua magrezza non è solo un fatto costituzione); per
necessità fisiologica, come la nostra di respirare. E' bravo? Deve esserlo
stato davvero, venti o trent’anni fa, quando ha pubblicato anche un paio di
dischi. Adesso di voce non glie ne resta molta e spesso non riesce ad arrivare
alla nota giusta. Un posto dove esibirsi, però, lo trova sempre. Nei fine
settimana d'inverno, in qualche bar. Nelle notti estive, sui palchi delle
sagre. Non di quelle delle cittadine, riservati alle celebrità provinciali; in
quelle dei villaggi e, anche lì, quasi mai il sabato sera, quando si deve far
ballare la gente. E lui non fa ballare. Prende il microfono, sempre che ci sia,
e si apre l'anima in due per strapparsi una My
Hometown che commuoverebbe anche Springsteen, sempre che riuscisse a
riconoscerla. Lo pagano? A volte. Perlomeno gli danno da bere, e lui sta in
piedi a sigarette, che si arrotola con una mano sola, e a licor de cafè: una mistura di grappa fatta in casa, caffè e
zucchero che, da queste parti, è il motore psichedelico delle notti brave.
Speranze per il futuro? Quella di non avere un'emorragia mortale nel prossimo
paio d'anni. Sì, il suo fegato ormai è storia. Patetico? A lui non importa. Non
gli importa proprio di niente; solo di continuare a cantare.
Dalle
3:24 alle 9:22 del 17 dicembre 2014. E a me, invece, cosa importa? Cosa importa ad
ognuno di noi? Siamo così sicuri di poterlo guardare dall’alto in basso? Fino a
pochi anni fa, io lo avrei fatto. “E anche la prima volta che l’ho visto; era
inginocchiato di fianco alla mia auto e stava vomitando”. Lo avrei considerato
una specie di pazzo; quanto meno uno spostato. Avrei pensato che vivesse a quel
modo, che fosse a quel modo, per una sua scelta bislacca. “Un mezzo barbone che
avrebbe fatto meglio ad andare a lavorare”. Non avrei capito nulla di lui, come
capivo davvero poco di me. Solo ora, quando forse è troppo tardi, so che una
scelta, per lui, sarebbe stata vivere un vita diversa, essere in un altro modo.
Una scelta socialmente accettabile, in accordo con i desideri dei suoi
famigliari e forse pure con i suoi, ma comunque una scelta; una forzatura della
sua natura. “Si, sempre si torna a Nietzsche e a quell’ode di Pindaro”.
Paracha, più maturo di molti, certo di me, ha semplicemente accettato d’essere,
fin da giovane, non quel che pensava o voleva essere, ma quello che era. Quello
che è. Si è riconosciuto presto, mentre molti non arrivano a farlo in tutta una
vita. Ha, in altre parole, scoperto, accettato e seguito la propria vocazione. E
quanti di noi lo hanno fatto? Io credo pochissimi. Ci siamo quasi tutti avviati
per strade che non erano le nostre. Incamminati per realizzare aspettative d’altri;
magari fatte nostre, scambiate per nostre, ma nate da un altro immaginario. Il
sogno della giacca e cravatta e del macchinone; del lavoro pulito. Miti da
dopo-guerra. Davvero ci interessavano i soldi? Siamo stati talmente fessi da
non seguire gli esempi migliori delle generazioni precedenti; di quelle che è
stata protagonista delle ricostruzione. Magari qualcuno sentiva d’essere un
sarto, e si è rotto la testa per stappare un diploma o una laurea in campi per
cui era a malapena portato. Adesso tira madonne tutti i lunedì, mentre si avvia
verso l’ufficio. Avrebbe semplicemente potuto fare come Giorgio, un ragazzino
che aveva talento con le forbici, ha imparato il mestiere che sentiva suo, ed è
diventato Armani. Per male che gli fosse andata, sarebbe stato felice del
proprio lavoro. Vocazioni negate e sogni presi in prestito che
irrimediabilmente si frantumano. Anche questo c’è dietro il nostro fallimento. Sogni
individuali, beninteso; di affermazione personale. I grandi ideali, professati
a parole, solo scuse per accaparrarsi un cadreghino. No, non parlo della
politica; mi riferisco ai nostri presunti intellettuali. Tali solo se la
termine si dà il più ristretto dei
significati, se lo si usa per indicare chi vive, in un modo o nell’altro, dei
frutti del proprio intelletto. In questo caso, abbiamo tanti scrittori, artisti
e professori universitari d’ogni genere quanti ne ha qualunque altro paese. Se
per intellettuale intendiamo però chi cerca di comprendere meglio la realtà,
guardandola attraverso gli strumenti della cultura, chi ha una visione
complessiva della società e del suo evolversi, potendola osservare da una posizione
più elevata, e comunica queste sue osservazioni, queste sue scoperte, con tutta
la chiarezza ed energia necessarie, allora di intellettuali ne abbiamo
pochissimi. Quasi nessuno. Se poi mettiamo nel conto la popolarità, la risonanza
di quel che dicono, il loro numero si riduce ad un paio, Umberto Eco ed Erri De
Luca. Con loro, forse, anche se probabilmente sorriderebbe a sentirsi chiamare
intellettuale, Camilleri . Toni Negri?
Lo leggono e ascoltano in tre cani e due gatti. Perlomeno in Italia. Dice, ma
non influisce. Giorgio Agamben? Se fai il suo nome, devi avere una laurea
in filosofia. Stesso discorso: i suoi libri possono essere fondamentali,
per capire dove porti la direzione lungo cui ci stiamo muovendo, ma non li
legge praticamente nessuno. Saviano. Sì, Roberto Saviano, quello di Gomorra. Non ti piace come scrive?
Spesso non piace neppure a me. Certi suoi articoli sembrano buttati giù in
tutta fretta, senza la minima cura. “Almeno spero, se no la sua maestra delle
elementari dovrebbe vergognarsi”. Ma è davvero importante? Ad un intellettuale,
chiediamo di mettere tutte le virgole al posto giusto? Saviano ha, in buona
misura, almeno uno degli attributi di Pasolini: le palle. Certo, quelle che
servono per mettere sotto accusa la camorra. Soprattutto, però, quelle che servono per dire
quel che si sa dispiacerà a molti; per scrivere quel che si immagina possa
scontentare anche tanti dei propri lettori abituali. Cosa? A te Saviano sta
proprio sulle scatole? Non sopporti certi suoi atteggiamenti? Non sopporti
certe sue …come le chiami? Generalizzazioni? Allora, forse, ci ho azzeccato,
non credi? Un intellettuale chiama in causa un’intera società o perlomeno delle
sue ampie parti; a mettere sotto accusa i singoli, dovrebbe bastare la
magistratura. Sempre che il singolo in questione non se la sia comperata. E quanto allo stare sulle scatole, erano in
moltissimi anche quelli che non sopportavano Pasolini.
Dalle
4:13 alle 12:40 del 19 dicembre 2014 Dove
era? A Sabaudia? Circola un filmato, con un intervista a Pasolini che
passeggia lungo una spiaggia. Una giornata d’inverno. Tira vento; lui indossa
un cappotto scuro. E’ una vecchia
ripresa in bianco e nero. Lui dice le sue cose. Lo ascolti adesso, e pensi che
riuscisse a vedere nel futuro. La distruzione della vecchia Italia contadina,
bigotta e violenta, ma anche vera; capace, come diceva lui, di una sua grazia. La scomparsa di una
cultura povera ma vera, non priva di una sua nobiltà, e la sua sostituzione con
quello che allora si cominciava a chiamare
consumismo; con questo nulla che lui intuiva già, anche se non mi pare usi la
parola globalizzato, si sarebbe esteso a tutto il pianeta. Dice malissimo della
società in cui vive, insomma, ma non è lì da solo a urlare contro le onde: con
lui ci sono perlomeno una telecamera e il suo operatore. No, non soffro di
megalomania; non in questo caso, almeno. Non faccio paragoni tra lui e me. Semplicemente
mi chiedo perché oggi non ci sia qualcuno davvero come lui. Perché non esistano degli uomini di cultura capaci
di esprimere verità tanto scomode, e tanto profonde, eppure impossibili da ignorare
perché troppo … conosciuti. Stavo per dire popolari, ma non era la parola
giusta. Non era popolare, lui. Dava
troppo fastidio a troppi per esserlo. Molti ascoltavano le sue opinioni solo
per il piacere di indignarsene; di scandalizzarsene. Ma le ascoltavano. E la
televisione mandava una troupe a riprenderlo, mentre le proclamava al Libeccio.
A voce troppo alta, visto la fine che ha fatto? Anche a me piacerebbe sapere,
una volta per tutte, chi c’è dietro la sua morte. “Massacrato a quel modo da un
ragazzino? Non ci crede nessuno. Anzi, nessuno ci può avere mai creduto A cominciare dalle preposte autorità”. Oggi però la sua apparizione
sulla scena pubblica sembra incomprensibile quanto la sua scomparsa.
Altrettanto incredibile. Spiegabile solo con il relativo successo dei suoi
film. Relativo, perché non erano certo girati pensando al botteghino, ma
sufficiente a far parlare di lui anche chi di Paolini scrittore non avrebbe mai
letto una sola riga. Successo a sua volta comprensibile solo ricordando che gli
italiani di allora, se leggevano ancora meno del pochissimo che leggono quelli di oggi, perlomeno affollavano
i cinema. Senza magari neppure rendersene conto, trovavano dei soldi da
spendere per la cultura, o perlomeno per una delle sue forme. Erano in tanti a farlo, permettendo di sopravvivere
anche a chi incontrava i gusti solo di una minoranza tra loro. E quei soli
erano loro, personali, non elargiti in base a chissà quali criteri da un ente
pubblico o da un ministero. Un regista o
uno sceneggiatore, oggi, possono rassegnarsi a realizzare dei cine
panettoni, mendicare una protezione politica o di qualche altro tipo o rinunciare
a fare del cinema. E lo stesso vale per le altre arti. Anche per la musica.
Anche per le canzonette, in attesa che si trovi un modo per far pagare quelle
che si scaricano dalla rete. Si realizzano opere, ma sarebbe meglio chiamale
prodotti, cercando di conquistare la più ampia fetta possibile di mercato, magari
non di livello infimo, ma certo che non siano problematiche per i gusti del
grande pubblico. Se non questo, si lega la propria carriera, il proprio lavoro, a un gruppo politico o
comunque di potere e si fa quel che questo concede o vuole si faccia. Altrimenti,
si tace. E gli spettatori di Pasolini? Quelli che andavano a vedere i suoi film?
Scomparsi anche loro? In buona sostanza, sì. Quelli che non se ne sono andati
al cimitero, perché i decenni passano, hanno smesso di andare al cinema, come
tutti. A malapena andavano a votare, per usare una metafora, e ora sono
diventati degli astenuti della cultura. Si lamentano, tuttalpiù. Uniscono le
loro al coro di lagne che siamo diventati. Il
Manifesto. Per un certo periodo, almeno se mi trovavo in Italia, l’ho anche
comperato. “Beh, solo il giovedì, quando c’era La talpa”. Cosa c’entra? Sta per chiudere. A me, dispiace. E tanto. Dolore lancinante invece, a giudicare
dagli strilli, per decine di migliaia di miei connazionali. Grida altissime,
per quel che si può giudicare dalla Rete. Appelli e contro appelli. Pollici che
si alzano su Facebook; tweet e re-tweet. Quante copie vende, dopo questa
mobilitazione? Al massimo quindicimila, secondo i dati ufficiali, ma probabilmente
non più di diecimila. E tutti quelli che si strappano le vesti per la sua
chiusura? Disposti a tutto, pur di salvarlo. Quasi alla rivoluzione, a giudicare
da un paio di post fuoco e fiamme che mi è capitato di leggere. A tutto, ma non
ad alzare il culo da davanti il computer per andare fino all'edicola. E fare un
abbonamento? Dai, non scherziamo. Va bene la solidarietà con i compagni giornalisti,
unanimemente espressa dalla nostra più o meno intellighenzia all’incirca di
sinistra, ma che la si dimostri con i soldi di qualcun altro.
Dalle
11:46 alle 14:01 del 20 dicembre 2014 Parlo di
intellettuali e finisco per dire di un giornale. Quasi che informazione e cultura
fossero la stessa cosa. Non lo sono, ma confinano ed è difficile stabilire dove
finisca una e cominci l’altra. “I loro domini si intersecano, direbbe un
matematico”. Noi le trattiamo, comunque,
allo stesso identico modo. Date alle dichiarazioni di principio il valore che
meritano, pochissimo, ce ne strafreghiamo. Noi, noi personalmente, uno per uno.
Non siamo disposti a sacrificare per loro che degli spiccioli, e spesso neppure
quelli. Risultato, abbiamo i giornalisti e gli intellettuali che abbiamo: perennemente
collusi con il potere, qualche che sia il potere, chiunque sia al potere “dai
tempi del fascio ad ora, difficile vedere progressi”, quasi sempre banali,
capaci solo di suonare le stesse musichette, e, forse anche per questo, specie
i secondi, del tutto irrilevanti. E il paese, noi tutti, va come va. A fondo.
Il vento sta davvero girando; arriva da Est, adesso. Mi sa che arriva il bello. Sta a vedere che, una volta
tanto, MeteoGalicia ci ha azzeccato.
Capire che tempo farà domani. Questo dovrebbe essere il compito dei politici:
sentire da che parte tira il vento e intuire se e come cambierà di direzione. I
mezzi di informazione? Sono quelli che dovrebbero fornire le carte nautiche;
anzi, il portolano completo di tutte le loro annotazioni. Dire com’è fatta la
linea di costa che ci si trova di fronte; dire delle sue secche e dei suoi
possibili approdi. Gli intellettuali, dovrebbero piuttosto fornire gli
strumenti di navigazione. Essere le bussole. Ricordare a tutti, specie nella
tempesta, quando il mare è grosso da fare paura, dove sta il Nord. Senza di
loro, o se loro non fanno il proprio mestiere, una società naviga a vista, come
una barchetta di gitanti domenicali. Le sue istituzioni, non importa quanto
abile, quanto provvidenziale, il singolo o gruppo che ne regga il timone, sono destinate a sfasciarsi. “Una
politica agile”. Quante volte ho sentito auspicare o promettere qualcosa del
genere. E’ la ricetta per il disastro. Per quanto possano sembrare caotici i
tempi, infatti, un paese, un grande paese, non può pensare di sfrecciare tra le
onde della Storia come un motoscafo. E’ un grande nave, invece; somiglia ad una
super-petroliera. Vira con grande lentezza e se la si vuole fermare, è
impossibile farlo prima che abbia percorso ancora molte miglia, tanto la
trascina l’abbrivio. “Est, anzi Est-Sud
Est”. Il vento, dico. Adesso lo sento benissimo. Come faccio? Come mi ha
insegnato Nuni. “Minchia, ma davvero non sai dire da dove arriva il vento?”. Me
lo vedo davanti, Padron Nuni, come certe volte lo chiamavo e non solo per
prenderlo un po’ in giro. Mi sorride, come se fossi una specie di bambinone, e
mi fa cenno di avvicinarmi: “Vini ca che ti spieco. E’ fàcili”. Obbedisco e lo
raggiungo alla ruota del timone. Pare una scena dei Malavoglia? No, non siamo sulla Provvidenza
con un carico di lupini. “Ma sarò l’unico a non averne mai mangiato? I lupini.
Non so neppure troppo bene cosa siano”. E’ la metà degli anni ’80 e questo è un
bellissimo ketch di 18 metri. Per me non è la prima volta su una barca, ma
quasi. Nuni, invece, è un gran marinaio. Un avvocato sessantenne che dopo aver passato
tutte le sue estati navigando per ogni angolo del Mediterraneo, sì è da poco
deciso a lasciare la toga per la vela. E’ distintissimo. Sempre elegante.
Sempre un gran signore. Anche in barca. Se deve ordinarmi qualcosa, premette
sempre un “gentilmente”. Una sua frase, potrebbe essere questa: “Gentilmente,
Daniel, abbisceresti quella cima”. Ci tiene, prima di entrare in porto, ad
avere tutte le cime ben abbisciate; disposte a spirale, insomma. In
navigazione, però, dirà qualcuno, non
sempre c’è tempo per questo tipo di convenevoli. Lo dirà qualcuno, appunto, non Nuni. Se voleva che facessi
qualcosa in fretta, aggiungeva al primo avverbio un “velocemente”. Capacissimo
di ordinare: “Daniel, gentilmente ma velocemente, allasca chilla minchia di
scotta!”. Quella sera, perché non ricordo dove fossimo “forse al largo di
Favignana”, ma sono sicuro che fosse di sera, dapprima mi disse di mettermi con
le spalle contro il vento: “Ecchemmichia, pillomeno che t’arriva più o meno da
dietro, lo vorrai sentire. No?”. E io, più o meno, gli obbedii anche in questo.
“Bene”, continuò, “messo come sei messo, il vento ti dovrebbe arrivare tutto su
un orecchio. Adesso giri la testa piano piano e ti fermi quando lo senti che ti
passa allo stesso modo su tutte e due le orecchie. Ecco … così. Oh, adesso sai
che in vento arriva dritto da dietro la tua nuca. Hai visto? Te lo dicevo che
era fàcili”.
Dalle
8:01 alle 11: 12 del 17 gennaio 2015. Facile
sì capire dove soffia il vento che fischia nelle orecchie. Adesso, sta girando
a levante. Mi sa proprio che arriva il bello. Sta a vedere che una volta tanto
Meteo Galicia ci azzecca. E quell’altro vento? Quello della Storia, che quando
tira freddo ci gela l’anima? Ne sentiamo i mille refoli, ma che non intuiamo in
che direzione generale ci stia portando. Dovrebbe anche questo, capire il senso
delle trasformazioni prima che si completino, un compito degli intellettuali?
Certo. E una società i cui intellettuali hanno abdicato alla propria funzione,
non ha la minima possibilità di governare i cambiamenti; può solo subirli.
Neppure alle menti più acute, però, è sempre dato prevedere il futuro. Ortega y
Gassett. Mi viene sempre in mente lui. Mi viene sempre in mente il suo La rebelión de las masas. No ho già
parlato? Non ricordo; sto andando davvero a ruota libera. Beh, tra i pochi
libri davvero necessari per cercare di
dare un senso alla nostra epoca, credo ci sia proprio questo. Lo scrisse nel
’30. Nel 1930, voglio dire. Meglio specificare; in fondo si parla di un secolo
che non è più il nostro. La società che vi descrive, però, è già la nostra. La
sua diretta progenitrice, se non altro; quella da cui la nostra è emersa con
una quasi lineare prosecuzione lungo le direttrici che lui aveva già
individuato. Un genio, insomma, dalle immense cultura e capacità di analisi:
capace di vedere decenni innanzi a se; di abbracciare con lo sguardo l’intero
Occidente pur scrutandolo da una Spagna che ne era, ormai, solo una periferia.
Un genio che, però, pensavo pure che ormai si fosse toccato il fondo. Che,
proprio guardando al fascismo italiano e ai suoi aspetti più ridicoli, si era
convinto che poco mancasse ad un ritorno, per quanto parziale, della
ragionevolezza. “Ci stimava. Noi italiani, dico. Pensava che ormai ci fossimo
resi conto di che feroce buffonata fosse il regime e che avremmo presto trovato
il modo di sbarazzarcene. Ovvio che ritenesse impossibile una diffusione del
fascismo nel resto d’Europa. Visto quanta poca cosa si stava rivelando da noi,
ragionava, chi mai avrebbe voluto seguire il nostro esempio e rinunciare alla
libertà per una prosperità fatta solo di propaganda?”. Ragionava, appunto. E a
rigor di logica la sua analisi, anche letta oggi, non fa una piega. Avrebbe
anche resistito alla prova dei fatti, probabilmente, se solo i popoli, anzi gli
individui che li compongono, si muovessero solo sotto la spinta della ragione.
Ma così non era, e non è. Tanti, troppi, preferiscono farsi guidare da altro
che dal proprio cervello. E in Germania arrivò il nazismo. Non solo. Regimi
autoritari fiorirono ovunque; prima
ancora dell’invasione tedesca della Polonia, mezza Europa era già, di fatto,
diventata fascista. E nella Spagna di Ortega? Arrivano Franco, il franchismo e
una guerra civile. Solo un terribile prologo. Poi toccò al resto del continente.
E vi fu l’orrore dei campi di stermino. E milioni arsero nel rogo della Seconda
Guerra Mondiale. Insomma, nonostante la sua smisurata intelligenza, anche
Ortega Y Gassett si fece cogliere alla sprovvista dal sopraggiungere della
tempesta. Di che essere pessimisti? No, di che mantenerci in equilibri tra un
ottimismo insensato e una disperazione che, al di là delle nostre vicende
personali, ancora non ha ragione d’essere. Non sappiamo che rotta tracciare?
Non abbiamo più bussole e le carte nautiche che ci fornisce la nostra
frammentaria cultura sono completamente inadeguate? Verissimo, ma proprio per
questo non dobbiamo dare per certo che tutto continuerà ad andare come oggi ci
sembra: a rotoli. E davvero scontata l'omologazione planetaria? Sono tali e
tanto importanti gli interessi economici da rendere ineluttabile il trionfo
totale della globalizzazione? Non lo possiamo sapere, come non possiamo neppure
essere certi che questa, alla lunga, sia un male. Non sappiamo se porterà
davvero ad una concentrazione del potere nelle mani di pochi oligarchi
planetari, o, piuttosto, se il suo effetto più duraturo non sarà una più equa
redistribuzione delle risorse tra i paesi ancora oggi ricchi e quelli fino ad
ieri poverissimi. “Facile dire peste e corna della globalizzazione, guardando
solo a noi . Poi uno si ricorda che nella Cina della rivoluzione culturale sono
morti di fame a milioni, che ancora morivano di fame in India solo una trentina
di anni fa, e ci ripensa. Adesso, di
fame, non muore nessuno ne da noi, né in quei paesi. Resta l’Africa. Ma la
globalizzazione, appunto, là non è mai arrivata”. E poi, fosse davvero così
assolto il potere delle multinazionali, temessimo davvero vederci governati da
potentati economici al di fuori da ogni nostro controllo, siamo sicuri che
l’unico modo per opporvisi sia un ritorno al Medioevo? L’innalzare barricate;
il rinchiuderci? Il recupero, nella migliore delle ipotesi, del nazionalismo
romantico? No, non lo siamo. Sono rimedi, anzi, che potrebbero rivelarsi peggio
del male. Una strada, pure che questa, che però non è affatto detto che
dobbiamo finire per prendere. Nulla è già scritto; di nulla possiamo essere
certi. Proprio per questo dovremmo smetterla con questa maledetta
rassegnazione. Peggio, con questa frustrazione che non si traduce in azione, ma
solo in rabbia; in livore. Rabbia di sconfitti che non hanno mai neppure
iniziato a giocare la partita della vita; livore di chi si sente impotente ma
trova pure, in questa impotenza, la scusa per non muovere un dito. Per non
prendere il minimo rischio. Non è retorica: tanto o poco che sia, il futuro che
ci resta ci appartiene. E’ nostro; sta a noi scegliere se usarlo o lasciarcelo scappare dalle dita come una manciata della
sabbia di questa spiaggia. Nessuna forza è tanto grande da imporci i nostri
comportamenti privati; da condizionare i nostri pensieri se davvero decidiamo
di metterci a pensare. Restiamo liberi, se vogliamo coscientemente esserlo. E
quello che sarà della nostra società, è deciso prima di tutto dalle nostre
scelte individuali. Ne sarà, semplicemente, la somma. Scelte che dobbiamo
deciderci a compiere. Per noi stessi e ancora di più per le future generazioni.
Per non dare loro un esempio per molti versi ancora peggiore di quelli che avevamo
dinnanzi quando ad essere giovani eravamo noi. Per non contagiarle con il morbo
della nostra inerzia; della nostra rinuncia.
Dalle
8:28 del 19 alle 5:16 del 21 gennaio 2015
Scolpisco. Ho avuto, anzi, più successo come scultore che come pittore. Nel senso
che le mie statue si vendono poco e i miei quadri per niente. O quasi. A me,
però, non importa. Certo vorrei avere un conto corrente che, una volta tanto,
non fosse più rosso di una guardia di Mao, ma è un altro discorso. Poco importa
anche quale lavorio intellettuale “parole grosse; si vede che mi prendo proprio
sul serio” mi abbia portato a realizzare le opere di questi ultimi anni, così
diverse da quelle della mia rabbiosa gioventù. “Ma quelle mezze schifezze le
compravano eccome. Valla a capire, la gente”. Tutto quello che ho da dire,
riguardo le mie sculture, è li da vedere. Inutile prendere in mano scalpelli e
mazzuolo, se poi bisogna aggiungere delle parole. Sentire il bisogno di spiegare quel che si è fatto, anzi, per un artista figurativo è un’ammissione di fallimento. E io non
penso affatto di essere un artista fallito. Col cavolo. Sono convintissimo di
aver scolpito alcuni capolavori. Capolavori per me: capi, punti di arrivo, del
mio lavoro. Uno è L’angelo. La sua
storia comincia con un’altra scultura. Quale? Proprio non me lo ricordo; una
delle tante che realizzavo quasi in serie e ora ho smesso di fare. Profonda
crisi personale ed artistica? Ma no, proprio crisi economica. Fino a che è
durato il boom immobiliare, vendevo bene. Non facevo in tempo a soddisfare le
richieste. Adesso … lasciamo perdere. Ad ogni modo, là in fondo, proprio
davanti a me, si vedono due gru: una bianca, più tozza, e una alta alta e
gialla. Sono quelle di un cantiere navale. Ci costruivano più che altro
pescherecci, ma anche dornas, le
barche a vela tipiche di qui, e piccole navi di ogni tipo. Costruivano, perché usavano
il legno e oggi gli scafi dei pescherecci sono tutti di acciaio, mentre per le
barche da lavoro, che dovevano essere il loro pane quotidiano, ormai si usano
solo la plastica e la vetroresina. “Però, se si rimettessero a costruire dornas, ne venderebbero. Almeno, io una
la comprerei. Ad averci i soldi”. Continuano a lavorare, comunque. Riparano pescherecci
e barche che, magari, hanno costruito loro, cinquanta e passa anni fa. Cinquant’anni
almeno, hanno anche le travi di cui hanno pieno un magazzino. “Ma dicono che
certe sono lì da prima del ‘900”. Qualcuna è di rovere locale, ma sono davvero
poche e intoccabili; riservate ai veri e propri lavori di restauro. Le altre
sono di legni esotici; tek, soprattutto, ma anche altee essenze che prima non
avevo mai sentito nominare: jatoba, cumarù … . Tutti legni durissimi. “Il
marmo, in confronto, è burro”. Il più duro di tutti “ci ho fatto una statua, ma
… mai più”, è il leggendario legno ferro del Brasile, tanto pesante da andare a
fondo, se messo in acqua. La maggior parte di queste travi, destinata ad essere
trasformata in costole o ad essere affettata per coprire i ponti, non ha
dimensioni molto maggiori quelle normalmente usate in edilizia. Quelle che
sarebbero dovute diventare parti di chiglie, però, sono enormi; pesano senz’altro
dei quintali, forse arrivano a sfiorare la tonnellata. La prima volta che me le
sono trovate davanti, mi è venuto quasi di inginocchiarmi. In adorazione. E
ancor più giganteschi devono essere stati gli alberi da cui sono state
ricavate: dei veri, torreggianti, signori delle foreste tropicali. “Certo che
mi commuovo. Beh, certe cose non hanno prezzo”. Quel che c’è in quel magazzino,
se messo in vendita potrebbe valere un patrimonio: sono legni perfettamente
stagionati, di essenze ormai introvabili. “Sul mercato c’è del tek? Sì, ma di
piantagione. Di alberelli. Roba sudamericana buona per farci parquet. Di quello
delle foreste asiatiche, sono decenni che è proibita l’esportazione”. Un tesoro
che, però, el señor Miranda non ha
nessuna intenzione di vendere. Deve avere ormai superato i settanta, è il
nipote o il pronipote del fondatore del cantiere e, seppure con l’aiuto di solo
tre operai, continua a tenerlo aperto. E quel legno serve a lui, dice a chi
glie ne chiede, e proprio non gli importa se, con il suo attuale ritmo di
lavoro, per consumarlo tutto gli ci vorrebbero dei secoli. A me ha accettato di
vendere il pochissimo che uso, senza nessun entusiasmo e solo perché mi aveva
accompagnato da lui el señor Costiñà, mago dei motori navali e suo grande amico o forse
addirittura parente. “Qui sono tutti cugini, come da noi in montagna”. Una diffidenza,
quella del señor Miranda nei miei
confronti, che è durata fina a quando, incuriosito per il mio lavoro o forse
preoccupato per la sorte del suo legno, una domenica pomeriggio è venuto a
trovarmi. Beh, le mie statue gli sono piaciute. Tanto. Al punto che, seppure
qualche mese dopo, me ne ha comperata una. Soprattutto, vedendo quel che faccio
e come lo faccio, si è reso conto che amo il legno almeno quanto lui e che lo
so lavorare come si deve. Da allora, in cantiere sono sempre benvenuto. Quando arrivo, Tele, il più
giovane degli operai “oddio, giovane; avrà quasi quarant’anni”, molla appena
può quel che sta facendo e viene a darmi una mano a passare in rassegna le
travi fino a che trovo quella che mi serve. “E me la taglia a misura. E me la
carica in macchina. Cavolo, prima dovevo fare tutto da solo”. El señor Miranda, che prima non aveva
mai tempo neppure di farmi un saluto, immancabilmente mi invita poi a fare
quattro chiacchiere nel suo ufficio. Un posto fantastico, con le pareti
ricoperte dai modelli in legno degli scafi più belli costruiti dal cantiere. Di
cosa parliamo? Di barche, di legno e di barche in legno, ovviamente. Solo dopo,
mi dice quanto gli devo. Anche prima
della sua visita al mio laboratorio non pagavo molto, certo assai meno di
quanto avrebbe voluto per del legno di quella qualità, ammesso di trovarlo, un rivenditore
di città. Da allora, però, anche il conto si è fatto più leggero. “Ma forse è
solo una mia impressione”. Non solo. Se in giro per il cantiere scopro dei “ritagli”
di legno da cui penso di poter ricavare qualcosa, el señor Miranda me li regala Bene: L’angelo, è nato proprio da uno di questi scarti.
Dalle
3:10 alle 4: 34 del 23 gennaio 2015. Ogni volta mi faccio fregare allo stesso
modo. Vedo la spiaggia senza un’anima, tutto che è quieto, tutto che tace, e mi
avvio. Bellissimo passeggiare nel silenzio. Solo io e il mare. E la sabbia. Tre
chilometri e passa. “Neanche non lo sapessi”. Esce io sole, e magari mi viene
anche da sorridere. “Bravo fesso”. Nel giro di cinque minuti mi ritrovo come
adesso, a giocare al piccolo legionario. Sì, legionario della Legione Straniera.
Che si è perso nel deserto e sta per schiattare. Per fortuna manca poco. “Si fa
per dire”. Muoio di sete. Appena arrivo al molo, mi fiondo al bar. “Mi faccio
una lattina di Coca bella fresca. Zero, eh. Non per la linea; per le ginocchia.
Se metto su troppi chili …”. L’angelo.
Vero, dicevo di come ho trovato il suo legno. L’ho visto per terra, sul
piazzale, a ridosso del capannone, lì in cantiere. Doveva essere rimasto in
mezzo alla polvere per anni, tanto era sporco. Neanche si capiva di che legno
fosse. Era anche tutto sporco di catrame, tranne che in punta. Come se lo
avessero infilato sotto ad un barile o ad un serbatoio per tenerlo inclinato.
Mi ha incuriosito, ad ogni modo. Mi sono chinato e l’ho preso tra le mani.
Pesava. Doveva essere di un legno di quelli giusti. Allora … niente. Ho chiesto
a Tele se lo usavano ancora per qualcosa. Lui mi ha detto di no. Gli ho chiesto
se pensava che potessi portarmelo a casa. Lui mi ha dato una mano a caricarlo
in macchina assieme al pezzo che mi aveva aiutato a tagliare e che avevo già
pagato. Proprio una brava persona, Tele. Non arriva al metro e sessanta, ma è
fortissimo. Uno di quei colossi in miniatura che da queste parti incontri spesso.
Ed è timidissimo. La prima o seconda volta che mi sono trovato a spostare travi
con lui, quando gli ho chiesto per cosa stesse il suo nomignolo, è diventato
tutto rosso. Stavo per dire rosso come un peperone, poi mi sono trattenuto. Si
dovrebbe avviare una campagna contro i paragoni inutili. Bianco come la neve;
nero come il carbone. Non precisano proprio niente; sono parole sprecate. E le
parole andrebbero rispettate. Certo che non è semplice, dover raccontare che
nonno si chiamava Telesforo e papà ha voluto a tutti i costi chiamarti così.
Sono cose delicate, le malattie di famiglia. Quando sono tornato a casa, per
prima cosa ho preso la levigatrice a nastro e ho ripulito uno dei fianchi del
cuneo. Mamma che bello! Ma che bello! Un tek biondo come la pelle di una bionda
alla fine delle vacanze. No, eh? Vero, appena fatto una tirata contro i
paragoni. Ma questo, sì che precisa. Dice, non è inutile. “Credo”.
Meraviglioso, quel tek, comunque. Da favola. Cambogiano? Tailandese? Impossibile
dirlo, almeno per me. Potevo, però, farmi qualche idea in più su come fosse
fatto l’albero da cui era stato ricavato. Ho stretto il cuneo nella morsa del
bancone e ho cominciato a levigargli la testa. La sporcizia è venuta via
subito. Per spianare il taglio, per levare le tracce lasciate dalla sega a nastro,
mi ci sarà voluta almeno un’ora. Era duro quel legno. Durissimo. Ne è valsa la
pena, però. Alla fine dell’operazione ho potuto contare gli anelli di
accrescimento. Almeno una sessantina. E solo in quel pezzo; in quella che
doveva esser stata solo una ridotta porzione della sezione del tronco. Per
giovane che fosse, quell’albero doveva aver avuto almeno un centinaio d’anni
quando era stato tagliato. Forse anche il doppio. Quando accarezzi il legno, mi
hanno detto, vedendomi lavorare, è come se ci facessi l’amore. Sarà. Semplicemente uso i polpastrelli per
sentire se una curva fila come deve. Quando sto lucidando, e io lucido per
macerazione, sfregando il legno con dei trucioli dello stesso legno, come si è
sempre fatto, uso il palmo delle mani per sentire se la superficie è liscia al
punto giusto. Se la pelle della mia statua sembra … sembra pelle. Cerco di
capirlo, il legno. Questo sì. E lo rispetto sempre. Soprattutto legni come
quello di quel cuneo: capolavori che la natura ci ha messo secoli a realizzare.
Tutto vorrei tranne che usarli male; che sprecarli per qualcosa che non valga
almeno un poco del sacrificio che abbiamo imposto all’albero. E proprio per non
sprecare quel legno, quella sera non sono andato oltre. Prima di proseguire,
dovevo disegnare, anzi progettare con la massima cura, una figura che vi potesse
entrare. Meglio ancora; dovevo immaginare una statua il cui profilo fosse
racchiuso, con minimi scarti, dentro quel triangolo. Come? Se uno non comincia
subito a scolpire e poi si fa guidare, anzi ispirare, dal materiale? Sì, come no. Al cinema o in
televisione, quando vogliono dare un’idea romantica del lavoro dello scultore.
Si può procedere a quel modo solo quando si ha a che fare con un legno dolce.
Il cirmolo, per esempio. “Quanto mi manca un bel pezzo di cirmolo”. In quei
casi, procedo anch’io così. Inizio a scolpire, o forse sarebbe meglio dire ad
intagliare, con solo una vaga idea in testa e poi lascio che sia il legno, con
le sue venature, a dirmi come e cosa esattamente fare. Non con legni come quel tek, però. Sono
davvero più duri, o perlomeno più difficili da lavorare, del marmo. E vanno
affrontati con la stessa preparazione e la stessa cura con cui si attacca a
scolpire un pezzo di marmo. Sapendo già cosa si vuol fare. Avendolo, appunto,
già disegnato.
Dalle
4:35 del 23 alle 11:33 del 25 gennaio 2015.Avrei
dovuto fare altro quel giorno, avevo già perso fin troppo tempo, ma quel legno
mi piaceva troppo. E trovare un profilo di statua che fosse contenuto nella sua
forma, era una sfida che non potevo rimandare. Ho subito preso in mano la
matita. Presa e tenuta, in mano. Senza farci altro. Semplicemente non avevo
idee. Non che andassero bene per quel cuneo. Non che potessi sperare di far
stare là dentro. Idee che non mi sono venute neppure nei giorni e nei mesi
seguenti. Ho anche messo il cuneo sul mio banco “di servizio”, quello dove
tengo, disposti quasi in ordine, gli scalpelli, per averlo sempre sotto gli
occhi, mentre lavoravo. Speravo che pensando a lui estensivamente, per così
dire, l’idea giusta prima o poi mi sarebbe venuta. Si sarebbe formata da
qualche parte nelle profondità mia mente e, mentre magari ero intento a fare
tutt’altra cosa … plop, sarebbe
finalmente emersa alla superficie. Mi era già capitato altre volte. Non quella.
A volte mi sembrava quasi di esserci. Di aver avuto la giusta intuizione. Facevo
subito uno schizzo. Lo ingrandivo poi fino alle dimensioni che dovrebbe aver
avuto la statua e … scoprivo che non andava bene. Una curva proprio non poteva
starci; un’altra forse si, ma solo correggendola tanto da farla diventare quasi
piatta, da stravolgerla. Un giorno, appena finita una statua e prima di
avviarne un’altra, sono stato dall’alba al tramonto a levigare quel cuneo. L’ho
lucidato alla perfezione. Mi aspettavo di trovare una venatura particolare,
l’ombra di un nodo, qualcosa che mi ispirasse. Soprattutto volevo,
maneggiandolo così a lungo, imprimermi nella memoria le sue proporzioni e
dimensioni. Tutto inutile. Il legno aveva una grana assolutamente perfetta;
ricordarne con precisione la forma mi serviva solo a scartare subito le rare
idee che ancora mi venivano. E il cuneo, ormai tanto levigato da scintillare
sotto il neon, è rimasto sul mio banchetto fino a quando sono tornato per
qualche giorno in Italia. L’illuminazione l’ho avuta lì. Miracolo del Bel
Paese? Delle infinite emozioni estetiche che offre agli occhi capaci di
coglierle? Beh, più o meno. Di certo, non ho dovuto inventare nulla. Il profilo
dell’Angelo, l’ho trovato bello è
pronto. O quasi. Dove? In un museo? Negli affreschi di un palazzo? Sulla
facciata di una cattedrale? No, anche se si tratta di un archetipo; di una
figura che credo sia tanto antica quanto i primi disegni sulle pareti delle
caverne. L’ho scoperto dentro un’altra, assai più prosaica, istituzione. Mio fratello.
Voglio dire che ero con lui. Avevamo delle faccende da risolvere. Affari di
famiglia. Anzi, lo avevamo già fatto. Da Como, stavamo tornando Milano. Lui era
contento. Stava guidando un’Alfa. Non saprei dire che modello fosse. L’aveva
affittata. Era rossa, questo lo ricordo.
Rosso Ferrari, credo direbbe chiunque. Lui, no. Rosso Alfa Romeo, ha precisato.
E’ un alfista, appunto. Anche io ero contento. Per quanto posso esserlo, si
intende; sono nato malmostoso. Ero con lui, era una bella giornata di primavera
e ci eravamo appena levati dalle scatole i sopradetti affari familiari.
Insomma, tutto a meraviglia, fino a quando siamo entrati in autostrada. Il
cinese, anzi, mi ha colpito proprio al casello. No, non un sicario delle
triadi. La cena della sera prima. Eravamo andati alla Grande Muraglia o alla
Pagoda di Giada o vai a sapere come si chiamava quel ristorante. Uno di quei
posti dove friggono involtini primavera congelati, per capirci, e dove credo
che nessuno, nato a Pechino o Shangai entrerebbe mai. Perlomeno per mangiare. Non
che ne capisca molto di cucina, cinese, eh. “Però un cinese decente vicino a
casa ci vorrebbe sempre. E anche un indiano”. Comunque, ci siamo capiti :
dovevo andare in bagno. Per fortuna che a neanche tre minuti c’era l’Autogrill.
Credo si chiami Lario Ovest, ma non ne sono sicuro. Per noi, è solo
l’Autogrill. Noi che siamo cresciuti da quelle parti. Specie se fumavamo e
soffrivamo d’insonnia: prima che si diffondessero le macchinette che le
vendono, se dovevi comprarti le sigarette alle tre di notte, quello era l’unico
posto in cui andare. Non lascio a mio fratello neanche il tempo di
parcheggiare. Entro correndo per quel che posso nel locale, lo attraverso
tutto, maledicendo i sadici che hanno posto i bagni accanto all’uscita, e mi
precipito a fare quel che non potevo aspettare un solo secondo in più di fare.
Fatto il fatto, me ne sono rimasto seduto dove ci si siede per farlo, godendomi
la riacquistata leggerezza e riprendendo il fiato dopo lo sforzo compiuto. Solo
allora, tracciato con un pennarello sulla porta da una mano maleducata, ho
visto l’Angelo. Un disegno che avevo già incontrato, spesso proprio sulla porta
o sulle piastrelle di qualche altro bagno pubblico. Due che copulano “ma dire
pane al pane e scopare allo scopare proprio no?” visti da dietro. Lei una V,
con in centro quel che le signore hanno in mezzo alle gambe. Lui una V
rovesciata, dotata di una versione gigante di quel che degli uomini è la dote
per antonomasia. “E di peli sulle chiappe. Fatti con la punta del pennarello”. Disgustoso?
Beh di solito anche io faccio una smorfia, quando mi trovo davanti capolavori
di quel genere. “Al massimo mi lascio scappare un sorriso, di compatimento. Ci
sono quelli che sotto al disegno mettono anche un numero di telefono. Ma cosa
sperano? Nell’arrivo del pronto intervento neurodeliri?”. In quell’occasione,
invece, ho iniziato a fantasticare: a cercare d’immaginare come avrebbe potuto
essere una statua realizzata a partire da quel disegno. “Secondo me è stato il
maialino in agrodolce. Quando ti si pianta sullo stomaco, giuro che ha effetti
psichedelici. Roba da ampliargli la consapevolezza anche a Timothy Leary”.
Subito, ho pensato che, forse, ne poteva uscire qualcosa di buono. “Diciamo di
interessante”. Subito dopo, ripensandoci, mi sono detto che no; che non se ne
poteva ricavare nulla. Nulla che potesse davvero piacermi, che s’intonasse al
mio stato d’animo di quel periodo. Alla mia poetica. “Beh, ce l’hanno tutti, ne
avrò una anch’io. Dico, di poetica”. Stavo per alzarmi, quando ho considerato
un’altra possibilità. Certo che levando di mezzo lui, battacchio e culo peloso
compresi … . Era un inizio. Poi restava da decidere come fare le braccia e le
mani della donna. Ho messo al lavoro la mia fantasia. Sì, una statua di lei,
solo lei, la potevo fare. Anzi, sarebbe stata proprio bella. Le sue gambe
lunghe che si allargavano e innalzavano; le sue braccia che si allungavano per
portare le mani a toccare i piedi. Nella mia mente ho quindi ruotato la statua,
l’idea della statua, per valutarne i fianchi. E …e ho visto la luce. Ho visto,
anzi, il profilo della statua sovrapporsi al triangolo di quel cuneo. Perfettamente,
quasi al millimetro: la schiena appoggiata alla base; le gambe e le braccia che
salivano verso la punta descrivendo qualcosa di simile a due ali. A due ali che
si stavano dispiegando. Me ne sono rimasto lì un minuto buono, a bocca aperta,
ad ammirarla. Meravigliosa. Una farfalla. Ancora più eterea, più ultraterrena:
un Angelo.
Dalle
8:27 alle 9:32 del 26 gennaio 2015. Bella
storia. Ma perché me ne sono ricordato? Ah, sì, perché in fondo dice di come
vanno le cose nella vita. Insomma, è una parabola. La fortuna e le occasioni
propizie, ci sono, “e la sfiga, si sa, ci vede benissimo”, ma bisogna essere
preparati a riconoscerle. Le circostanze favorevoli, si possono presentare, ma
a nulla valgono se non si sa coglierle. Berkeley. Quello dell’università. Vai a
capire perché glie ne hanno dedicata una dalle parti di San Francisco.
Filosofava, comunque, agli inizi del Settecento. In Inghilterra, chiaro, perché
allora in California c’erano solo gli indiani e qualche spagnolo. Era un
immaterialista. Diceva che il reale non c’era, o, almeno, che non possiamo dire
se c’è davvero. Le cose, secondo lui, esistevano solo nel momento in cui
qualcuno, magari illudendosi a riguardo, ne costatava l’esistenza. Il faro là
in fondo? Per Berkeley c’è solo fino a quando c’è qualcuno che lo guarda. Poi,
chissà? Che continui a restarsene lì anche quando nessuno lo osserva, è
qualcosa che possiamo, tuttalpiù, solo presumere. La fortuna, l’occasione o la
possibilità, sono entità perfettamente berkeleiane: esistono solo se qualcuno
le riconosce. Se nessuno le intravede, non ci sono mai state. E se qualcuno se
ne accorge troppo tardi, esistono ormai solo nella sua memoria, trasformate in
rimpianti. Cosa c’entra tutto questo con L’Angelo?
Se non mi fossi ficcato in testa l’idea di fare una statua, se non avessi
cullato quel maledetto cuneo per mesi, al punto di vedermelo davanti prima di
addormentarmi, sarei potuto restare chiuso in quel cesso per un’ora senza
vedere in quel disegno sulla porta altro che uno scarabocchio. Croce. Sì,
Benedetto Croce. Devo proprio parlarne. “Sarà un momento filosofico. Ne ho, a
volte, ma per fortuna mi passano in fretta”. Nell’Estetica, ha avuto la
sfortuna di scrivere: “L’arte è intuizione”. Sfortuna, perché una frase così se
la ricordano tutti e tutti, di suo, ricordano orami solo quella. Cosa ne penso
io? Che tutto dipende da cosa si intende per intuizione. Se si crede che si
tratti di qualcosa di completamente diverso dai normali pensieri, di un’Idea
mandataci dalle Muse o dal Padreterno, io non ci sto. Di ispirazioni così, non
ne ho mai avuta una. Se per intuizione si intende il culmine di un lungo
lavorio mentale, il venire alla luce, certo a volte determinato dal caso e
dalle circostanze, di un pensiero sotterrane, estensivo, che ha sobbollito per
mesi o per anni nelle nostre menti, allora sono più che crociano. Penso che
intuizioni del genere, non solo sono alla radice di quanto di meglio riusciamo
a produrre in campo artistico, ma ci portino a compiere le migliori scelte
delle nostre vite. Ispirazioni che però
dobbiamo meritarci; che dobbiamo guadagnarci. Se restiamo ad aspettarle con la
mano al petto in posa romantica, “e dire che lavoravano come bestie, i
romantici, altro che storie. Pensa solo a Hugo”, e lo sguardo perso verso il
lontano orizzonte, non arrivano. Mai.
Dalle
8:13alle 9:21 del 28 gennaio 2015. Mi
accendo una sigaretta? Non dovrei. Ne ho appena fumata una e mi sarei promesso
che avrei cercato di ridurle. Certo che basta ascoltare con quanto convinzione
me lo sono detto, “mi sarei che avrei”, per capire che ho già l’accendino in
mano. No, evito. Fumare mentre si cammina, vuol dire proprio volersi fare del
male. Però starei anche pensando, circa. E come fa, uno, a pensare senza
fumare? Uno che fuma, chiaro. Quasi quasi accendo: pensare è più importante che
camminare. Poi, non è mica questa, quella che mi va venire un enfisema. Sono
tutte le altre. E allora tanto vale. L’uomo è un animale pensante. Dice così,
Aristotele. “Mi pare, almeno. Platone invece diceva che era un animale sociale,
mi pare ancora. Sull’animale, ad ogni modo, erano d’accordo”. Avesse detto che
era un animale marciante, avrebbe piuttosto dato la definizione di un cammello.
“O di un asino”. Beh, e con le passeggiate socratiche, come la metto? Quello, Socrate, pare filosofasse passeggiando
o passeggiasse filosofando. Irresolubili dilemmi della filosofia, appunto. E
nel dubbio, io accendo davvero. Oh, almeno un minino di decisione, quando
serve. “E poi, di fumare qualche sigaretta di meno, in fondo l’ho promesso solo
a me stesso”. Certo che ho detto una
bella fesseria. Se ci sono promesse che dobbiamo mantenere a tutti i costi,
sono quelle che facciamo a noi stessi. Con gli altri, si può anche barare.
Oddio, se Immanuel di Regiomontium mi sentisse, gli verrebbe uno stranguglione.
A proposito, lui era un altro che passeggiava tutti i giorni. Sta a vedere che
la marcia è una branca della filosofia. Resta che uno può sempre dire aver
fatto quello che ha promesso o nascondersi mentre fa quel che ha garantito di
non fare. Non lo sto giustificando, Immanuel può stare tranquillo, sto solo
dicendo che può sempre sperare di farla franca. Sempre, tranne quando ingannare
se stesso. Se lo fa, si troverà sempre a pagare un conto salato. A volte il più
salato. E se uno deve nascondersi da sé stesso, è pronto per l’ospedale
psichiatrico. “O almeno per il lettino del terapeuta”. Ma di cosa stavo
dicendo? Le intuizioni, vero. Da sole non arrivano; arrivano quando vogliono
loro, ma dobbiamo andarcele a cercare. Soprattutto, portate dalle Muse o frutto
del lavoro, vanno poi tradotte in azioni. L’Angelo
esiste perché, oltre ad avere avuto l’intuizione di farlo, poi l’ho anche
scolpito. Lo diceva anche Croce. Sì, sempre lui, Benedetto. “L’arte è
intuizione”, si dicono, e dato che qualche intuizione riescono suppergiù ad
averla, pensano di essere artisti. Quasi fossero riservate solo a loro le
ispirazioni “e perché non anche le idee? Sarebbero gli unici abilitati a pensare”;
ad un piccolo gruppo di eletti di cui loro, per via di una straordinaria
sensibilità, donata loro dalle Muse o dagli Dei, oh felice destino, fanno
ovviamente parte. “Sono nati poeti loro, loro. Fessi”. Mike. Immaginati uno che
uno fosse andato a dirli: “Maestro, è la sua sensibilità che fa di lei un
artista”. Beh, con tutta la sua sensibilità, Mike gli tirava il collo. Che poi
doveva essere sensibile davvero, ma aveva anche un caratteraccio. E due mani
forti come tenaglie, se si dà retta a Vasari.
Sì, parlo di Mike “The Angel”, Michelangelo: uno che era orgoglioso prima di
tutto del proprio mestiere e della fatica che ci metteva nel praticarlo. Allora
Croce non ha capito niente? E no. Lui diceva anche, ma quasi nessuno se lo
ricorda, che l’intuizione coincide con la propria espressione. Un’intuizione
non espressa, secondo lui, non è proprio un bel niente. E un’intuizione
espressa male, da qualcuno che non sa dipingere, scolpire, scrivere o quel che
sia, non si traduce in arte, ma semplicemente una porcheria.
Dalle
4:34 del 30 gennaio alle 3:17 del 2 febbraio 2015. Le intuizioni non basta averle, insomma, ma bisogna anche
tradurle in qualcosa di concreto. In
qualcosa che sia bello, che funzioni o che, perlomeno, abbia un senso. Bisogna
fare. Il verbo più maltrattato della nostra lingua, fare. Giornalisti e
scrittori possono arrivare a grattare il fondo del barile dei sinonimi pur di non
usarlo. Come se potesse esistere qualcosa di meglio. Fa, una sillaba sola per
dire realizza, produce, prepara, provoca, compie, commette, confeziona e chissà
che altro ancora. Soprattutto, facciamo di tutto per non usarlo in prima
persona, al presente indicativo. Al massimo lo adoperiamo al condizionale, farei, e già ci sembra di aver osato
troppo. Non abbiamo problemi, invece, a dire dovrebbero fare. “E quasi mai che si capisca chi sarebbero questi
che dovrebbero”. Va fortissimo, invece, si
dovrebbe fare. Di sti tempi, lo si sente in giro più di buongiorno e
buonasera. E in tivù, poi spopola. Specie nei dibattiti. Specie in bocca ai
politici. Io faccio, invece, non lo
si sente dire mai. Non lo diciamo mai. Ci sono capitati dei tempi difficili.
“Di merda, altro che”. E’ vero. Di occasioni, ce ne sono davvero poche.
Verissimo. Quelle poche, però, neppure le vediamo. Non sappiamo riconoscerle
perché non le stiamo cercando; perché ci siamo arresi. E se qualcuna,
nonostante tutto, la intuiamo, ce la lasciamo sfuggire. La ragione? Non
sapremmo che fare per approfittarne. Non sappiamo, anzi e semplicemente, fare.
Siamo stati, e forse siamo ancora, la generazione più che il nostro paese abbia
mai prodotto. “Il Gucio aveva ragione. Anche se proprio della nostra generazione
non è”. Certamente siamo molto più istruiti di chi è venuto prima di noi. Una
preparazione, però, del tutto teorica. Tutta potenziale. Un’istruzione che per
tanti, per quasi tutti, è terminata il giorno in cui si sono diplomati o
laureati. Un vero disastro, anche lasciando stare gli alati discorsi sulla
cultura come attrezzo per la comprensione del mondo e così via. “Pteroenta proseida. Dico, le parole
alate di Omero. E’ un periodo che mi vengono sempre in mente, ai capire perché.
Ad ogni modo, per lui le parole erano alate come frecce: andavano dritto al
bersaglio. Quasi il contrario di quel che intendiamo noi. Cosa c’entra? Niente.
Era tanto per dire. Anzi, per pensare”. Per tanti è stato come se quel che
avevano imparato a cura del ministero della Pubblica Istruzione fosse tutto
quel di cui avevano bisogno. Perché, finiti gli studi, hanno subito intrapreso
carriere appaganti? Ma quando mai. Qualcuno, forse. Pochissimi. E non esiste
carriera che meriti di essere chiamata così che possa essere percorsa senza un
continuo aggiornamento; senza che sia necessario acquisire costantemente nuove
conoscenze ed abilità. L’erudizione è per
gli sconfitti. Eco lo fa dire al protagonista del suo ultimo romanzo.
“Com’è? Mah … si lascia anche leggere. Certo che il Pendolo era un’altra cosa”. Una frase che però credo abbia messo lì
per fare dell’auto-ironia, ma che non è del tutto vera. Molti arrivano al successo in virtù della
propria ignoranza, ma proprio Eco è la dimostrazione vivente che l’erudizione
non è solo per perdenti. E poi, salvo i rari vincitori che se lo possono
permette, a non erudirsi, a smettere di imparare, sono i veri sconfitti. Quelli
che hanno smesso subito di giocare. Che si sono sempre e solo accontentati.
Concetti che si ripetono? Sì. Come è ovvio che sia, descrivendo una società in
loop. Tra loro, tra i rassegnati non ci sono eruditi: ci sono più che altro
frustrati e rancorosi teledipendenti. E qualche
erede di Boezio, no? Ma quella non è rassegnazione; anzi. Continuare nei propri
studi mentre si sopportano le avversità della vita, è una forma di resistenza. Non
un modo per illudersi di essere un altro, “non un impiegato al catasto, ma un
astronauta o Napoleone”, ma di essere anche altro. O prepararsi ad esserlo.
Guarda là. Si sta schiarendo anche al largo. Adesso la linea dell’orizzonte è
nitidissima. Pare tracciata con una riga. “Lo so che è impossibile, da questa
altezza, però a me sembra sempre che sia un po’ curvo. Proprio vero che si vede
quel che si pensa di dover vedere”.
Bello, ad ogni modo: proprio un taglio netto. Il blu del mare blu sotto;
l’azzurro del cielo azzurro sopra. Peccato per Capo Louro, però. Segui la linea dell’orizzonte
con lo sguardo e … bam: vai a schiantarti con gli occhi contro le sue rocce. “Beh,
un po’ come Leopardi con la sua siepe. Lui,
però, forse, lo diceva meglio”.
Dalle
3:47 del 2 alle 6;21 del 3 febbraio 2015.
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle … e questa siepe, che da tanta parte …
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. E fin qui ci siamo. Poi, come va
avanti? “Ma sedendo e mirando, interminati … spazi di là da quella, e sovrumani
… silenzi e profondissima quiete …”. Anzi, quiete con i puntini sulla i, se no il
verso resterebbe un decasillabo. “Quiiiete”. Così, con la i bella lunga, anche la parola
diventa, appunto, quiiieta. Se la so tutta? Virgola più virgola meno, sì. Ma
l’ho imparata solo pochi anni fa, da adulto. Se fosse per la scuola, ne
ricorderei il primo verso e basta. Come tutti. E di Leo? Che era di Recanati
e che era brutto come il peccato. “E che
suo papà si chiamava Monaldo. Un nome come quello, non se lo dimentica
nessuno”. Tanto basso, gobbo e storto che non poteva essere che pessimista. “Pessimismo
leopardiano”. Mi ricordo ancora di averlo scritto su un margine del libro di
testo. Bello grosso, passandoci sopra la biro più volte. “E poi ci ho messo
intorno una cornice, anche quella passata e ripassata. Alla fine, il tutto
sembrava un annuncio mortuario”. Erano importati, quelle due parole. Magiche.
Bastava ricordarle e ad un sei, più o meno, ci si arrivava. E Leo, per me e
qualche milione di studenti, è diventato l’estensore di una specie di versione
marchigiana della legge di Murphy. “Sempre così. Quando uno dà fastidio, gli si appiccica un’etichetta. A Leo, con
quella di pessimista, è anche andata bene; di solito, è quella del matto”. Nel suo caso si dovrebbe parlare, invece, di
realismo eroico. Titanico. E le origini del suo pensiero non andrebbero cercate
nelle sue sfighe personali, ma sugli scaffali della biblioteca di Monaldo. “Uno
che per comprare libri quasi riduce sul lastrico la famiglia. Mi sa che i miei
figli diranno che mi somigliava”. Nelle Grecia di 2500 anni fa, dove Leo doveva
sentirsi più a casa propria che nella Recanati papalina. “Beh, come tanti di
noi, che crescevamo sognando la California o il Village; di essere altrove”. E
dialogando con gli epicurei, e magari litigando con Eschilo e il suo razionalismo,
è arrivato a pensare che tutto sia nulla. Un nulla che possiamo sopportare solo
creandoci delle illusioni. O, se abbiamo l’animo forte, contemplando questo
abisso, consentendo con la sua immensità e trovando così la forza per cantarlo nulla al ver detraendo. “Che è anche
quasi tutto quel che so citare della Ginestra. Vai a capire perché mi infilo
per certe deviazioni …”. Beh, intanto prima ho tirato in ballo Nietzsche,
Heidegger, Unamuno e Sartre. “Neanche fossi un esistenzialista”. Tutta gente
che, magari senza averlo mai letto, conversa con lui; che segue il filo dei
suoi pensieri e cerca di rispondere alle stesse domande che lui si poneva. E
poi anche lui ci mette davanti ad una scelta. Quale? Dobbiamo decidere una
buona volta chi diavolo siamo. Capire quale sia, credo avrebbe detto lui, la
nostra natura. Siamo ometti da poco? Allora possiamo starcene lì a consolarci
con le nostre illusioni. Siamo altro? E allora lo sterile lamento non è un’opzione. Deve trasformarsi in canto, dare forma ad un’opera.
Per lui, poeta, innervare le sue poesie. E per i tanti tra noi che si sentono insoddisfatti,
che sono delusi, che sopravvivono una giornata dopo l’altra? Qualcuno sa già in
cosa consista il proprio canto, ma non ha mai trovato la forza o il coraggio
per intonarlo. “Anche solo canticchiarlo. A volte basterebbe”. E non li troverà
mai restandosene inerte, magari affettando una malessere esistenziale che somiglia,
piuttosto, ad un indigestione. “L’Ennui baudeleriano? Guarda un po’ tutto
quello che ha scritto, tutte le attività in cui è stato coinvolto e ricordati
che è campato 45 o 46 anni e fai i conti. Scopri che Baudelaire si ennuiava
massimo cinque minuti al giorno”. Altri, forse i più, devono scoprire quali potrebbero
essere le proprie opere. “E non lo scopriranno mai fino a che passeranno ogni
minuto del proprio tempo libero in poltrona, a guardarsi l’ombelico”.
Dalle
8:47 alle 15:42 del 14 febbraio 2015. Difficile,
darsi una mossa, dopo tanto tempo che si è fermi. Vero. Lo dobbiamo fare, però.
L’unica altra opzione è quella che abbiamo già implicitamente scelto: una resa
che equivale ad un tradimento. Non si può essere neutrali. Accettare,
sopportare, significa essere complici. Indigniamoci? Ma quello ci riesce già
benissimo. Basta dare un’occhiata alle rete: trabocca d’indignazione, spesso rivolta
contro le persone più sbagliate. Contro il povero Cristo nero mortaffogato in
mezzo al canale di Sicilia, magari. E quando si arriva a quel punto non ci si è
solo arresi; si sono date le dimissioni da essere umano. Ma anche indignarsi
nelle piazze, dietro il bandierone del colore giusto, quale che sia il colore
giusto, non serve a un bel niente. Quante manifestazioni abbiamo visto?
Infinte. Cosa hanno cambiato? Nulla. Valgono una messa. Un rituale collettivo,
che fa sentire meglio chi vi partecipa. Conseguenze pratiche, tangibili?
Nessuna. No, no. Anche l’indignazione fine a sé stessa, che non si traduce in
azioni concrete, misurabili e contabili, è una forma di resa. Resa senza rassegnazione,
che è anche peggio. Da dove nasce il qualunquismo di questi anni? Dalla frustrazione,
in fin dei conti. E da lì arriva la ferocia di certe frasi e di certi
atteggiamenti. Ma chi si è messo il cuore in pace, non è frustrato; se ne sta
nel suo angolino a godersi la conquistata pace dello spirito. E invece siamo
tutti incazzati. Una rabbia che potrebbe essere una risorsa, se solo
riuscissimo ad incanalarla; a trasformarla in energia. Olmo avrà avuto quattro
anni Sì, è mio figlio. Ho anche una figlia, Elisa, che allora doveva ancora
fare i primi passi. Vado per funghi. Sono montanaro dentro, non c’è niente da
fare. Già a fine primavera, appena posso sono nei boschi, assieme ai primi
cantarelli. E dire che proprio non mi piaceva, da ragazzino. Da bambino, non
ricordo, ma a dodici o tredici anni, c’erano poche cose che odiassi quanto
dovermi svegliare all’alba, di domenica, per andare a cercare porcini con mio
padre. Porcini che per solito neppure trovavamo. Qualche pinarello, al più. E
faceva già freddo, certe mattine d’ottobre, o almeno io adesso ricordo il
freddo e la nebbia. E il sonno. Morivo di sonno. Mai, mi dicevo, mai sarei
andato a cercare funghi per i fatti miei, quando sarei stato grande. E poi?
Boh, si vede che non solo sono cresciuto, ma mi sono anche rimminchionito. O
forse certe cose ti restano dentro e prima o poi riemergono. Ad ogni modo, sono
lì in quei boschi con Olmo, ancora tanto piccola da avermi detto “vengo anche
io Papà”, quando mi aveva visto uscire
di casa con il cesto in mano. Funghi non ricordo se ne avevamo trovati, il che
significa che tanti non dovevano essere. Certo che se adesso chiedessi ad Olmo
di venire per cantarelli con me neanche mi risponderebbe. Staccherebbe gli
occhi dal telefonino solo il tempo lanciarmi uno di quei suoi sguardi con scritto sopra “non
rompere Papà”. Quel mattino, invece,
stavamo per tornare a casa quando vedo, sul margine del sentiero, un ceppo che
uno smottamento del terreno aveva liberato quasi per intero. Vado, controllo:
era di un rovere. Sono con una jeep. Anzi, con una UAZ, made in CCCP. La
peggior automobile di tutti tempi, secondo Jeremy Clarckson. Sarà. Il miglior
fuori strada mai costruito, di sicuro. Andava dappertutto, sempre. Certe cose,
fidatevi, i compagni sovietici le sapevano fare. Indifferente. Vassily
Grossman, Vita e destino. Cosa c’entra? L’ho letto poco fa. Tanto per dire che i russi restano sempre
russi, tolstojani, anche se diventano sovietici. O anche se sono
anti-sovietici, se uno pensa a Solgenitsin. Indifferente anche questo. Nella
UAZ, un po’ perché fa fico e un po’ per casi come questo, ho piccone, vanga e scure. Li recupero e mi metto a lavorare. Una fatica
bestia. Specie per tagliare che le radici che erano ancora infilate nel
terreno. Alla fine, però, ce la faccio e libero il ceppo. Una bestia; un
quintale almeno di legno. Sono coperto di fango. Uno milanese in cerca di
funghi, tutto precisino e sfigato, proprio come me, o come ero io prima di
iniziare a scavare, passa per il sentiero. Avete presente i garimpeiros? No?
Beh, lui mi guarda come voi guardereste uno di sti disperati cercatori d’oro
amazzonici, se uscisse dal documentario di Discovery e vi si piazzasse in mezzo
al soggiorno. Che poi il garimpeiro penserebbe tra sé “povero, quelli lì è conciato
peggio di me”, però non ve lo dico: state già abbastanza male di vostro.
Indifferente. Unico modo di portare il ceppo fino alla UAZ è farlo rotolare.
Facile. A dirsi. A farsi, pure. Se si è dei lottatori di sumo. Io non lo sono.
Faccio una fatica porca, vacca e maiala, faccio. Però anche ce la faccio, con
Olmo che è lì a fare il tifo per me:
“Sei forte papà”, proprio come nella canzone. Chi la cantava? Gianni Morandi? Ce
la faccio a farlo rotolare fino alla UAZ, si intende. Una volta lì,
però, come lo carico?
Dalle
11:27 del 16 alle 14:26 del 21 febbraio 2015 Schiele.
Questo ramo, che spunta appena dalla sabbia. Dico, così, tutto arcuato, con
tutti sti nodi, pare preciso identico a un quadro di Schiele. Alberto d’autunno mosso dal vento.
Almeno, mi pare il titolo sia questo. Mi è sempre piaciuto. Sarebbe piaciuto
anche a Van Gogh, secondo me. Per quel … non so bene come dire … qualcosa di
giapponese. Uno dice Schiele e pensa a Klimt, però. L’allievo e il maestro.
Klimt resta uno dell’Ottocento: un secolo che è durato fino alla Grande Guerra.
Crede ancora nella forma; che si possa ricostruire un ordine. Un po’ come
Matisse. Come Mahler, soprattutto. Veni,
creator spiritus. La Sinfonia dei
Mille. Cos’è? L’Ottava? La
redenzione per via dell’amore; la potenza di quei cori che si alzano a chiedere
un nuovo inizio. Facile immaginare che Klimt, se si fosse occupato di musica,
sarebbe arrivato a comporre qualcosa del genere. Schiele no. Forse alla forma vorrebbe ancora
crederci, ma, malgrado l’esempio del suo adorato maestro, non ci riesce. Non
fino in fondo. Le sue linee si piegano, si torcono, per le tensioni che non
riescono a trattenere. Per tutto quel che la forma non riesce più a tenere a
bada. Linee sottili, prossime al proprio
carico di rottura, come quelle della musica di Webern. Chissà se parlavano di
queste cose, tra loro? Sì, perché per conoscersi, si conoscevano. Schiele,
oltre quello di Schoenberg che tutti
ricordano, si fa per dire, ha dipinto anche il ritratto del suo allievo
prediletto: Webern, appunto. Ad ogni modo, si conoscevano tutti, in quella Vienna E i giovani, gli Schiele, i Webern, i Berg,
erano già come noi. Anzi, erano già noi . Certo che poi è arrivata la guerra, a
ricordare loro che potevano esserci dolori peggiori dei malesseri esistenziali.
Quell’altro quadro di Schiele, l’Abbraccio, del ‘17 o del ’18. Beh, lì la forma
sta già tornando. E c’è l’amore. Non il
sesso, proprio l’amore. Due che si tengono abbracciati, per tenere lontano
tutto l’orrore del mondo. Lascia che uno
nell’altro si sprofondino, per resistersi. Chissà di quando è Die Liebenden di Rilke? Mi sa proprio di
quegli anni. Indifferente. Intanto ero lì con sto ceppo. In qualche modo ero
riuscito a metterlo in piedi, davanti al portellone aperto della UAZ, ma di
caricarcelo da solo non se ne parlava. Pesava troppo. Riuscivo a sollevarlo di
qualche centimetrò, ma niente di più. Olmo faceva un gran tifo, dai Papà, forza
papà, ma sentivo anche il ginocchio sinistro, quello che mi sono sgarrupato,
che faceva Giacomo Giacomo. Insomma, alla fine mi sono rialzato; aveva vinto
lui, il ceppo. Poi non so bene cosa sia successo. Stavo chiudendo il
portellone, convinto di andarmene,
quando qualcosa dentro mi si è mosso. Un po’ il faccino di Olmo, delusissimo
dal suo Papà che si era fatto battere da un pezzo di legno. Un po’ il senso di
ingiustizia davanti al sopruso che mi stava facendo la forza di gravità,
negandomi quel che ormai avrebbe dovuto esser mio per diritto. Forse non per le
leggi dello Stato, anzi credo che quello fosse tecnicamente un furto ai danni
del demanio, ma per tutta la fatica che avevo già fatto. Insomma, non mi sono
indignato. Mi sono proprio incazzato nero.
Ho lasciato il portellone aperto e sono tornato da quello stronzo di
ceppo. Ho piegato per bene le gambe, tenuto la schiena dritta e uno, due, tre,
mondo toro, con un urlo l’ho fatto volare. E se avesse pesato il doppio, sono
sicuro lo avrei sbattuto sul fuoristrada allo stesso modo. Poi ne ho ricavato
due statue, di quelle che faccio solo per me, senza avere la minima intenzione
di venderle.. Nessuno dirà mai che sono dei capolavori, ma c’è dentro quello
che sono, le mie radici; tutto quello che so veramente. Le darò ai miei figli, quando se ne andranno
per la loro strada. Prima o poi, se ho fatto il mio dovere, le capiranno.
Magari quando arrivati a metà cammino, prima di decidere in che direzione proseguire, si volteranno
per vedere da dove provengono.
Sono sempre stata una ribelle e proprio non sopporto l'uniformità del pensiero e, per questo, ho sempre amato le voci fuori dal coro. Il tuo urlo arriva forte e chiaro, Daniel.
RispondiEliminaNon so se alla fine si rivelerà un urlo. Sto scrivendo questa cosa su twitter, a cento e pochi caratteri per volta, senza avere la minima idea di cosa sarà o di cosa è. Ti ringrazio di essere tra i pochissimi che mi stanno seguendo in questa follia. Grazie, anzi, proprio di tutto.
RispondiEliminaNon sentirti solo
RispondiEliminaGrazie del'amicizia. E' una delle poche cose che restano, come dice l'Ecclesiaste, anche quando si è diventati compagnia del vento.Una delle poche cose che non mi faccia sentire del tutto irrilevante.
RispondiEliminaIo ammetto di non averlo letto attentamente, ma ho avuto la fortuna di conoscerlo, insieme alla sua seconda moglie, a Vietri sul mare.Abitavano sopra di noi e ho un caro ricordo di loro,anche se ero una bambina. Una grande umanità, un bellissimo sorriso. Erano diventati amici dei miei genitori. Di loro non posso dimenticare la gentilezza con cui ci trattava, nonostante fossimo scatenati, e la tombola natalizia con premi che,ogni anno, riservavano ai bambini del vicinato. O "Il Borghese" che puntualmente regalava ai miei e che confesso di aver sfogliato, non con l'attenzione che meritava, perdonami ma, ero proprio piccola.
RispondiEliminaVietri sul mare... deve trattarsi di Sciascia. Ti invidio molto l'averlo conosciuto. Dava un'impressione di grande mitezza, che me lo ha sempre reso umanamente simpatico.
RispondiEliminaQuesto scritto assumerà una forma monumentale ne sono certo: ad un certo punto spero lo trasformerai nel risultato di una distillazione schietta che porti alla luce il cuore.
RispondiEliminaMi piace molto leggerti...
E presto ci incontreremo e quel giorno dovrai mettere in moto il distillatore esagerando con la legna!
:-)
Ciao, Diaolin
No, Giuliano, questo scritto potrà diventare tutto ( e non so ancora bene cosa) ma non monumentale. Non più di un centinaio di pagine per raccontare della nostra generazione. Vorrei lo leggessero tra qualche anno i miei figli, per capire lungo che strade ci siamo mossi per arrivare ad essere quel che siamo. E ne prendano altre. Quali? Non lo so. Non ho la minima intenzione di giocare al profeta. Fermi i valori, ma non sono le pagine dei libri a trasmetterli, starà a loro scoprire le proprie vie.
RispondiEliminaC'è chi si piega, chi accetta compromessi, chi si vende, chi si fa resettare il cervello, chi si tura il naso, gli occhi e le orecchie; per fortuna ci sono ancora persone che rompono gli schemi, si fanno domande e non accettano risposte preparate, non si mettono in fila, escono fuori dal coro e urlano forte. Li chiamano ribelli o folli. Beh, proprio di queste persone vorrei fosse pieno il mondo!
RispondiEliminaDetto altrimenti, abbiamo sempre bisogno di resistenti. Anche qui, il 25 aprile, tra stupore dei miei compaesani, faccio l'alzabandiera. Cose da pazzi, appunto.
RispondiEliminaQuanto sono vere, purtroppo, le tue parole. Se penso poi a cosa sta accadendo in questi giorni ( Roma temo sia solo l'inizio), mi viene voglia di venire da Claudio, mangiare un panino con i calamari fritti bevendo, da bravo marinaio, tanta... tanta... Estrella Galicia!
RispondiEliminaPare un paradiso, qui, dalle mie descrizioni. Lo è davvero, quando non piove. D'estate. Vorrei tornare in Patria, ad ogni modo. Mi manca. Obiettivo ... là dove sventola il leone. ma mi serve tanta fortuna. Lavoro e spero. Spero e lavoro.
RispondiEliminaSe posso consigliare metti un po' di paragrafi altrimenti la lettura diventa un ossessione...
RispondiEliminaMi sa che hai ragione. Mi piaceva l'idea di limitarmi ad incollare i tweet uno dopo l'altro, ma ...deve anche essere leggibile.
RispondiEliminamolto interessante, io proseguo
RispondiEliminaCaro amico svedese, o che abiti in Svezia, mi piacerebbe sapere qualcosa di te. Capirai che non ho molti lettori che vivano dalle tue parti. Grazie per l'assiduità con cui mi segui.
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