Sono due
straordinari brani di pittura, ma sono pure solo dettagli di due capolavori che
certo conoscerete tutti benissimo; solo particolari dentro rappresentazioni di
mondi, prima ancora che di interni, tanto ricche e complesse da essersi
meritate interi volumi, scritti, oltre che dagli storici dell'arte, da
economisti e da sociologi.
Un'attenzione
meritata. Bastano infatti quelle arance, lasciate in modo apparentemente
casuale sul davanzale, e accanto alla finestra, per raccontarci delle rete
internazionale di commerci che doveva fare capo alla Bruges in cui vivevano il
mercante toscano e la sua signora. Gli inchini e le genuflessioni delle
damigelle, a fianco dell'infanta Margarita, costretta ad apparire freddamente
regale nonostante avesse solo cinque anni, possono poi benissimo fare da spunto
ad una riflessione sulle condizioni di una corona spagnola cui, a metà
seicento, restavano il cerimoniale, la pompa, e già ben poco d'altro. Si, i
quadri di cui vi sto parlando sono I coniugi Arnolfini e Las Meninas.
Quelli che vi invito ad osservare di nuovo assieme a me, sono gli specchi appesi
alle pareti che ne delimitano le “scenografie”.
Velázquez, che completò Las Meninas, oggi al Prado,
nel 1656, potrebbe benissimo aver pensato di mettere là il suo, proprio dopo
aver osservato quello dipinto da Van Eyck nel 1434. Il Maestro spagnolo, per
guadagnarsi l'appannaggio concessogli da Filippo IV ricopriva anche l'incarico
di conservatore delle collezioni reali e pare che a queste, in quel periodo,
appartenesse anche il ritratto dei coniugi toscani.
Questo non toglie nulla alla sua genialità. E poi è un pittore troppo diverso da fiammingo per dovergli, e solo eventualmente, qualcosa più che l'idea iniziale. Diverso per epoca, cultura, ambiente sociale proprio e, soprattutto, della propria committenza. Diverso, in questo caso soprattutto, dal punto di vista tecnico. Van Eyck è un miniaturista eccelso e uno straordinario maestro della velature; della sovrapposizione di infiniti quasi trasparenti strati di colore. Velázquez dipinge a corpo, come i moderni, affiancando i colori direttamente sulla tela e sfumandoli poi. Soprattutto è capace di creare luci e ombre, masse e contrasti, con relativamente poche, decise e saettanti, tracce di colore. Appartiene alla genia, speciale e rarissima, dei grandi della pittura a pennello carico. Come lui, solo pochissimi. Il Tiziano o il Rembrandt della maturità, per capirci, o Goya, per restare in Spagna, o, per venire a tempi più vicini ai nostri, Van Gogh. Ed è con questa economia di tratti che, dipingendo quello specchio, riesce a completare una narrazione e a produrre una magia.
La protagonista de Las Meninas è certamente l'Infanta. E' lei a cogliere subito il nostro occhio, in centro alla scena, illuminata da una luce quasi messianica (beh, in quel momento era l'unica figlia dei sovrani…). Attorno a lei le nobilissime dame di compagnia, appunto le meninas; sulle sinistra del dipinto, una celebre nana di corte, la tedesca María Bárbara Asquín, un cane e un altro nano, di cui pure conosciamo in nome: Nicola Pertusato. Riconosceremmo, se frequentassimo la corte, anche l'uomo che osserva la scena da quella porta aperta là in fondo, il cui riquadro luminoso attira il nostro sguardo: è il ciambellano Josè Nieto. E poi c'è lui. In piedi, sulla desta del quadro, Diego Rodríguez de Silva y Velázquez sta dipingendo una grande tela. Stava dipingendo, anzi. Il suo pennello è fermo a mezz'aria. Il suo sguardo acuto si punta su qualcuno. Chi? La risposta ce la dà lo specchio. Sfumati, immersi in un'atmosfera oscura in cui solo intravediamo l'angolo di un panneggio, dipinti con rapidi tocchi di un pennello dalle setole dure, vi sono riflessi il re, Filippo IV, e la sua sposa Marianna d'Austria. Sono appena arrivati? Sono lì da molto ad osservare il lavoro del pittore? Stanno addirittura posando per quella grande tela? Questo non lo possiamo sapere. Per certo, se noi siamo davanti al quadro, sono dietro di noi. Sì, questo è il prodigio di quello specchio: dilata lo spazio della rappresentazione fino a comprendere il nostro, di spettatori; fino ad includerci. Non dobbiamo operare alcuna sospensione dell'incredulità; ci basta lasciarci trasportare dalla narrazione pittorica e usare il nostro raziocinio, per arrivare a concludere che in quel grande locale, da qualche parte nell'oscurità tra il pittore e la coppia regale, ci siamo anche noi.
- Jan van Eyck. I coniugi Arnolfini. Particolare.
Anche lo specchio dipinto da Van Eyck narra. E' una costosa rarità, per quell'epoca. Gli specchi piani sono preziosissimi, perché ancora non si è scoperto un modo affidabile di produrli, ma anche quelli convessi come questo sono alla portata di pochi. Assieme al ricco tappeto, arrivato fin lì dalla lontana Anatolia, al candeliere di ottone lucente e a mille altri dettagli, ci dice quanto floridi dovessero essere gli affari di Giovanni Arnolfini e quanto agiata la vita che conduceva (o avrebbe condotto) al sua fianco la sua sposa, o premessa tale, Giovanna Cenami. E anche questo specchio è magico. Per capirlo appieno dovremmo avere la fortuna di andare a Londra, alla National Gallery, dove I coniugi Arnolfini è conservato. Possiamo però intuirlo ricordando che il dipinto misura solo sessanta centimetri per ottanta e che quello specchio non ha un diametro superiore ai cinque centimetri. Pochi? Nella sua sola cornice, Van Eyck ha dipinto, perfettamente riconoscibili, dieci episodi della passione di Cristo. Un miracolo, appunto, compiuto da una mano di sovrumana fermezza. La stessa che con pennelli straordinariamente morbidi e sottili, ed oli e pigmenti di meravigliosa finezza, ha dipinto, riflesso nello specchio, ogni minuto dettaglio della mezza stanza che i coniugi hanno di fronte: dalle schiene dei due che si danno la mano, al pittore al lavoro, oltre la porta aperta, che è lì a testimoniare quel loro scambio di promesse. Si possono addirittura contare le travi del soffitto.
Come e più di quello di Velázquez dunque, quello specchio amplia lo spazio pittorico oltre i suoi normali limiti; ci mostra anche quel che altrimenti non potremmo osservare. Ma viola, come quello de Las Meninas, le regole del gioco? Arriva ad includere anche noi? No. Potevamo pensare d'essere là, nel buio, accanto a Filippo IV e Marianna. Sappiamo con certezza di non essere stati con Giovanni e la sua sposa. Di quella stanza Van Eyck ci ha detto proprio tutto: anche che noi non c'eravamo.
Cosa ricavare da tutto questo? Una specie di metafora pittorica del principio di Heisenberg? Un monito sul rischio d'essere ridotti a meri spettatori da un flusso travolgente d'informazioni? Non mi è chiaro. Solo mi restano, ma forse è questo che cerco nell'arte, un certo turbamento e una vaga inquietudine.
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