Una giovane amica statunitense, poco tempo fa, mi ha accusato di essere un bieco maschilista perché le ho detto di
ritenere poco utile un corso di “storia dell'arte femminile” che intendeva
seguire. Ho cercato di spiegarle che questo modo di interpretare la storia
dell'arte, del tutto simile a quello che ha portato alla creazione dei corsi di
studi “afroamericani”, è un passo verso una maggiore
ghettizzazione delle
donne; portatrici di una sensibilità e di un'intelligenza tanto diverse (ma
allora, perché mai non inferiori?) da dover essere infilate in un'altra delle
già troppe caselle in cui suddividiamo, per epoche e paesi, il percorso della
nostra cultura. Non c'è stato verso. Abilissima nel sostenere le proprie
ragioni, la mia amica è anzi riuscita a convincermi di essere nel torto; di avere di
pregiudizi di cui, a dire il vero, non mi ero mai reso conto. Solo quando ci
eravamo già salutati, mi sono detto che avrei potuto ricordarle come uno dei
miei scultori preferiti, e se si parla di scultura in legno il mio preferito
senz'altro, sia Barbara Hepworth. Come lei, trai moderni, per me ci sono solo
Moore e Brancusi. Come lei, quanto a capacità di sentire il legno, di fare del
suo colore e delle sue venature una parte integrante delle proprie opere,
assolutamente nessuno. E' tra i mie maestri; ho letto e riletto il suo diario e
in particolare le pagine in cui descrive come scegliesse i tronchi da cui
ricavava le sue sculture: poesia allo stato puro. Perché non mi è venuta in
mente poco prima? Semplicemente perché non l'ho mai catalogata come donna,
esattamente come non ho mai infilato Count Basie nella casella dei neri. Per me
sono, prima di qualunque altra cosa, dei grandi.
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