Oltre il doppio orizzonte delle bacchette, il lampo dei suoi capelli.
Di Schuler, Ripensamento, 2002. Acrilico su tavola di 40 x 50 cm. |
No, amici veri, di quelli con cui si può davvero parlare di tutto, non ne ho. Li avessi, forse non scriverei queste righe. A qualcuno, però, devo pur raccontare quel che mi è successo oggi e, in mancanza di meglio, va bene anche un foglio di carta; anzi, lo schermo di un portatile.
Come si fa, però, a scrivere? Non
l’ho mai fatto, se non a clienti o fornitori per sollecitare pagamenti o
consegne. Forse dovrei dire qualcosa di me, per cominciare. Lavoro, appunto. Tanto, anche perché ho delle
responsabilità: il settore esteri è tutto mio. Hobby non ne ho. Leggo qualcosa,
ma poco. Più che altro guardo la televisione. E poi, ovvio, navigo. No, non in
barca a vela, anche se mi piacerebbe; in Rete, con il computer. Come tutti.
Sono un ragazzo normalissimo, per il resto. Ho quarantatré anni. Sono più alto che
basso e più magro che grasso. Insomma, volendo, potrei anche piacere. Alle
donne, dico. A Giovanna, piacevo. Siamo stati assieme per quasi vent’anni;
dalla fine del liceo. Poi lei avrebbe voluto che ci sposassimo. Forse le avrei
anche detto di sì, se non me lo avesse chiesto tanto all’improvviso. Certo che
quando lei mi ha mollato per mettersi con quel suo collega, per giunta
divorziato, ci sono rimasto male. Ho anche sofferto, la sera che mi ha detto
che tra noi era finita. Dovevamo andare al cinema, a vedere un film di Woody
Allen. Lo aveva scelto lei, ma forse sarebbe piaciuto anche a me. Invece mi ha
fatto quella telefonata. Peccato. Da allora, ad ogni modo, sono solo. Non
che abbia voglia di esserlo, o almeno
non sempre; solo che è davvero difficile cercarsi una ragazza se non si è mai
dovuto farlo. E io ho sempre avuto Giovanna. Un paio che forse avrebbero potuto
interessarmi, le avrei anche conosciute. Una solo pochi mesi fa, in banca. Poi
però … insomma … non me la sono sentita
di rischiare un no. Non ne valeva la pena. Avevamo anche delle cose in comune.
Si occupava di esteri. Ero andato lì per scontare una lettera di credito. Era
anche carina, a modo suo. Niente a che vedere con la ragazza che ho conosciuto
oggi, però: ancora giovane, sui trentacinque, e bella per davvero. Una di
quelle che non si pensa di poter incontrare, bionda, con i capelli lunghi, e
con tutto al posto giusto, come quelle che si vedono solo al cinema o sullo
schermo del computer, se magari viene voglia di visitare certi siti … .
L’ho
incontrata da Hot Wok. Ci sono andato a pranzo, come faccio qualche volta,
specie il venerdì. Non è lontano da dove lavoro, solo una passeggiata. Credo,
anzi, che lo abbiano messo apposta in quella zona piena d’uffici, i cinesi. Quelli
considerano tutto; sanno come fare gli affari. Hanno comprato tutto il
pianterreno di uno stabile e ci hanno aperto questo ristorante. Grande, enorme.
Si mangia davvero bene, però, ed è tutto
pulitissimo. Arredamento moderno, luci giuste; niente a che vedere con certi
postacci che, a parte gli ideogrammi alle pareti, sembrerebbero usciti da un
film neorealista. A mezzogiorno, poi, si pagano solo dodici Euro. E si mangia quello
che si vuole. Si prende un piatto, si fa un giro dei banconi, e lo si riempie
di tutto quel che piace. Si possono anche scegliere degli ingredienti e andare
a farseli saltare in padella, o grigliare, da una batteria di cuochi che, con i
loro fuochi e fornelli, occupa tutta una lunga parete. Camerieri, quasi non ce
ne sono. Si limitano a pulire i tavoli e a dirigere il traffico dei clienti.
Devono farlo, perché il locale è sempre pieno. Lo era anche oggi. Tanto che ho
dovuto aspettare, anche se solo pochi minuti, prima che mi facessero sedere ad
un tavolo. Ad un tavolino, anzi, perché al massimo avremmo potuto starci in
due. Non che mi importasse, visto che ero da solo, come non mi importava che
fosse contro una parete senza finestre: non ero lì per ammirare il panorama.
Poi sai che roba, ai confini con la zona industriale. Niente neppure davanti a me. Solo un altro
tavolino, con una giacca appesa allo schienale della sedia, poi l’altro muro.
Ho ordinato da bere, una Coca Zero
perché si sa che chi ingrassa non fa carriera e sono andato a prendermi da
mangiare. Tre minuti, tanto so già dove trovare quello che mi piace. Quando
sono tornato, lei era lì.
Ecco,
si vede che non sono un romanziere. Questo sarebbe stato il momento giusto per
presentarla, invece l’ho già fatto. Ho anche già detto del tavolo a cui era
seduta: sì proprio quello davanti il mio. Quel che mi è successo quando l’ho
vista, invece, non so proprio come descriverlo.
Non
l’ho notata subito. Ero troppo preoccupato di arrivare al tavolo senza
rovesciare niente. Ho anche cominciato a mangiare. Poi mi sono fermato con il
won-ton a mezz’aria. Lo so che detto così fa ridere, ma è proprio quello che ho
fatto. Era il secondo. Lo avevo preso con le bacchette (non so bene come abbia
fatto ad imparare ad usarle e ancora capito bene il perché. Forse per sentirmi un
uomo di mondo, o almeno che potrei esserlo) e lo stavo osservando, bello gonfio
com’era, con quella coroncina di pasta che trovo così elegante, là dove lo
avevano richiuso le mani del cuoco o, più probabilmente, una qualche macchina.
Vai a sapere; dei cinesi non si sa mai niente. Neppure se anche loro mettono la
salsa di soia sui won-ton. Io lo faccio, ma non vorrei che vedendomi, un
pechinese o shangaiano (o shangaiota? Ecco: non si sa neppure questo) provasse
lo stesso disgusto che mi assalì quando la signora Woodson, mia padrona di casa
durante un soggiorno di studio nelle ridente Wolverhampton, come a dire una
Sesto San Giovanni solo un po’ più grigia,
versò un’intera bottiglia di ketchup sulla massa colloidale, quasi
gelatinosa, degli spaghetti che per onorarmi aveva lessato per una buona
mezz’ora. Cosa c’entra? Nulla.
Un’inutile
divagazione; l’ennesima dimostrazione della mia incapacità di andare dritto al
punto. Ah, prolixitas prolixitatis. Volendo in latino non andavo neanche male.
La Giò, invece era una frana. La prima volta che mi ha sorriso, è stato quando
le ho passato sottobanco una versione. No, mi fermo subito. Ci mancano solo i
ricordi di scuola. Di peggio ci sono solo quelli di naja. Almeno credo, perché
io non l’ho fatta. Rinviando, rinviando, alla fine mi hanno mandato il congedo.
Ero lì, tornando al won-ton, che mi facevo quelle domande sulla salsa di soia,
osservandone una lacrima scura scendere giù per il candido ventre del raviolo, turgido
di ripieno, quando il lampo dei suoi capelli, oltre il doppio orizzonte delle
bacchette, ha attirato il mio sguardo.
No,
non mi piacciono particolarmente le bionde, che poi va a capire se sono bionde
per davvero, solo che il suo era un biondo diverso. Sotto il neon, se poi sono
al neon queste lampade moderne, scintillava come oro. Luccicava, proprio. Avevo
già aperto la bocca per accogliere il won-ton e mi sono dovuto fermare. Quando
poi l’ho messa a fuoco, la bocca mi si è spalancata. E il won-ton mi è caduto
nel piatto. Ho anche rischiato che la salsa di soia mi schizzasse sulla
cravatta. Nuova. Quasi.
Julia
Roberts. Ecco: è come se mi fossi trovato di fronte Julia Robert. Non quella di
Pretty Woman, intendiamoci, quella del Rapporto Pelican. E io mi ero quasi
preso una cotta, per quella Julia Roberts.
Solo che lei era ancora più bella; uguale, ma con un viso più dolce, con
un mento appena meno sporgente, con un naso appena meno lungo, anzi, un po’
francese. Perché poi si dica francese un nasino all’insù, non lo so. Ogni tanto
in Francia ci vado, per lavoro. Sono stato anche a Parigi, tre anni fa, per una
fiera. Non è che nasini così abbondino neanche da quelle parti. A proposito, ma
non è che ma non è che sarà un francesismo? Pare proprio. Non che importi.
In
quel momento, poi, non mi importava nulla. Non credevo che certe cose
accadessero nella realtà; alle persone, appunto, reali. Pensavo fossero esagerazioni.
Finzioni buone per quei romanzi che non leggo e per certi film che non mi
piacciono. Invece no, stavo scoprendo: i colpi di fulmini esistevano. Eccome.
E
io ero proprio folgorato. Incapace di muovermi. Stecchito. Neanche di quello mi
importava. Sarei rimasto volentieri lì com’ero,
a guardarla attraverso le bacchette che mi si erano aperte davanti al
viso, per tutto il resto della vita. E lo avrei fatto se lei, finito di fare
quel che stava facendo con il telefonino, non avesse sollevato lo sguardo. Ho subito
tuffato il mio negli spaghetti di riso che avevo nel piatto. Saranno anche
stati buoni, l’odorino che avevo annusato prima era invitante, ma ormai la fame
mi era passata. Mi era passato tutto, tranne che la vergogna. Ero sicuro che mi
avesse visto; che si fosse accorta che la stavo guardando a quel modo. Come un
idiota. Oddio, peggio, come un maniaco.
Gli
spaghetti non li ho toccati. Sono difficili da prendere con le bacchette e non
volevo aggiungere una figuraccia a quella che ero sicuro d’aver già fatto. Ho
preferito recuperare il won-ton che mi era caduto. Pensavo di giocare sul
sicuro e invece mi è caduto di nuovo. Incredibile. E dire che non mi cadono
proprio mai i won-ton dalle bacchette. Per fortuna stavo ancora tenendo la
testa bassa; per l’imbarazzo, credo proprio di essere arrossito. Non ne sono
certo, perché non sono abituato ad arrossire. Ho la faccia da poker, come si
dice: sono capacissimo di mentire a un cliente o a un fornitore guardandolo
dritto negli occhi. Quella vampata di caldo che mi sentivo salire su per il
viso, su fino alla punta delle orecchie, che cos’era, però, se non rossore?
Qualunque cosa fosse, ho aspettato che passasse prima di rialzarmi. E se avessi potuto guardare altrove, lo avrei
fatto. Ma lei era proprio lì, davanti a me. E, incredibilmente, sorrideva.
Anzi, mi sorrideva. Non un sorriso ironico. Neppure uno complice o malizioso.
Un sorriso … eh, pare facile scrivere, ma poi uno si mette e scopre che gli
mancano le parole … . Ecco: un sorriso sorriso. Bello, bianco. Pulito. In tutti i sensi. Un sorriso che
sarebbe stato bene addosso alla protagonista di uno spot per un dentifricio.
No, neanche. Alla protagonista di uno spot su qualcosa di profondo e antico, di
tradizionale e famigliare … ecco: di una passata di pomodori organici. Ma con
la mania dell’igiene dentale.
E
adesso cosa faccio? Me lo sono chiesto. Ovvio. Prima ancora che riuscissi a
rispondermi, però, mi sono accorto di stare sorridendo anche io. E anche il mio
era un sorriso sorriso. Certo, non luminoso come il suo, anche se i denti me li
lavo mattina e sera con lo spazzolino elettrico, ma altrettanto naturale;
spontaneo. Un sorriso come quello che rivolgevo a nonna, quando mi preparava il
pane con zucchero e vino che mi piaceva tanto. A mamma, però, non dovevo dirlo;
temeva che quelle tre gocce tre di Barbera, fossero il primo passo sulla strada
dell’alcolismo. Invece sono praticamente astemio. Bevo solo il venerdì sera,
quando apericeno con un paio di colleghi. Due sfigati peraltro: quaranta e
passa anni e neanche l’ombra di una donna. Anche in quell’occasione, ad ogni
modo, bevo poco e restando nella tradizione. Tre Gin-tonic, massimo quattro.
Qualche volta anche un Martini: mi piacciono la forma dei bicchieri in cui li
servono e le olivette. Forse non è poi così poco, ma tanto non devo guidare; il
bar è a due passi da casa mia. Da casa dei miei, ad essere precisi, ma io vivo
con loro. Per scelta, però, non come quei due. Un appartamento me lo sarei
anche comprato, solo che ho preferito affittarlo e usare quei soldi per la rata
del mutuo. Finisco di pagarlo nel 2027. Speriamo che i tassi non facciano
brutti scherzi. La Lira era quello che era, non c’era un solo fornitore estero che
le accettasse, ma dell’Euro non mi fido. A volte mi chiedo se non avremmo fatto
meglio ad adottare il Franco svizzero. Anzi, avremmo dovuto chiedere di entrare
nella Confederazione Elvetica; di fare dell’Italia, della Germania, della
Francia e degli altri paesi dei nuovi cantoni svizzeri. Certo che se diventiamo
la Svizzera, poi i soldi dove li portiamo?
Ci
risiamo. Sono di nuovo partito per la tangente. Peggio ancora, ho cominciato a
ripetere qui i discorsi che faccio al bar. E ci manca solo quello. I paragoni alcolici,
però, ci stanno. Quel primo scambio di sorrisi, è bastato ad inebriarmi. Non
esagero. Avrei voluto mettermi a
cantare; a ballare sui tavoli. Avrei voluto volare. E mi sentivo capacissimo di
farlo; quasi fossi diventato leggero, leggerissimo. Come se la pesante corazza che la vita mi ha
costretto a mettermi sull’anima si fosse sgretolata. E poi di sorrisi ce ne
sono stai ancora tanti. E sguardi. Sguardi che erano carezze. I miei, ma anche
i suoi. E ancora sorrisi, che valevano come baci. Baci d’amore purissimo. Solo
per un momento, ho pensato di fare del sesso con lei. Ma credo sarebbe accaduto
anche a un santo, se fosse stato al mio posto. E’ stato quando ha mangiato l’involtino
primavera. Ci eravamo già sorrisi almeno un altro paio di volte, per allora. Ha
preso l’involtino con le dita; solo con la punta di quelle sue dite snelle,
lunghe, elegantissime. E le unghie? Di solito non faccio caso alle unghie . Neanche
alle mani, a dire il vero. Le sue però erano così belle. Non so se fossero
laccate, non sono un esperto di queste cose, ma erano tanto perfette e tanto lucenti
da parere perle. Ha sollevato l’involtino e, proprio mentre la stavo guardando,
se lo è portato alla bocca. Lo ha morso, certo. Un morso piccolo piccolo, quasi
avesse paura che il ripieno scottasse. Prima, però, ci ha appoggiato sopra la
lingua. Giuro. E ci ha dato come una leccatina. Ri-giuro. E io quasi mi sono
messo a ululare. Da lì in poi, però, se ho ancora pensato di portarla a letto,
non è stato per scoparla, ma per farci l’amore; per rendere perfetta quella
nostra unione. E poi per farci dei figli. Sì, finiti i won-ton, mangiati quasi
tutti gli spaghetti di riso, sono arrivato ad immaginare di passare con lei
tutto il resto della mia vita.
Assieme
all’ultima coda di gambero, avevo addirittura preso la decisione di alzarmi e
andare da lei. Mi piacciono moltissimo le code di gambero di Hot Wok; andrei lì
solo per quelle. Ed è proprio perché mi piacciono così tanto, che le tengo per
ultime. Facevo così anche da bambino con le ciliegine della Coppa Rica: le
adoravo, quindi le mangiavo solo alla
fine. Che sia una forma di perversione? Un eccesso di voluttà? Eppure a me
sembra così naturale voler prolungare il piacere. E anche quello dell’attesa è
un piacere. Sarei andato da lei, si, a costo di morire fulminato. Non sapevo
cosa le avrei detto, ma dovevo avere il suo
numero di telefono o almeno farle avere il mio: non l’aveva mia vista
prima ed ero sicuro che venisse da fuori città. Una donna in carriera, ne aveva tutta l’aria, venuta da quelle parti
per un appuntamento di lavoro. Forse addirittura una collega, cosa che avrebbe
spiegato quella nostra misteriosa intesa. Ho avuto una visione. Io e lei su una
veranda, al tramonto. Una lieve brezza e una calda luce fulva che tingeva d’indaco
le acque del lago e sfumava di viola le montagne intorno. Il suo profilo, così
meraviglioso da fare di tanta bellezza una semplice cornice. Stavamo lavorando,
confrontando dei dati, ma era come essere in paradiso. Non ho più avuto dubbi, lei era la donna della
mia vita. Anche con Julia Roberts, quella del Rapporto Pelican s’intende, avevo
pensato di fare all’amore, ma neppure con lei avevo mai sognato di spulciare le
cifre del magazzino semi-lavorati. Sì, per quella donna avrei fatto qualunque
cosa. Sarei morto, sarei andato all’inferno. Avrei perfino fatto un altro mutuo
per comprare una casa sul lago.
Mi
sono alzato. Lei deve avere capito le mie intenzioni. Mi ha rivolto un altro sorriso;
questo sì, invitante. I miei timori sono svaniti; ogni mia residua incertezza è
evaporata. Non mi sarei nascosto dietro alla maschera di una qualche scusa. Le avrei
detto semplicemente quello che provavo. Le avrei aperto il mio cuore; glielo
avrei messo, nudo e palpitante, lì sul tavolo. Avrei lasciato che per me parlasse l’amore,
quell’amore da cui mi sentivo completamente invaso e che mi stava stillando da ogni poro. Non,
non avrei soppesato le parole. Per una volta sola nella vita avrei rischiato,
rischiato tutto.
Uso
il condizionale perché, alzandomi, mi è venuto spontaneo dare un’occhiata all’orologio,
come faccio sempre. Il tempo era volato: accidenti, erano già le due e quattro
minuti. E io torno sempre in ufficio alla due in punto. Non ho potuto far altro
che lasciar perdere, salutarla con un ultimo sguardo e andarmene di corsa: l’amore
è l’amore, ma il lavoro è il lavoro. Adesso, però, non riesco a prendere sonno.
Continuo a pensare e ripensare a lei; a quel che c’è stato tra noi e a quel che
tra noi sarebbe potuto accadere. E non riesco a perdonarmi. Ad assolvermi. Sono
stato vigliacco, meschino. Come sempre. Più che mai. Sono scappato, questa è la
verità. E ho fatto anche di peggio: ho pagato con una banconota da venti Euro e
neppure mi sono fermato a prendere il resto. Ho lasciato sei Euro di mancia,
neanche fossi un milionario. E ai cinesi, per giunta.
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