Un capolavoro capace di anticipare un secolo di Storia dell'Arte
Raffaello Sanzio, La Trasfigurazione di Cristo, 1520 Olio su tavola di 278 x 405 cm. Pinacoteca vaticana, Roma |
Era stato il suo studio
o bottega, come si diceva allora. In quel momento, è la sua camera ardente. E’
affollata, come fino a pochi giorni prima, quando lui dipingeva, circondato da
assistenti e allievi.
Loro sono ancora lì, a pregare per lui. Anche tutti gli
altri artisti di Roma stanno arrivando, uno ad uno, per rendergli l’ultimo
omaggio. E con loro, mescolati a loro, vescovi e cardinali: tutta la curia. La notizia della sua morte, si dice, ha fatto
piangere lo stesso Papa. Tutti o quasi, infatti, lo amavano. “Vinti dalla
cortesia e dall’arte sua, ma più dal genio e dalla sua buona natura”, scrive
Vasari. Lo amano, anzi. Uno così, non muore mai davvero; continua a vivere nei
ricordi e nelle opere che lascia dietro. Solo il corpo smette di funzionare. Resta
lì, come il suo ora, ricomposto a guardare lassù. Il soffitto, poi il cielo,
poi … . Alle sue spalle, appoggiato ad una parete, il suo ultimo dipinto. Gli altri “artefici” riferisce sempre Vasari, pensano
che “questa opera, tra tante che egli ne fece, sia la più celebrata, la più
bella e la più divina”. Così bella che “nel vedere il corpo morto e quella (l’opera)
viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”.
Lui certo avrebbe voluto
fosse il proprio capolavoro: il capo del suo lavoro fin lì; la somma di quel che aveva appreso da quando aveva preso
iniziato a dipingere. E aveva cominciato ancora bambino. Inevitabile, era
pittore già suo padre: Giovanni Santi, tanto bravo da essere chiamato alla
corte di Urbino. La città, piccola e raffinata capitale, in cui lui è nato. Il
palazzo frequentando il quale è cresciuto. Dove ha acquisito i modi
che lo hanno reso celebre quanto la sua arte (Avete presente il
Corteggiano? Baldassare Castiglione, in quegli anni era pure lui ospite di Guidobaldo
da Montefeltro). Dove ha potuto vedere
ogni giorno i lavori di Piero, del Pollaiolo, di Francesco di Giorgio Martini e
di Melozzo. Sì, ad Urbino. Perché quello che giace circondato da ceri, affetti
e pianti è l’urbinate per eccellenza: Raffaello, il principe dei pittori che “non
visse da pittore, ma da principe”. Una vita, però, troppo breve. Ha appena
compiuto trentasette anni. Lo ha ucciso una febbre, per di più curata a forza
di salassi. Vasari, è sicuro che la contrasse perché “continuando così fuor di
modo i piaceri amorosi, avvenne ch'una volta fra l'altre disordinò più del
solito”. Mah. Quali ne fossero le cause,
una malattia fulminante. Tanto che, secondo la tradizione, ebbe a malapena il
tempo di dare gli ultimi tocchi al volto del Cristo, ma, nonostante quel che
afferma Vasari, non quello di “ricondurre ad ultima perfezzione” il quadro.
E dire che a quell’opera
aveva lavorato, certo non con continuità, occupandosi anche d’altre commesse, per
quattro anni. Centinaia di ore, anzi migliaia, passate a pensare e ripensare, schizzare
e rifare schizzi, prima ancora di dare una pennellata. Perché tanta sofferenza?
Per molte ragioni. Il tema del dipinto, per cominciare, la Trasfigurazione, non era certo dei più semplici. Come rendere la sfolgorante
manifestazione della divinità di Cristo? Poi, ma questa è la mia opinione, di
uomo che c’è passato, lui era arrivato
quell’età. Era, o poteva pensare d’essere,
“nel mezzo del cammin di nostra vita”. Ci si perda o no in qualche selva oscura,
un momento di bilanci e di decisioni che già sanno di definitivo. A rendere
quella tavola tanto importante e difficile per Raffaello, però, è stato soprattutto
il confronto con l’altro. L’alto grande, l’altro sommo: Michelangelo.
Era più vecchio di lui
di otto anni e aveva un carattere esattamente opposto al suo, indisponente,
scontroso, e scorbutico, ma era anche almeno altrettanto talentuoso. Raffaello,
a dire il vero, lo aveva sempre ammirato. Lo aveva addirittura omaggiato, ritraendolo
come Eraclito nella Scuola di Atene. Anche
i geni, guardano a qualcuno. Morto il padre, ma forse già da prima, Raffaello ha
affinato il mestiere Perugino. Poi ha
continuato a studiare, ad aggiornarsi. L’artista che più lo ha influenzato? Con
il suo sfumato, e non solo, certo Leonardo.
Subito dopo, proprio Michelangelo. Si ispira apertamente a lui nell’Incendio del Borgo, uno degli affreschi
nelle Stanze Vaticane. Un altro suo affresco, completato poco prima,
il Profeta Isaia nella chiesa di Sant’Agostino,
sembra arrivare dritto dritto dal soffitto della Cappella Sistina. Michelangelo, che di Raffello arriverà a scrivere
“ciò che aveva dell'arte, l'aveva da me”, inizialmente ne è stato lusingato. Lo scultore, però, ha il caratteraccio che abbiamo detto e non ci
mette molto a pensare che Roma, dove Raffaello era arrivato nel 1509, sia troppo
piccola per tutti e due. In più, pare
che a mettere zizzania tra loro ci sia Bramante, conterraneo di Raffaello e spesso
in competizione con Michelangelo, se non per le stesse commesse, perlomeno per
gli stessi denari papali. Insomma, ben presto tra Michelangelo e Raffaello, se
non è guerra aperta, poco ci manca. Non solo, tutta Roma, quella che si occupa
o interessa d’arte, si divide in due fazioni, parteggiando per uno o l’altro.
In città c’è anche
Giulio de’ Medici. Diventerà Clemente VII, ma al momento è solo un cardinale.
Solo, si fa per dire: Cugino di Leone X, ha un elenco telefonico di titoli
ecclesiastici tra cui, dal 1515, quello di arcivescovo di Narbonne. Nel 1516 o
nei primi mesi dell’anno seguente, è lui ad avere ha l’idea di rimettere in
competizione i due, che già si erano confrontanti nelle Stanze e nella Sistina.
Per la cattedrale di Narbonne, commissiona due dipinti, circa delle stesse
dimensioni. Uno, appunto La Trasfigurazione,
a Raffaello; l’altro, la Resurrezione di
Lazzaro, dopo aver provato ad affidarlo a Michelangelo, che però di tornare
alla “femminea” pittura non vuol saperne, lo assegna a Sebastiano del Piombo,
che di Michelangelo è grande amico.
Pronti, partenza, via.
Nell’ottobre 1518, Sebastiano del Piombo, cui Michelangelo ha fornito i disegni
almeno per la figura di Lazzaro, ha già finito. Raffaello, non ha ancora
cominciato a dipingere. Ha solo fatto degli schizzi. Un disegno, conservato all’Albertina, mostra che, almeno inizialmente,
pensava ad una composizione tutto sommato tradizionale. Poi vede il quadro del
rivale e, quali che siano le motivazioni, finisce per fare tutt’altro.
Dipinge quella pala che
commuove fino alle lacrime chi lo sta vegliando e continua, cinque secoli dopo,
a lasciare a bocca aperta anche noi, pur viziati da troppe immagini, quando
abbiamo la fortuna di vederla nella Pinacoteca
vaticana.
Prima c’è la luce, là
in alto. E’ quella che attira il nostro sguardo. Illumina Cristo, che si libra
nell’aria, e le due figure che gli stanno accanto, i profeti Mosè ed Elia. Sotto
di loro, sulla sommità del Monte Tabor, Pietro, Giovanni e Giacomo si sono gettati a
terra come per cercare riparo. E’ la Trasfigurazione, come raccontata nei Vangeli
di Marco e Matteo. Un meraviglioso brano di pittura. E’ ineffabile, ad un tempo
dolce e maestosa, l’espressione di Cristo; ultraterrena l’atmosfera che il
pittore che ha reso con finezza di tocco e perizia tecnica straordinarie. Il
tutto è sublime, eppure, nonostante i rimandi michelangioleschi nella figura di
Cristo, e l’energia del vento impetuoso che sembra provenire da quelle nubi e
schiacciare gli apostoli, “banalmente raffaellesco”. Parole di cui già mi
pento. Intendo solo dire opera del Raffaello di cui tutti ricordiamo le Madonne
e che potevamo certo supporre capace di qualcosa di simile. Una scena tutta
contenuta dentro una piramide luminosa che, pure, occupa solo la parte superiore
del dipinto. Le pareti della montagna, infatti, sono in ombra e, con la loro
massa scura, fanno da fondale alla rappresentazione di un episodio di carattere
completamente diverso. Sono ancora Marco e Matteo a narrarlo, subito dopo la
Trasfigurazione: un posseduto, oggi diremmo un epilettico, è presentato agli
apostoli perché lo liberino del suo male, ma, in assenza del Maestro, i
discepoli non possono fare nulla. Una scena affollata, animata, agitata.
Drammatica. Quella che Raffaello sembra abbia deciso di inserire solo dopo aver
visto il dipinto di Sebastiano del Piombo, quasi a voler sfidare lui e Michelangelo
sul loro stesso terreno. La illumina un luce diversa. E’ quella della luna che vediamo
riflessa in una pozza, nell’angolo inferiore destro del dipinto (si credeva, a
quel tempo, che la luna scatenasse le crisi epilettiche). Una luce fredda che
staglia, in un chiaroscuro tanto forte da parere, oddio oddio, quasi
caravaggesco, figure dalla solidità scultorea; definite con un vigore che in
Raffello è nuovo. Diversi sono anche i colori. Non squillano come quelli che
saranno di Pontormo, ma sono già vivaci, e tanto difficili da combinare con
successo, come quelli che ritroveremo nella tavolozze manieriste. E manieriste,
sono già le posture dei personaggi. Prima tra tutte, esempio canonico di figura serpentinata, con le membra in
direzioni contrapposte, quella della donna inginocchiata che con il rosa freddo
della sua tunica fa da ponte visivo tra il gruppo degli apostoli e quello del
posseduto e dei suoi familiari. Familiari e apostoli suoi cui volti si legge il
dramma del momento, espresso con intensità che pare … sì, barocca. E anche il
realismo che cui è ritratto l’epilettico, con gli occhi rivoltati e il corpo
teso in uno spasimo, pare barocco. Non esagero: in questa seconda scena Raffello, oltre a riassumere la cultura visiva
del suo tempo, già prefigura gli sviluppi dell’arte per almeno un altro secolo.
Certo: come può fare solo un genio che si impegni nel realizzare, appunto, la propria opera maestra.
Un capolavoro che non
raggiunse mai Narbonne. “Per la perdita di Raffaello”, lasciamo che torni a
narrare Vasari, la tavola “fu messa dal cardinale a San Pietro a Montorio, allo
altar maggiore; e fu poi sempre per la rarità d’ogni suo gesto in gran pregio
tenuta”.
Nel corso di solenni
funerali cui partecipò tutta Roma, “che non fu niuno artefice che dolendosi non
piagnesse”, Raffello uscì per l’ultima volta dalla propria bottega per essere
deposto nel Pantheon, dentro un sarcofago di marmo. Vi è inciso, come epitaffio, un distico composto da Pietro Bembo:
“Ille hic est Raphael timuit quo sospite
vinci, rerum magna parens et moriente mori”. Qui giace Raffaello: da lui,
quando visse, la natura temette d'essere vinta, ora che egli è morto, teme di
morire.
P.S. La differenza
anche di modi pittorici, tra le due scene chi vi sono rappresentate, ha fatto dubitare che fossero stati altri, e
in particolare Giulio Romano, amico ed erede di Raffaello, a completare il
quadro a quel modo. Grazie ad una accurata ripulitura dell’opera, compiuta
negli anni ‘70, sappiamo che le cose non stanno cosi. Ci sono stati sì degli
aiuti della bottega, probabilmente quando il Maestro era ancora vivo, ma solo in
alcune figure dello sfondo. Pochissimi, e limitati all’angolo inferiore
sinistro del dipinto, sono anche gli interventi che potrebbero essere
posteriori alla sua morte. Insomma, La
Trasfigurazione è davvero tutta, o quasi, della mano di Raffaello. Del
vecchio Vasari, forse, dovremmo fidarci di più.
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