I nomi composti, come i modi di dire, sono preziosissimi giacimenti di parole altrimenti dimenticate. Uno dei primi che abbia attratto la mia attenzione, tra quelli presenti nella lingua dei miei nonni alto-valtellinesi è stato sana-babic'; un'ingiuria, ma non tra le più terribili, che potremmo all'incirca tradurre con l'ormai pan-italico “minchione”. Pochi dubbi sul significato della prima delle due parole che lo compongono. Sanar, in quell'idioma, significa né più né meno che castrare. L'offesa, dunque, doveva essere suppergiù costruita come il soprannome che fu di Castruccio, il più glorioso tra gli Antelminelli, nobili ghibellini e lucchesi; insomma, come castra-cani.
Insomma, ne sapevo quanto prima.
E ho continuato a non saperne niente fino a qualche anno dopo, quando
mi è capitato tra le mani il volume Etimologia e lessico dialettale,
curato dal Centro di Studi per la
Dialettologia Italiana del CNR. Vi era contenuto anche un articolo di Giovanni
Pietrolini dedicato ad uno studio compiuto negli anni settanta da Hugo
Plomenteux sui dialetti della Liguria Orientale e in particolare della Val
Gravaglia. Tra le parole che gli emigrati di ritorno dall'America hanno portato
in quelle zone vi era anche sanababicu,
vale a dire il mortale insulto anglosassone son of a bitch (figlio di
una cagna) pronunciato con accento ligure. Lo so, voi ci siete arrivati subito,
o al più tardi quando avete letto America, ma io, da dove arrivasse il
maledetto babic' l'ho capito solo dopo essermi trovato davanti quella
pagina. Di che sorridere della mia
ingenuità e sentirmi contemporaneamente, con perfetta concordanza tra la mie
identità nazionale e locale, un minchione italiano e un sanababic' valtellinese.
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