Da una mia lettera
Di Schuler, Bozzetto per Cavaliere e cavallo, tecnica mista su carta di 30 x 30 cm. |
Ieri, sono stato a
pranzo da Frau Rabensteiner. Stavo sorseggiando il caffè (l’ho preparato io: dopo mangiato mi serve un
espresso italiano, ma credo di avertelo già scritto) quando dalla radio è arrivato il rullo di
tamburo con cui attacca la Marcia
Radetsky di Johan Strauss,
l’inno alla gloria dell’impero Austro-Ungarico
che, anche ai giorni nostri, è puntualmente eseguito in ognuno dei celebri
concerti di capodanno della filarmonica viennese. Perso dentro i miei pensieri,
però, neppure me ne sarei accorto se la mia ospite, forse iniziando ad annoiarsi
per il mio silenzio, non avesse commentato: “L’ho letta tanti anni fa, in
inglese. Dovrei rileggerla in tedesco, ora che conosco la lingua”.
“Sì, certamente potrebbe”,
le ho risposto subito d’istinto, mentre i miei tre neuroni abbandonavano in
tutta fretta quel che stavano facendo per cercare di capire a cosa si stesse riferendo
la signora. A loro onore va detto che, nonostante l’età, e le mie abitudini non
sempre salubri, è bastato loro un istante per effettuare i necessari
collegamenti e salvarmi da una figuraccia permettendomi di aggiungere un “eh … povero
Von Trotta” che spero non abbia lasciato dubbi sulla vastità delle mie letture.
Radetzkymarsch,
e Frau Rabensteiner non poteva che star parlando di questo, è infatti anche il
titolo del più famoso tra i romanzi di Joseph Roth, un altro dei miei amati
narratori di storie d’uomini senza qualità.
Ripensandoci, avrei
potuto dire “povero” anche di lui.
Figura chiave della cultura ebraica nell’Europa tra le due guerre, ebbe
un’anima inquieta e, che si sia convertito al cattolicesimo come vorrebbero
molti o no, dovette trovare la forza per mettere in discussione la propria
fede; qualcosa di cui i più fortunati, qualunque sia il loro credo, non hanno
necessità.
Ebbe, sotto ogni
aspetto, una vita tragica. Sua moglie divenne schizofrenica dopo pochi anni di
matrimonio, fu internata in un ospedale psichiatrico e successivamente
cadde vittima del programma di igiene razziale hitleriano. Lui arrivò
alla ricchezza e al successo, come
giornalista nella Germania di Wiemar, ma fu costretto a riparare in Francia,
per sfuggire alle persecuzioni naziste, e morì a Parigi, poverissimo, solo e
alcolizzato, alla vigilia della seconda guerra mondiale.
Radetzkymarsch,
per tornare al romanzo, che fu pubblicato nel 1932, l’anno precedente l’ascesa
al potere di Hitler, e di cui credo sia appena apparsa una nuova traduzione
nella tua lingua, è un’opera intrisa d’ironia in cui Roth narra l’ascesa e
caduta della famiglia Trotta, che arriva alla nobiltà quando il primo conte o
barone, non ricordo bene, nel corso della battaglia di Solferino, salva nel più
casuale dei modi la vita dell’Imperatore.
Si tratta di una saga
dunque, parodia di altre, celeberrime,
della letteratura di lingua tedesca, e nel contempo di una metafora del destino
austriaco. Per conoscere il suo amarissimo finale, bisogna leggere, però, un’altra
opera di Roth, Die Kapuzinergruft, La
cripta dei cappuccini, scritta nel 1938, dopo la sua emigrazione in Francia. È
al protagonista di questo romanzo, Francesco Ferdinando Trotta, ultimo della
dinastia, che si ritrova senza un patria ed un imperatore da servire, che si
riferiva quel mio “povero”.
La domanda che si pone
mentre, alla fine dell’orario delle visite, è obbligato a lasciare la cripta
dove sono sepolti i sovrani di un’Austria che non esisteva più. “e adesso cosa
può fare un Trotta” è simile a quella a cui ognuno di noi scopre di non spaer
rispondere, quando il proprio mondo finisce.
Due grandi romanzi,
dunque, La marcia di Radetsky ed il
suo seguito, ma il mio Roth preferito è un altro. È lo scrittore tardo
espressionista dei primi anni venti; l’acuto osservatore di fenomeni sociali
che ci ha lasciato Das Spinnenetz, La
tela di ragno, un profetico monito sui pericoli del nazismo, e il maestro di
satira autore di Hotel Savoy, un
albergo ai confini dell’Europa dove i soldati si fermano riposare, nel lungo
viaggio che li sta riportando a casa dopo anni di guerra e prigionia e che è,
una volta ancora (quello della finis
Austriae è uno dei temi più ricorrenti della produzione di Roth), specchio
dove cogliere gli ultimi riflessi di un mondo, quello dell’Impero
Austro-Ungarico, già ineluttabilmente destinato all’oblio.
Non sei d’accordo con
me? Preferisci il Roth più famoso? O forse l’autore di racconti deliziosi, tra
cui spicca quel piccolo capolavoro intitolato Stationschef Fallmerayer,
Il capostazione Fallmerayer? O forse ti piace di più il poeta o, ancora, il
giornalista? Bene, non potrei in ogni caso che complimentarmi con il tuo buongusto. I grandi autori, come le
loro opere, hanno di che piacere a tutti, ma non a tutti per le medesime
ragioni: sta alla sensibilità e curiosità di ogni lettore trovare le proprie.
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