venerdì 13 marzo 2015

RAFFAELLO, LA TRASFIGURAZIONE DI CRISTO

Un capolavoro capace di anticipare un secolo di Storia dell'Arte


Raffaello Sanzio, La Trasfigurazione di Cristo, 1520
Olio su tavola di 278 x 405 cm. Pinacoteca vaticana, Roma


Era stato il suo studio o bottega, come si diceva allora. In quel momento, è la sua camera ardente. E’ affollata, come fino a pochi giorni prima, quando lui dipingeva, circondato da assistenti e allievi. 


Loro sono ancora lì, a pregare per lui. Anche tutti gli altri artisti di Roma stanno arrivando, uno ad uno, per rendergli l’ultimo omaggio. E con loro, mescolati a loro, vescovi e cardinali: tutta la curia.  La notizia della sua morte, si dice, ha fatto piangere lo stesso Papa. Tutti o quasi, infatti, lo amavano. “Vinti dalla cortesia e dall’arte sua, ma più dal genio e dalla sua buona natura”, scrive Vasari. Lo amano, anzi. Uno così, non muore mai davvero; continua a vivere nei ricordi e nelle opere che lascia dietro. Solo il corpo smette di funzionare. Resta lì, come il suo ora, ricomposto a guardare lassù. Il soffitto, poi il cielo, poi … . Alle sue spalle, appoggiato ad una parete, il suo ultimo dipinto.  Gli altri “artefici” riferisce sempre Vasari, pensano che “questa opera, tra tante che egli ne fece, sia la più celebrata, la più bella e la più divina”.  Così bella  che “nel vedere il corpo morto e quella (l’opera) viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”.
Lui certo avrebbe voluto fosse il proprio capolavoro: il capo del suo lavoro fin lì; la somma di  quel che aveva appreso da quando aveva preso iniziato a dipingere. E aveva cominciato ancora bambino. Inevitabile, era pittore già suo padre: Giovanni Santi, tanto bravo da essere chiamato alla corte di Urbino. La città, piccola e raffinata capitale, in cui lui è nato. Il palazzo frequentando il quale è cresciuto. Dove ha acquisito  i modi  che lo hanno reso celebre quanto la sua arte (Avete presente il Corteggiano? Baldassare Castiglione, in quegli anni era pure lui ospite di Guidobaldo da Montefeltro).  Dove ha potuto vedere ogni giorno i lavori di Piero, del Pollaiolo, di Francesco di Giorgio Martini e di Melozzo. Sì, ad Urbino. Perché quello che giace circondato da ceri, affetti e pianti è l’urbinate per eccellenza:  Raffaello, il principe dei pittori che “non visse da pittore, ma da principe”. Una vita, però, troppo breve. Ha appena compiuto trentasette anni. Lo ha ucciso una febbre, per di più curata a forza di salassi. Vasari, è sicuro che la contrasse perché “continuando così fuor di modo i piaceri amorosi, avvenne ch'una volta fra l'altre disordinò più del solito”.  Mah. Quali ne fossero le cause, una malattia fulminante. Tanto che, secondo la tradizione, ebbe a malapena il tempo di dare gli ultimi tocchi al volto del Cristo, ma, nonostante quel che afferma Vasari, non quello di “ricondurre ad ultima perfezzione” il quadro.
E dire che a quell’opera aveva lavorato, certo non con continuità, occupandosi anche d’altre commesse, per quattro anni. Centinaia di ore, anzi migliaia, passate a pensare e ripensare, schizzare e rifare schizzi, prima ancora di dare una pennellata. Perché tanta sofferenza? Per molte ragioni. Il tema del dipinto, per cominciare, la Trasfigurazione, non era certo dei più semplici. Come rendere la sfolgorante manifestazione della divinità di Cristo? Poi, ma questa è la mia opinione, di uomo che c’è passato,  lui era arrivato quell’età.  Era, o poteva pensare d’essere, “nel mezzo del cammin di nostra vita”. Ci si perda o no in qualche selva oscura, un momento di bilanci e di decisioni che già sanno di definitivo. A rendere quella tavola tanto importante e difficile per Raffaello, però, è stato soprattutto il confronto con l’altro. L’alto grande, l’altro sommo: Michelangelo.
Era più vecchio di lui di otto anni e aveva un carattere esattamente opposto al suo, indisponente, scontroso, e scorbutico, ma era anche almeno altrettanto talentuoso. Raffaello, a dire il vero, lo aveva sempre ammirato. Lo aveva addirittura omaggiato, ritraendolo come Eraclito nella Scuola di Atene. Anche i geni, guardano a qualcuno. Morto il padre, ma forse già da prima, Raffaello ha affinato il mestiere Perugino. Poi  ha continuato a studiare, ad aggiornarsi. L’artista che più lo ha influenzato? Con il suo sfumato, e non solo, certo Leonardo.  Subito dopo, proprio Michelangelo. Si ispira apertamente a lui nell’Incendio del Borgo, uno degli affreschi nelle Stanze Vaticane.  Un altro suo affresco, completato poco prima, il Profeta Isaia nella chiesa di Sant’Agostino, sembra arrivare dritto dritto dal soffitto della Cappella Sistina. Michelangelo, che di Raffello arriverà a scrivere “ciò che aveva dell'arte, l'aveva da me”, inizialmente ne è stato lusingato.  Lo scultore, però,  ha il caratteraccio che abbiamo detto e non ci mette molto a pensare che Roma, dove Raffaello era arrivato nel 1509, sia troppo piccola per tutti e due.  In più, pare che a mettere zizzania tra loro ci sia Bramante, conterraneo di Raffaello e spesso in competizione con Michelangelo, se non per le stesse commesse, perlomeno per gli stessi denari papali. Insomma, ben presto tra Michelangelo e Raffaello, se non è guerra aperta, poco ci manca. Non solo, tutta Roma, quella che si occupa o interessa d’arte, si divide in due fazioni, parteggiando per uno o l’altro.
In città c’è anche Giulio de’ Medici. Diventerà Clemente VII, ma al momento è solo un cardinale. Solo, si fa per dire: Cugino di Leone X, ha un elenco telefonico di titoli ecclesiastici tra cui, dal 1515, quello di arcivescovo di Narbonne. Nel 1516 o nei primi mesi dell’anno seguente, è lui ad avere ha l’idea di rimettere in competizione i due, che già si erano confrontanti nelle Stanze e nella Sistina. Per la cattedrale di Narbonne, commissiona due dipinti, circa delle stesse dimensioni. Uno, appunto La Trasfigurazione, a Raffaello; l’altro, la Resurrezione di Lazzaro, dopo aver provato ad affidarlo a Michelangelo, che però di tornare alla “femminea” pittura non vuol saperne, lo assegna a Sebastiano del Piombo, che di Michelangelo è grande amico.
Pronti, partenza, via. Nell’ottobre 1518, Sebastiano del Piombo, cui Michelangelo ha fornito i disegni almeno per la figura di Lazzaro, ha già finito. Raffaello, non ha ancora cominciato a dipingere. Ha solo fatto degli schizzi. Un disegno, conservato all’Albertina, mostra che, almeno inizialmente, pensava ad una composizione tutto sommato tradizionale. Poi vede il quadro del rivale e, quali che siano le motivazioni, finisce per fare tutt’altro.
Dipinge quella pala che commuove fino alle lacrime chi lo sta vegliando e continua, cinque secoli dopo, a lasciare a bocca aperta anche noi, pur viziati da troppe immagini, quando abbiamo la fortuna di vederla nella Pinacoteca vaticana.
Prima c’è la luce, là in alto. E’ quella che attira il nostro sguardo. Illumina Cristo, che si libra nell’aria, e le due figure che gli stanno accanto, i profeti Mosè ed Elia. Sotto di loro, sulla sommità del Monte Tabor,  Pietro, Giovanni e Giacomo si sono gettati a terra come per cercare riparo. E’ la Trasfigurazione, come raccontata nei Vangeli di Marco e Matteo. Un meraviglioso brano di pittura. E’ ineffabile, ad un tempo dolce e maestosa, l’espressione di Cristo; ultraterrena l’atmosfera che il pittore che ha reso con finezza di tocco e perizia tecnica straordinarie. Il tutto è sublime, eppure, nonostante i rimandi michelangioleschi nella figura di Cristo, e l’energia del vento impetuoso che sembra provenire da quelle nubi e schiacciare gli apostoli, “banalmente raffaellesco”. Parole di cui già mi pento. Intendo solo dire opera del Raffaello di cui tutti ricordiamo le Madonne e che potevamo certo supporre capace di qualcosa di simile. Una scena tutta contenuta dentro una piramide luminosa che, pure, occupa solo la parte superiore del dipinto. Le pareti della montagna, infatti, sono in ombra e, con la loro massa scura, fanno da fondale alla rappresentazione di un episodio di carattere completamente diverso. Sono ancora Marco e Matteo a narrarlo, subito dopo la Trasfigurazione: un posseduto, oggi diremmo un epilettico, è presentato agli apostoli perché lo liberino del suo male, ma, in assenza del Maestro, i discepoli non possono fare nulla. Una scena affollata, animata, agitata. Drammatica. Quella che Raffaello sembra abbia deciso di inserire solo dopo aver visto il dipinto di Sebastiano del Piombo, quasi a voler sfidare lui e Michelangelo sul loro stesso terreno. La illumina un luce diversa. E’ quella della luna che vediamo riflessa in una pozza, nell’angolo inferiore destro del dipinto (si credeva, a quel tempo, che la luna scatenasse le crisi epilettiche). Una luce fredda che staglia, in un chiaroscuro tanto forte da parere, oddio oddio, quasi caravaggesco, figure dalla solidità scultorea; definite con un vigore che in Raffello è nuovo. Diversi sono anche i colori. Non squillano come quelli che saranno di Pontormo, ma sono già vivaci, e tanto difficili da combinare con successo, come quelli che ritroveremo nella tavolozze manieriste. E manieriste, sono già le posture dei personaggi. Prima tra tutte, esempio canonico di figura serpentinata, con le membra in direzioni contrapposte, quella della donna inginocchiata che con il rosa freddo della sua tunica fa da ponte visivo tra il gruppo degli apostoli e quello del posseduto e dei suoi familiari. Familiari e apostoli suoi cui volti si legge il dramma del momento, espresso con intensità che pare … sì, barocca. E anche il realismo che cui è ritratto l’epilettico, con gli occhi rivoltati e il corpo teso in uno spasimo, pare barocco. Non esagero: in questa seconda scena  Raffello, oltre a riassumere la cultura visiva del suo tempo, già prefigura gli sviluppi dell’arte per almeno un altro secolo. Certo: come può fare solo un genio che si impegni nel realizzare, appunto,  la propria opera maestra.
Un capolavoro che non raggiunse mai Narbonne. “Per la perdita di Raffaello”, lasciamo che torni a narrare Vasari, la tavola “fu messa dal cardinale a San Pietro a Montorio, allo altar maggiore; e fu poi sempre per la rarità d’ogni suo gesto in gran pregio tenuta”. 
Nel corso di solenni funerali cui partecipò tutta Roma, “che non fu niuno artefice che dolendosi non piagnesse”, Raffello uscì per l’ultima volta dalla propria bottega per essere deposto nel Pantheon, dentro un sarcofago di marmo. Vi è inciso, come   epitaffio, un distico composto da Pietro Bembo: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori”. Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d'essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire.


P.S. La differenza anche di modi pittorici, tra le due scene chi vi sono rappresentate,  ha fatto dubitare che fossero stati altri, e in particolare Giulio Romano, amico ed erede di Raffaello, a completare il quadro a quel modo. Grazie ad una accurata ripulitura dell’opera, compiuta negli anni ‘70, sappiamo che le cose non stanno cosi. Ci sono stati sì degli aiuti della bottega, probabilmente quando il Maestro era ancora vivo, ma solo in alcune figure dello sfondo. Pochissimi, e limitati all’angolo inferiore sinistro del dipinto, sono anche gli interventi che potrebbero essere posteriori alla sua morte. Insomma, La Trasfigurazione è davvero tutta, o quasi, della mano di Raffaello. Del vecchio Vasari, forse, dovremmo fidarci di più.

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