Un martedì da carnefice
Di Schüler, Sguardo blu. Acrilico su tela preparata, 70 x100 cm Milano, collezione privata. |
La città dista centoventi chilometri almeno da qui, e non mi piace. Non solo quella; nessuna città mi piace. L’ultima volta che mi è capitato di andarci, ad ogni modo, è stato in un giorno di pioggia battente e di un umore, il mio, più grigio del cielo grigio della Galizia in novembre, anche se ormai era dicembre.
Un giorno in cui mi
sarebbe piaciuto restamene a casa, insomma. E lo avrei fatto, se non
avessi dovuto ritirare un computer che
avevo lasciato, la settimana prima, perché fosse guarito da uno di quei virus
che i computer promiscui come il mio contraggono da altri computer ancor più
promiscui.
Per peggiorare le cose,
ho trovato un posto, nell'autorimessa sotterranea
proprio davanti al porto, solo dopo una
ricerca durata un buon quarto d’ora, .
E dire che per solito
non c’è mai nessuno: chissà perché tutti si sentono in dovere di usare l’auto
nei giorni di pioggia?
Mi sono avviato su
verso Calle Real. Intorno a me, sotto agli ombrelli, le solite facce da città e
da lunedì di pioggia, anche se era martedì.
Il negozio l’ho trovato
subito; certo che ci vuole proprio un gusto perverso per mettere un neon rosa, Tienda Informatica, a due passi da dove Picasso
tenne la sua prima mostra. Non c’è più rispetto, di questi tempi.
Sono entrato e ho
rivolto un grugnito alla ragazza dietro al bancone; una specie di buongiorno
che voleva dire tutt'altro.
Lai stava parlando al
telefonino; dai sorrisetti che faceva e dagli squittii che le scappavano dalle
labbra, doveva essere una di quelle conversazioni che io al telefonino non ho
fatto mai, perché non c’erano telefonini quando avevo l’età per fare una di
quelle conversazioni.
Ho ripetuto il mio
grugnito più forte, accompagnandolo da un colpo di tosse; con gli anni sono
riuscito a modulare i miei grugniti fino a farli diventare cupi e minacciosi
come quelli di una bestia selvatica, forse un cinghiale oppure un orso (non è che mi sia mai impegnato a seguire un
modello).
La ragazza, avrà avuto
vent'anni scarsi, ha mormorato due parole frettolose a bassa voce, ha chiuso il
telefonino e si è rivolta a me: sorrideva ancora.
Le ho chiesto del mio
computer e lei, come se ci fosse qualcosa di più importante nella sua vita, non
mi ha saputo dire subito se era pronto, come mi avevano promesso, o meno: è
andata a chiedere a qualcuno nel retrobottega accompagnata da un mio sguardo
carico di disprezzo.
Disprezzo per cosa
esattamente? Non è che c’è bisogno di un motivo vero per disprezzare, in un
giorno così: si disprezza e basta.
Sorrideva ancora,
spudoratamente, quando mi ha detto che avrei dovuto aspettare un’altra
mezz'ora; l’informatico, immagino un qualche occhialuto studentello con tre
peli di barba e l’aria da sfigato, aveva quasi finito.
Sono uscito sbattendo
la porta (non proprio, era una di quelle automatiche che usano adesso, ma si
capiva benissimo che se si fosse stata una porta vera l’avrei sbattuta) e me ne
sono andato al bar di fianco.
Ho ordinato un caffè.
Il barista, un altro ragazzino incompetente, me lo ha fatto talmente lungo che
non l’avrebbe bevuto neanche uno spagnolo; beh, magari uno spagnolo sì, ma io
sono italiano. Ho protestato e gliel'ho fatto rifare. Andava quasi bene ma non
mi è sembrato il caso di fargli dei complimenti: se uno vuol fare il barista,
il caffè deve saperlo fare. Ho pagato un euro e quindici, contati, senza
lasciare mancia, che magari si usa ma io, in un giorno così, e per un caffè
come quello, mance non ne do.
La ragazza mi aspettava
ancora sorridente; il mio computer era lì, di fianco a lei, sul bancone.
Stavolta non ho neppure grugnito: non è che uno può passare il giorno a
salutare.
Lei invece mi ha
risalutato, mi ha ri-sorriso e mi ha presentato il conto: cent’ e passa euro.
Ho subito protestato: d’informatica non ne capisco niente, ma sopra ai
settanta, avevo già deciso prima, mentre la pioggia continuava a piovere, avrei
protestato.
Lei mi ha spiegato,
tutta gentile, che avevano dovuto cambiare non so che pezzo; io le ho detto che
quello non era il modo di lavorare, che quello non era il modo di servire un
cliente, che tutto il tempo che avevo perso con loro, branco di evidenti
incompetenti, non me lo avrebbe ripagato nessuno.
Alla fine ho pagato,
perché io alla fine pago sempre, e senza neanche chiedere lo sconto.
Lei i miei soldi li ha
presi, ma non sorrideva più.
Stavo per uscire quando
mi sono ricordato che la pioggia pioveva; sono tornato sui miei passi, ho
rimesso il computer sul bancone, e ho detto alla ragazza che appunto, pioveva.
Mentre io le spiegavo,
quasi gentilmente, quasi, che un professionista deve stare attento ai dettagli,
lei si è data da fare: ha recuperato un foglio di plastica, l’ha avvolto
intorno al computer e l’ha fermato con delle lunghe strisce di un largo nastro
adesivo marron.
Aveva lavorato
nervosamente però, come se qualcuno le avesse messo fretta, e le strisce erano
appiccate tutte storte. Non che fosse importante, vero, ma anche l’occhio, come
si dice, vuole la sua parte. Lavorare in un negozio, e non sapere neanche
confezionare un pacco … ma come si fa? Gliel'ho detto, a mo' di commiato.
Quando me ne sono
andato, lei stava per piangere.
feroce
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