Di Schüler, I wanna be like Mike, acrilico su tavola di 40 x 50 cm. |
Non è sbagliato in sé, definire una lingua più o meno bella, se ci si
ricorda che quando si danno giudizi di questo tipo si è oggettivi come quando
si critica un quadro o un film, magari senza sapere nulla di pittura o
cinematografia; che si dà quindi una valutazione sempre sommamente personale,
per certi versi sentimentale, che non ha alcuna base scientifica o anche solo
razionale.
Per me tutte le lingue del mondo sono bellissime; rappresentano, prendo
in prestito l’immagine che Abulafia riserva alla sacre scritture, facce diverse
dello stesso scintillante diamante: dell’ intelligenza umana e della sua
capacità di descrivere e spiegare il mondo. Pochissimo senso ha anche definire
una lingua come più o meno provinciale: è qualcosa che ha a che vedere con una
visione sempre e comunque parziale ed ideologica del mondo; un’operazione, che
contiene un giudizio implicito sulla cultura che in quella lingua si esprime,
che, ancora una volta, non può avere nulla d’oggettivo. E’ verissimo, però, che in ogni epoca solo
pochissime tra migliaia le lingue parlate sul nostro pianeta sono diventate
lingue veicolari, vale a dire utilizzate per comunicare tra loro da uomini di
differenti culture. Spesso si è trattato
di quelle usate dalle varie amministrazioni di forti poteri centrali (pensate
all’Aramaico dell’impero di Sargon, al greco e al latino di Roma e della
Chiesa, prima che all’inglese). Più raramente, nella scelta della lingua
veicolare di una certa area e in un dato periodo, hanno prevalso questioni di medietà
e semplicità. Due esempi? Ancora l’inglese, che è anche una sorta di via di
mezzo tra lingue romanze e germaniche, e poi lo swahili, lingua completamente
artificiale sorta, per essere intesa dalle popolazioni di un quarto
dell’Africa, come fusione di arabo e lingue bantù. Dare un giudizio
estetico, in questi casi, è addirittura stucchevole. Non importa se si pensi
che l’inglese sia bello o brutto e neppure se si amano o meno l’Inghilterra e
gli Stati Uniti; quella di Shakespeare, è la lingua veicolare della nostra
epoca e non conoscerla significa essere tagliati fuori (o condannati a seguirla
solo di riflesso e in seconda battuta) dalla circolazione delle idee: ad essere
davvero dei provinciali. Detto questo, mi pare evidente che solo chi si vuole
ostinare a non comprendere i più semplici dati di fatto del mondo in cui
viviamo possa sottovalutare l’importanza della conoscenza dell’inglese e che in
questo, nell’insegnare questa lingua ai propri allievi, la scuola italiana,
dalle elementari alle università, sia un completo fallimento; quasi tutti i
nostri giovani bofonchiano un po’ d’inglese, ma solo pochissimi, lo parlando
decentemente e, di solito, per averlo appreso lontano dalle lingue scolastiche.
Un risultato che ha a che vedere con le modalità d’insegnamento, pedissequa
imitazione di quelle tradizionalmente adottate per le lingue morte, ma che si
spiega anche con il livello, mediamente atroce, della competenza dei laureati
in lingue che con queste modalità sono stati formati, prima d'essere chiamati
ad applicarle con altri. Non me la sentirei mai di esprimere giudizi su chi ha
lauree in altre discipline, ma, per la mia biografia (parlo e scrivo con
scioltezza in quattro lingue; con qualche difficoltà in più in altre in due, e
me la cavo in un’altra mezza dozzina ancora) posso affermare che molti di loro
sono quasi ridicoli nella loro assoluta ignoranza della lingua di cui dovrebbero
essere specialisti. Ho conosciuto, in questi anni passati in giro per il mondo,
degli anglisti, laureati a pieni voti, che avevano bisogno del dizionario per
leggere un libro di un autore contemporaneo e con un pronuncia tanto cattiva da
far dubitare che quello che usciva a mozziconi dalla loro bocca fosse inglese.
Ho conosciuto laureati in ungherese che non erano capaci, in quella lingua, di
sostenere anche la più semplice conversazione; incapaci, in un paio di casi,
anche solo di dire decentemente arrivederci. Ho conosciuto, tanto per fare dei
paragoni, dei laureandi della facoltà di Letteratura Italiana di Budapest che
parlavano un italiano migliore del mio, senza il mio pesante accento alpino, e
che della cultura italiana contemporanea sapevano più di me. Ho conosciuto
quest’anno un gruppetto di studenti di italiano di UCLA che, pur parlando la nostra
lingua con un poco, ma davvero un poco, d’accento, mi hanno lasciato estasiato
per la profondità della loro conoscenza dell’Italia del secondo dopoguerra (si
parlava di un mio scritto ambientato in quel periodo); capaci, due di loro, di
chiosare, in italiano, sulla interpretazione che Fortini dà di Lukacs. Io? Me
ne sono stato zitto e, mentalmente, ho cercato di prendere appunti; avevo solo
da imparare. Dove voglio arrivare a parare? Mi pare, che la scarsa conoscenza
delle lingue da parte dei nostri giovani sia solo un indizio del cattivo stato
delle nostre scuole ed università. Il prodotto di una serie di vezzi, primo tra
tutti l’odio o quasi per il testo (quante volte i miei amici colti, parlando di
questo o quell’autore mi dicono: “L’ho fatto a scuola; non ho mai letto niente
di suo”), che hanno tra le loro conseguenze anche la più completa mancanza di
un vero spirito critico da parte dei nostri ragazzi più brillanti; di quella
che dovrebbe essere la nostra classe dirigente di domani. Una “chiusura della
mente italiana”, per parafrasare Bloom, operata da un sistema scolastico, il nostro,
cui si possono muovere perlomeno le
stesse critiche che Taylor Gatto fa a quello americano. Si produce cultura,
nelle nostre scuole? No. Solo si impartiscono nozioni: brandelli di conoscenza
scollegati tra loro o, ad ogni modo, uniti da nessi non fatti propri dagli
allievi; appartenenti a una logica diversa da quella della curiosità del
singolo, inscatolata in una relazione con l’insegnate simile a quella, sempre e
solo passiva, che si ha con il televisore. Una curiosità uccisa in fasce, per
produrre i monotoni pezzi necessari al funzionamento della macchina, dimenticando
che, secondo la più bella tra le molte belle lezioni di Kenneth Clark, è
proprio la curiosità ed essere la madre di qualunque civiltà.
Concordo su tutto ma aggiungo che la cultura non è solo della scuola ma è principalmente del singolo.
RispondiEliminaEcco, questo credo sia il quid: prendere in mano la propria vita e cercare di migliorarla attraverso la cultura.
Alla scuola il compito di risvegliare in me quel sentimento necessario ed inalienabile.