Una piccola musica notturna.
Di Schüler, Bozzetto per Dubbi e paure, tecnica mista su carta di 30 x 50 cm. |
Non avevo in mente Cormac
McCarthy e la sua The Border Trilogy, quando ho scritto questo esercizio di stile,
credo ormai una ventina d’anni fa. Avevo appena letto Il partigiano Johnny piuttosto, e mi aveva
impressionato il fenogliese.
Per Bebbe Fenoglio, l’inglese era lingua di sogni
e libertà. Per me, a quel punto, era semplicemente uno strumento di lavoro. I
miei sogni, che spesso si mescolavano ai ricordi, erano invece nella lingua o
dialetto dei miei nonni e delle straordinarie estati che trascorrevo con loro
da ragazzino. Insomma, questo, con la sintassi hard-boiled che usavo in quel
periodo, è quel che ho scritto allora. L’ho ritrovato sul fondo di un vecchio
portatile, non mi è per nulla dispiaciuto e ve lo offro.
Pioggia irsuta e canina e un’ombra languida di
sentiero dirupato e spiovente,
dimenticato e sbiadito dalla dimenticanza.
Li sento, tonanti di scarponi che fratturano le ossa secche del bosco.
Gnomi grigi, aborti che la piana ha ributtato al monte.
Figli che madri non possono avere e cuore nemmeno, di padri o di fratelli.
Uno sparo errante, che precipita le mie gambe giù per la ripa, gravinosa di pietre che la montagna ha sputato nei millenni.
Pochi pazzi balzi e rovino tra le scaglie rude di sasso fresco come la lama di un barbiere.
M’improno e rotolo in succedersi confuso delle mie braccia e delle mie gambe.
E’ mio il sangue che sprizza vinoso dai tagli.
Mia la pelle che si arriccia alla roccia.
Non sento nulla, neppure il dolore.
Mi ferma un crappo di granito gentile, che mi prende per la bricolla, in fondo alla ganga.
Crepitano adesso i sassi che mi stanno ancora inseguendo.
Sono un’altra pioggia, assassina e traditora, che mi cava il cappello.
dimenticato e sbiadito dalla dimenticanza.
Li sento, tonanti di scarponi che fratturano le ossa secche del bosco.
Gnomi grigi, aborti che la piana ha ributtato al monte.
Figli che madri non possono avere e cuore nemmeno, di padri o di fratelli.
Uno sparo errante, che precipita le mie gambe giù per la ripa, gravinosa di pietre che la montagna ha sputato nei millenni.
Pochi pazzi balzi e rovino tra le scaglie rude di sasso fresco come la lama di un barbiere.
M’improno e rotolo in succedersi confuso delle mie braccia e delle mie gambe.
E’ mio il sangue che sprizza vinoso dai tagli.
Mia la pelle che si arriccia alla roccia.
Non sento nulla, neppure il dolore.
Mi ferma un crappo di granito gentile, che mi prende per la bricolla, in fondo alla ganga.
Crepitano adesso i sassi che mi stanno ancora inseguendo.
Sono un’altra pioggia, assassina e traditora, che mi cava il cappello.
Che mi stacca altra pelle.
Silenzio.
Solo le orecchie che fischiano.
I latrati pieni di vocali, come cantassero il Trovatore, degli gnomi lontani.
Spari nella borda bruinosa.
Disordinati rabbiosi impotenti e sciocchi.
Un urlo più forte.
La voce fangosa di mille sigarette che subito ha una faccia.
Gli occhi chiusi lo vedono benissimo.
Il baffo ferrigno e il naso a becco.
La pelle scura, saracena.
I catenacci cessano la loro musica stonata.
Resto come avrei voluto: solo con la montagna e la notte.
La spezia preziosa che mi paga la vita è intatta.
Un sacco buono, di quelli svizzeri, che non li taglia neanche l’acciaio di una britola o di un potaviti.
Camminare è facile.
Segui con un piede l’orma dell’altro e pensi solo a quello.
Il dolore è una musica che devi tenerti lontana, come un ballo proibito: un tango di strie e istrioni che ti guasta l’anima e te la perde.
Solo le orecchie che fischiano.
I latrati pieni di vocali, come cantassero il Trovatore, degli gnomi lontani.
Spari nella borda bruinosa.
Disordinati rabbiosi impotenti e sciocchi.
Un urlo più forte.
La voce fangosa di mille sigarette che subito ha una faccia.
Gli occhi chiusi lo vedono benissimo.
Il baffo ferrigno e il naso a becco.
La pelle scura, saracena.
I catenacci cessano la loro musica stonata.
Resto come avrei voluto: solo con la montagna e la notte.
La spezia preziosa che mi paga la vita è intatta.
Un sacco buono, di quelli svizzeri, che non li taglia neanche l’acciaio di una britola o di un potaviti.
Camminare è facile.
Segui con un piede l’orma dell’altro e pensi solo a quello.
Il dolore è una musica che devi tenerti lontana, come un ballo proibito: un tango di strie e istrioni che ti guasta l’anima e te la perde.
Le ferite si cuciono.
La ghirba è fatta apposta.
Due ore e sono al fuoco.
Tre ore con questo passo annodato e ciocco, mentre il sangue mi scende sugli occhi ad appesantire il linzolo brodego della notte.
Mani avide mi slacciano lo zaino.
Controllano il carico.
La ghirba è fatta apposta.
Due ore e sono al fuoco.
Tre ore con questo passo annodato e ciocco, mentre il sangue mi scende sugli occhi ad appesantire il linzolo brodego della notte.
Mani avide mi slacciano lo zaino.
Controllano il carico.
Non mi piace beverlo, il caffè.
L’odore dei chicchi però è buono.
Gli occhi furbi, solo allora mi vedono.
Una sgarbellata di sorriso che subito di spegne.
Prendo i soldi e li conto due volte.
Fuori per gli ultimi cento passi.
Maria e due figlie che mi spettano con le nocche bianche di Pater noster.
Lo sento, prima di vederlo.
Il lamento monotono come un rosario di quello che lui chiama scacciapensieri.
E’ seduto davanti il legno della porta di sette generazioni del mio fuoco.
Mi vede.
Si alza e mi fugge incontro.
“Mamma mia, come ti sei conciato.”
Taccio, come quando non so cosa dire.
“ Mi hai fatto morire di paura. Ho pensato che ti fossi ammazzato.”
Gli metto una manica sulle spalle.
Per affetto e per stanchezza.
“ Vieni, che ti aiuto. Mia sorella si sta morendo di preoccupazione.”
Mi sbalza come un covone.
Forte mio cognato.
Mi mette seduto sull’ottomana e m’avvolge attorno la coperta a fiori comprata a San Giuseppe.
Mia moglie lacrima di paura sciolta e di felicità.
Li guardo.
Si somigliano come due scirese.
Diversi e uguali.
Piange anche lui.
Fa bene sapere che ti vogliono bene.
Mi dispiace per il mio sangue.
Gli ho macchiato la giacchetta grigia.
Bella davvero, con tutte le medaglie, i nastrini e i gradi da Maresciallo.
Gli occhi furbi, solo allora mi vedono.
Una sgarbellata di sorriso che subito di spegne.
Prendo i soldi e li conto due volte.
Fuori per gli ultimi cento passi.
Maria e due figlie che mi spettano con le nocche bianche di Pater noster.
Lo sento, prima di vederlo.
Il lamento monotono come un rosario di quello che lui chiama scacciapensieri.
E’ seduto davanti il legno della porta di sette generazioni del mio fuoco.
Mi vede.
Si alza e mi fugge incontro.
“Mamma mia, come ti sei conciato.”
Taccio, come quando non so cosa dire.
“ Mi hai fatto morire di paura. Ho pensato che ti fossi ammazzato.”
Gli metto una manica sulle spalle.
Per affetto e per stanchezza.
“ Vieni, che ti aiuto. Mia sorella si sta morendo di preoccupazione.”
Mi sbalza come un covone.
Forte mio cognato.
Mi mette seduto sull’ottomana e m’avvolge attorno la coperta a fiori comprata a San Giuseppe.
Mia moglie lacrima di paura sciolta e di felicità.
Li guardo.
Si somigliano come due scirese.
Diversi e uguali.
Piange anche lui.
Fa bene sapere che ti vogliono bene.
Mi dispiace per il mio sangue.
Gli ho macchiato la giacchetta grigia.
Bella davvero, con tutte le medaglie, i nastrini e i gradi da Maresciallo.
notevole
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