Un istante d'eternità.
Giorgio Morandi, Natura morta, 1953. Olio su tela di 45,5 x 35,5 cm. Mamiano di Traversetolo (Pr), Fondazione Magnani Rocca |
Sarà per quei portici-cosce di
mamma? Per il colore caldo dei suoi mattoni e coppi? Per i tortellini? Per
il modo di fare, scanzonato ma senza volgarità, dei suoi abitanti? Per altre
vociferate specialità cittadine?
Non lo so. Di sicuro, nel paese dai mille
campanili, e dove ognuno è visceralmente attaccato al proprio, Bologna, col
seno sul piano padano e il culo sui colli, è l’unica città amata da tutti.
Sotto sotto, anche dai modenesi. Ed l’unica di cui quasi tutti, anche
quelli che non l’hanno mai visitata, sappiano citare due indirizzi. Chi abbia
suppergiù la mia età e ascolti della musica, anche solo all’autoradio mentre
guida, sa che in via Paolo Fabbri 43 abitava uno dei nostri poeti
generazionali, autore anche della canzone che ho citato. Quasi tutti quelli che
hanno qualche interesse per l’arte, ricordano poi via Fondazza 36.
Lì, un po’ più vicino al centro
rispetto a via Paolo Fabbri, con appunto i portici e non i tigli a fare ombra
nell’afa agostana, c’è la casa dove ha vissuto e lavorato Giorgio Morandi. C’è,
anzi, tutto il mondo, tutto l’universo, di uno dei pittori più grandi del ‘900,
nostro e non solo.
Da quelle mura, infatti, Morandi
non usciva praticamente mai. Al massimo si concedeva brevi passeggiate nelle
vicinanze. E non cercava altrove neppure i soggetti dei propri quadri. Vasi,
barattoli e bottiglie; quel che sta sulla superficie di un tavolino. Rari
scorci di quel che si vede da quelle finestre. Un asceta della pittura? Come
Magritte, che pure non usciva mai dal proprio studio, qualcuno capace di
sviluppare un sistema formale perfettamente auto-contenuto. Meglio ancora,
qualcuno capace di far poesia osservando qualche suppellettile; come Montale, e
il paragone con lui tornerà, la faceva guardando a quel muro
d’orto, rovente in un meriggiare pallido e assorto.
Un uomo tranquillo, dunque. Alto,
con il viso lungo e le braccia smisurate. Dalle foto, pare somigliare un po’ a
Fenoglio; un altro che aveva trovato un linguaggio tutto suo, tra l’Inghilterra
di Cromwell e le Langhe. Nessuna somiglianza nelle loro biografie, però, tranne
la comune riservatezza. Nessun dramma pare sfiori la vita di Morandi. Il
trasloco assieme alla famiglia a quell’indirizzo, avvenuto nel 1910, quando ha
vent’anni e da tre frequenta l’Accademia di Belle Arti, è quanto di più
rimarchevole gli sia accaduto, o quasi. In una di quelle stanze piazza il
proprio cavalletto e resta lì, a dipingere, mentre la Storia (quella terribile
con la esse maiuscola) passa altrove. Arriva la prima Guerra Mondiale. Lui è
richiamato, ma, subito congedato in seguito ad una grave malattia, la passa con
i pennelli in mano. Arriva il fascismo. Morandi, che ha raggiunto una certa
fama (Riccardo Bacchelli gli dedica un primo articolo nel 1918), dipinge le
nature morte che sono già diventate il suo tema quasi esclusivo. Cade il
regime. Dopo altri due terribili anni, arrivano libertà e democrazia. In tutto
questo tempo, Morandi non si stacca dal cavalletto. Dipinge i suoi barattoli, i
suoi vasi e le sue bottiglie. La sua non è “arte impegnata”. E’ un
“intellettuale chiuso nella sua torre d’avorio”. Peggio: è “un piccolo borghese
che celebra valori piccolo borghesi”. Sono queste le accuse da cui deve
difendersi. Le stesse suppergiù che vengono rivolte a Montale. Non avendo nulla
da farsi perdonare, potrebbero rispondere entrambi, non avendo mai collaborato
attivamente con il regime, non hanno nessun bisogno di fare professioni di
antifascismo, come tanti che, dopo aver passato il ventennio in orbace e
camicia nera, corrono ad indossarne di altri colori. Tacciono, invece. Montale,
pubblica una nuova edizione delle Occasioni e si scrive articoli di
cultura. Morandi, certo, continua e dipingere. E sempre gli stessi barattoli.
Solo nel 1976, il poeta, scriverà che oggetto della propria opera era la
condizione umana, non un dato avvenimento storico, ma che questo non
significava estraniarsi dal mondo; solo “coscienza, e volontà, di non scambiare
l'essenziale col transitorio”. Parole, quelle tra virgolette, che sarebbero
state benissimo anche in bocca a Morandi, pittore che mirava all’essenziale e
all’eterno; che sceglieva di dipingere forme tanto semplici da essere senza
tempo. Sì, proprio come negli stessi anni, ma con sensibilità ovviamente
diversa, stava facendo Mondrian. Le ragioni, di una tale pittura? Ce le
fornisce ancora Montale, e in una sola frase. Nel 1966, mentre l’intellighenzia
nazionale si precipitava a professare il proprio impegno, in Auto da fé il
poeta ebbe il coraggio di scrivere che fare poesia (e quindi arte)
era, in sé, “un'ontologia in cui la vita intellettuale e la vita morale
coincidono indissolubilmente”.
Bologna, non sarà l’ombelico
di tutto, ma non è neppure una sperduta isola del Pacifico. E Morandi, che
pura lavora in solitudine, praticando un’arte tanto rigosa da apparire lontana
dal mondo quanto un mosaico bizantino, non può sfuggire al proprio tempo. Ovvio
che debba confrontarsi con gli ismi del primo ‘900. La frequentazione di
Ardengo Soffici, lo avvicina al Futurismo. Il tempo di capire di cosa si
tratti, e quanto diverso sia dalla sua concezione dell’arte, con quel suo voler
farla finita “coi Ritrattisti, cogli Internisti, coi …” prima di
allontanarsene. Più duratura la sua stagione metafisica. Comincia mentre ancora
infuria la Grande Guerra, quando incontra De Chirico e Carrà, e non finisce mai
del tutto. Certo, la sua pittura è pienamente metafisica solo per un breve
periodo; fino al ‘19, proprio quando con Carrà e De Chirico entra nel gruppo
che si riferisce alla rivista Valori Plastici. In quegli anni, però, è
il più metafisico tra tutti. Quando ancora cercava una propria via al
Futurismo, attraverso le riproduzioni dei lavori di Braque e Picasso e leggendo
Du Cubisme di Glaizes e Metzinger, ha conosciuto il Cubismo. Ne ha fatto
propri alcuni elementi e li usa per costruire immagini squisitamente mentali;
architetture visive in cui i soggetti appaiono ancor più distanti dal
quotidiano di quelli che popolano le tele di Carrà o De Chirico. Un’arte troppo
astratta per soddisfarlo, ad ogni modo, e che abbandonerà per tornare alle sue
nature morte. Da allora, però, i suoi quadri sono ineffabilmente diversi.
Osservandoli, si fa in noi più netta le sensazione che quegli oggetti, pur così
semplici, non appartengano davvero al nostro mondo; che esistano piuttosto in
una dimensione tutta loro. Meta-fisica nel più etimologico dei sensi.
Guardiamo questo quadro. E’ del
1953 e appartiene alla piena maturità di Morandi. L’ho scelto per questo e per
la sua essenzialità. Tre bottiglie davanti ad una scatola e a dei barattoli. Di
simili, ne abbiamo anche in casa, ma non ci sfiora l’idea di trovarci di fronte
ad uno “scorcio di realtà”. Lì, su quella tela, sono rappresentati uno spazio
ed un tempo, soprattutto, diversi dagli ordinari. Non un astratto spazio della
ragione, però, come nelle sue tele più metafisiche; piuttosto uno spazio che la
ragione filtra, regola. Simile a quello intuito da Paolo Uccello, che Morandi
amava; lo stesso dentro cui Cézanne celebrava, per usare le parole con cui
Rilke ne descrisse l’arte, la “cosalità delle cose”.
Morandi conosce l’opera di
Cézanne nel 1910, grazie ad un articolo che Soffici pubblica sulla Voce.
L’avrebbe poi studiata a fondo e ne avrebbe sempre ricordato le lezioni. Quelle
bottiglie e quelle scatola, per cominciare, esistono davvero. Basta andare in
via Fondazza 36, dove oggi sono esposte le cose di Morandi, per ritrovarle.
Cézanne non dipingeva soggetti di fantasia. Cercava di restituirci sulla
tela gli oggetti, delle mele come la montagna Saint-Victorie, in tutta la loro
solidità; voleva che le cose in sé arrivassero, per citare ancora Rilke, “ad essere
belle, a significare tutto il mondo e tutto lo splendore”. Morandi fa lo
stesso. Ha un totale, cezanniano, rispetto per i suoi soggetti. Le bottiglie che
sulle sue tele ci appaiono bianche, sono così anche nella realtà; se nate
trasparenti, ne ha coperto il vetro con un velo di bianco perché lo
diventassero. Dove la sua sensibilità di artista interviene è, appunto, nella
scelta di quelle cose e nella loro disposizione, che può studiare per
ore, e a volte per giorni. Medita a lungo anche sul punto di vista più
opportuno. Poi, però, lavora in fretta. Cerca di realizzare i suoi quadri in
una sola seduta. Dipinge “a corpo”, senza ovviamente usare velature. Una
pittura in presa diretta, che non ammette correzioni. Se sbaglia, se non è
soddisfatto, deve grattare via il colore dalla tela e ricominciare daccapo. Le
sue pennellate sono tutte visibili; anche in questo quadro le possiamo contare
una ad una. Nel 1911, in uno dei suoi rari viaggi, si reca Roma e vede
un’esposizione di Monet. Ha imparato da lui quanto possano essere espressivo il
segno dei pennelli? Di sicuro, oltre a testimoniare il suo lavoro (anche
Gestuale; Morandi è proprio tutto), quelle pennellate, che pure modellano
cezannianamente (orrendo, ma ci vuole) gli oggetti, animano le campiture
sottraendone i piani alla geometria per consegnarli alla poesia. Ci ricordano,
là dove si fanno incerte, come in quella riga orizzontale, l’umanità del
pittore e la nostra; fanno della superficie pittorica uno spazio sì diverso, ma
pure sempre terreno.
Pennellate che non urlano, però;
che non sono drammaticamente espressioniste.
Nulla disturba la coerenza
formale delle opere di Morandi, monolitica anche grazie al più rigoroso (certo,
cezanniano) controllo dei toni. Grigi, ocra, bianchi appena sporcati. Colori
che paiono provenire da un affresco dei trecenteschi che ha tanto studiato,
sfumati, a volte quasi spappolati, da una luce tutta sua. La luce che in Piero ordina
il mondo, ammorbidita dall’atmosfera bolognese? Sì, ma come in Cézanne una luce
reale, non solo mentale. In un angolo dello studio, Morandi ha appeso un
elastico circolare; sa che quando è circolare anche l’ombra che proietta sulla
parete, il sole è allo Zenith: il momento giusto per abbozzare quadri come
questo, dove non ci sono ombre visibili. E sa che altri momenti sono invece più
propizi per ottenere altri effetti, per avere ombre che incidono o sfumano, che
rivelano o nascondono. Ombre soffici che, nella loro presenza o assenza,
scandiscono il tempo dei suoi dipinti? No. Non più di quanto il sorriso della
Gioconda possa essere ridotto ad una questione di chiaroscuri. E altrettanto
misterioso è il tempo in cui stanno le cose di Morandi. Rappreso, sospeso.
Quanti aggettivi per qualificarlo. Osserviamo ancora questo quadro. Per quanto
potrebbero stare così, quelle bottiglie? Quanto possono durare quella luce e
colori? Sì, per sempre. Su quella piccola tela c’è un istante di eternità. Per arte.
Per magia. Per poesia. Per tutto quello che vorrebbe farci tornare una sera in
Piazza Grande, anche se non ci siamo andati mai.
P.S. A Roma, nel Complesso del
Vittoriano, resterà aperta fino al 21 giugno la mostra “Giorgio Morandi
1890-1964”. Inaugurata il 28 febbraio, con oltre cento dipinti ed una
cinquantina di opere grafiche ripercorre l’intera carriera dell’artista. Curata
da Maria Cristina Bandera, direttrice della Fondazione Longhi, offre anche
l’occasione, quasi unica, di ammirare le matrici di alcune incisioni.
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