Conobbi Leonardo Sciascia quando, durante un cineforum organizzato nel cinema parrocchiale dietro casa, proiettarono Il giorno della civetta; il film tratto dall’omonimo romanzo dell’autore siciliano e diretto da Damiano Damiani.
Mi piacque il film, bello come i migliori western (credo avessi tredici o quattordici anni e quelli erano i film che mi
piacevano allora) e mi piacque, soprattutto, la bellissima
Claudia Cardinale. Me ne innamorai, ma, forse perché avevo
troppi brufoli, tra noi poi non vi fu nulla.
Incontrai di nuovo Sciascia un decennio dopo, in
libreria; lo stesso Il giorno della civetta, edito da Einaudi (l’ho ripreso in mano per scrivere questa nota) che comprai, lo
ammetto, solo nella speranza di rivedervi, almeno con la
mia fantasia, gli occhi della bella Claudia che non fu mai mia.
Lessi il romanzo, con la voracità di allora, nello
spazio di un fine settimana.
Mi sorprese innanzitutto l’italiano di Sciascia;
diretto, rispettoso della parola e del suo peso. Ritrovai il mio
amato Hemingway in quel suo periodare scarno eppure così
attento ai ritmi del racconto; così diverso – fu una sorpresa,
almeno per me - da quello di tanti narratori italiani, non solo di
quegli anni, che, innamorati delle proprie parole, spesso dimenticano
quale sia il loro scopo. Ancora di più mi piacque il sapore di
Sicilia (il sapore che amo, anche oggi, trovare nei romanzi di
Camilleri)della lingua che Sciascia mette in bocca ai personaggi
del suo romanzo; in particolare a quelli minori, vivissimi, che
contribuiscono a fare de Il giorno della civetta, prima che un
giallo, un grande affresco di realismo sociale.
Chiusi il libro lasciando Claudia – la vedova
Nicolosi, la testimone chiave dell’inchiesta – inguaiata con
un’accusa d’omicidio e con una strana sensazione addosso; una
sottile angoscia, un senso d’oppressione, che il film, forse per la
mia giovane età quando lo vidi per la prima volta, aveva mancato di
trasmettermi.
Erano passati quasi trent’anni dalla prima
pubblicazione del romanzo e anche al nord, dove io vivevo, della
mafia si sapeva molto più che negli anni sessanta, eppure, prima di
quella lettura, non era mai capitato di pensare a cosa davvero
potesse essere la vita in Sicilia; a cosa potesse significare doversi
scontrare ogni giorno con la rete d’omertà e collusioni che
dapprima ostacolano e alla fine bloccano le indagini del
protagonista, il capitano Bellodi, un carabiniere ostinato che
vorrebbe scoprire gli autori di un omicidio di mafia.
La mafia di Sciascia non aveva nulla di
folkloristico o remoto, come mi era apparsa fino allora: era parte
del tessuto sociale; dato ineludibile del quotidiano per chiunque
vivesse sull’isola.
Volli conoscere Sciascia e la sua Sicilia ancora
meglio; tornai in libreria e comprai altre due sue opere: Todo
Modo e Il contesto.
Non ritrovai la Sicilia in quei due brevi romanzi;
vi trovai l’Italia come nessuno, perlomeno di quelli che io avevo
letto fino allora, l’aveva mai raccontata. Una società dove i
poteri – politico, economico e religioso – sono talmente
interconnessi da non potere essere più discernibili e diventano un
superpotere che tutto domina e tutto corrompe. Un paese senza fedi
dove tutto è ridotto a rituale e null’altro che rituale: una
nazione di bigotti.
Neppure l’opposizione, parlo de “Il contesto”,
sfugge al degrado morale; è semplicemente un ottuso,
incerto, contro-potere che è parte integrante del sistema come
parte del sistema sono i suoi rappresentanti, siano essi comunisti
antiborghesi che vivono esattamente come l’alta borghesia o
rivoluzionari che vanno a cena con il Ministro degli Interni.
Li lessi entrambi con l’attenzione che meritava la
scrittura che ormai avevo imparato a riconoscere come di Sciascia;
gustai la parsimonia nell’uso delle parole (tutte quelle che
servivano, ma non una di più, come mi sarebbe piaciuto scrivere) la snellezza del periodare, l’attenzione al ritmo del racconto. I
dialoghi, anche se non avevano il colore del siciliano, restavano
memorabili. Sciascia, decisi già alla fine di Todo Modo,
il primo che lessi, era uno dei miei.
Da allora ho letto quasi tutto quello lo scrittore
siciliano ha pubblicato: ho ritrovato la Sicilia in A ciascuno il
suo e ho conosciuto la storia di sfruttamento della sua gente in Le parrocchie di Regalpetra; ho scoperto i retroscena della
politica italiana degli anni settanta con L’affaire Moro e ho
seguito, per quanto mi era possibile, le polemiche in cui Sciascia
restò coinvolto negli ultimi anni della sua vita attraverso le
interviste che rilasciava, con la generosità del maestro, a giornali
italiani e stranieri.
Grazie ad alcune di quelle interviste seppi che non
era solo questione di pelle l’affinità che sentivo per lui e che
avevo attribuito, forse non del tutto a torto, al nostro essere
entrambi, lui siciliano e io alpino, italiani di confine.
Sciascia, come me, amava gli illuministi anche se,
avesse o no letto Adorno e Horkeimer, non ne ignorava i limiti;
semplicemente pensava che dalla ragione si dovesse comunque partire
per cercare una soluzione ai problemi del vivere.
La ragione non era per lui una fede; meditabondo e
riflessivo, Sciascia usava la ragione come un bisturi per incidere la
superficie della società e scoprirne le viscere.
In questo consisteva il suo essere artista
impegnato, non nel ricorso ad una facile e banale iconografia o nelle
alte dichiarazioni di carattere ideologico; vista in questa chiave
appare comprensibile la reazione complessa che ebbe con Renato
Guttuso, l’amico/nemico che sempre gli rimproverò il rifiuto, pur
dichiarandosi di sinistra, di aderire al PCI.
Non poteva, proprio per la sua fiducia nella
ragione, aderire in toto ad alcuna ideologia; non aborriva la fede,
ma, da uomo del dubbio, non poteva condividerla: nessuna fede,
neppure quella comunista o, vedremo poi, quella di un’antimafia
ridotta a vuota formula retorica.
Sciascia non sopportava i bigotti, cattolici o
comunisti che fossero; vale a dire coloro che fanno della fede una
mera esibizione ed in essa si rifugiano per sfuggire alla
responsabilità, prima di tutto, di giudicare la realtà. Non
sopportava i cretini, per usare le sue stesse parole, di destra come
di sinistra; coloro che portano il cervello all’ammasso e gli
spacciatori di verità che sono la loro controparte. Chi, forte di
una rivelazione, terrena o trascendente, ha già la risposta pronta a
qualunque questione.
Era uomo di sinistra, Sciascia, ma soprattutto un
libertario che amava Ortega y Gassett (da lui più volte citato
assieme ad Unamuno) più di quanto amasse Marx.
Si deve a questa molteplicità di fattori il famoso
articolo I professionisti dell’antimafia, che tante polemiche
suscitò nel nostro paese, dove Sciascia muove critiche condivisibili
ed attualissime a tutta la retorica dell’antimafia (critiche che
valgono per qualunque retorica, pro o contro qualunque cosa) ma
sbaglia anche clamorosamente bersaglio prendendo ad esempio di
professionista dell’antimafia il giudice Borsellino che sarebbe
stato ucciso di lì a poco.
Vale la pena di ricordare le due autocitazioni con
cui si apriva quell’articolo:
«Da questo stato d’animo sorse, improvvisa, la
collera. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo
costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un
eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre
questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una
eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e
per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma
gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e
ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui
bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza
fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano
Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo,
piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità,
generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende;
revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che
stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si
mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie,
le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di
ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno
della civetta, Einaudi, Torino, 1961).
«Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è
un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie
vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho
visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto,
nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di
farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono
ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).
Le preoccupazioni per l’instaurarsi di uno stato
d’eccezione che, in nome della sicurezza, la facesse finite con le
garanzie dello stato di diritto erano già presenti nell’opera di
Sciascia con mezzo secolo, o quasi, d’anticipo rispetto
all’attualità politica; l’invito a lottare contro la mafia
occupandosi dei grandi capitali che la appoggiano e di quelli
altrettanto grandi che genera permane attualissimo.
Sul fatto che un nuovo fascismo, ripetizione e
riduzione a farsa del primo, possa giungere al potere nel nostro
paese lui, nel 1966, era inquieto.
Noi oggi, invece …
Un’ultima osservazione; già ho scritto che mi
viene naturale associare, per la loro sicilianità, certo, ma non
solo, i nomi di Sciascia e Camilleri.
La mafia descritta da Sciascia è pervasiva,
onnipresente, infiltrata nello Stato e nelle istituzioni. Per
Camilleri, di fatto, la mafia è ormai un’istituzione. Il capitano
Bellodi s’illudeva di poterla combattere; il commissario Montalbano
sa perfettamente di poter fare ben poco. Non c’è solo la
differente sensibilità dei due scrittori in questa differenza tra i
loro personaggi; scrivono in tempi diversi e vedono paesaggi umani
diversi.
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