In città ero nuovo e, anche se non lo avrei
mai ammesso, sperduto ed impaurito come quel bimbo che nella favola si
ritrova solo in mezzo agli sconosciuti pericoli del bosco.
Avevo ventiquattro anni, allora. Giovane, ma
in realtà ancora più giovane, se consideri che gli ultimi sei di quegli anni li
avevo trascorsi nell’esercito; in un ambiente sterile e quasi perfettamente chiuso
alle influenze del mondo esterno. Un universo auto-sufficiente, auto-referenziale,
auto-contenuto. Auto-tutto. Un grembo, a modo suo, che avevo trovato tanto
confortevole, dopo essermi abituato alle sue regole ed ai suoi divieti, da
provare un dolore quasi fisico quando avevo deciso di lasciarmelo alle spalle
per sempre.
Qualcosa che forse non avrei mai fatto, se
fosse esistito un altro modo di sfruttare l’incredibile opportunità, offertami
dalla sorte, di realizzare quel che restava dei miei sogni d’adolescente.
Sono nato in una cittadina di provincia dove
il basket è una vera e propria religione e, dopo averne imparati i sacri
fondamentali nelle formazioni giovanili della squadra locale, allora famosa in
tutta Europa, e nonostante non mi fossi dimostrato poi abbastanza bravo da
guadagnarmi da vivere con una palla tra le mani, a quella religione sono
rimasto sempre fedele.
Non l’ho tradita neppure mentre ero
nell’esercito, continuando a giocare anche mentre vi ero arruolato, seppure
solo in un campionato minore, dopo aver trovato posto nella squadra del
paesotto delle Alpi dove era acquartierato il mio reparto: un gruppo di amici,
molti ben oltre la trentina e con dei normali lavori da svolgere durante il
giorno, che si ritrovava un paio di sere la settimana per degli allenamenti
ridotti,dalle mediocri condizioni fisiche di moltitra noi, a poco più che a
delle sedute di tiro. Soldi? Se pensi che giocavamo la domenica, contro altre
squadre di quella provincia e di quella limitrofa, sul linoleum della stessa
palestra dove ci allenavamo e davanti a un pubblico di poche dozzine di persone,
composto quasi esclusivamente di amici e parenti, capirai chec’era tanta
passione, ma assolutamente nient’altro.
Quell’estate una squadra, neopromossa in serie
A2, per sfuggire all’afa della pianura era venuta a tenere il raduno
precampionato da quelle parti.
Alla fine di uno dei nostri allenamenti un
tipo sulla cinquantina, con la tuta di quella squadra addosso, mi si era avvicinato
e mi aveva chiesto se me la fossi sentita di andare a giocare per qualche giorno
con loro; avevano ancora alcuni contratti in alto mare, uno dei loro playmaker
si era slogato una caviglia ed erano rimasti in nove.
Senza pensarci un secondo, avevo detto di
sì. Ero corso in caserma, avevo pregato
il Capitano, implorato il Colonnello ed avevo ottenuto due settimane di
licenza.
Ce l’avevo messa tutta. Ho orgoglio, anche
oggi, se non altro; di fare figuracce, allora, non ne avevo proprio voglia.
Arrivavo per primo agli allenamenti,me ne andavo per ultimo e stavo attento a
tutto, ogni secondo. Non pensare che facessi fatica, però; stavo vivendo un
sogno e non volevo perderne un solo dettaglio.
Non so se a convincere l’allenatore sia stato
quello o il fatto che lo ascoltassi come un fedele ascolta la messa, ma alla
fine di quelle due settimane, quando ero prontissimo a rimettermi la divisa,
quella dell’esercito dico, lo stesso cinquantenne della prima volta era venuto
a cercarmi alla fine dell’allenamento e mi aveva offerto un contratto. Un
contratto di un anno al minimo sindacale. Per giocare. Proprio a me.
Allora mi era sembrato un miracolo; poi,
mentre cercavo di riorganizzarmi la vita, mi era parsa una maledizione.
Ero a malapena capace di stare in campo a quel
livello, non di giocare sul serio, avevo scoperto subito, e, peggio ancora, ero
completamente incapace di adattarmi alla vita quotidiana; alla sua apparente
casualità e, soprattutto, al complicatissimo intrico delle relazioni sociali di
cui è fatta.
Chi è questa persona? Cosa vuole da me? Come
si parla con uno cosi? Domande semplici per molti, erano difficilissime per me.
Vivevo in un piccolo appartamento in una delle
parti più degradate della città; lontano dai locali alla moda del centro, oltre
la ferrovia. L’esatto contrario di un
quartiere bene; una zona residenziale che i bombardieri americani, mirando alla
vicina stazione ferroviaria, avevano completamente raso al suolo nel 1944 e che
era stata ricostruita, nei primissimi anni del dopoguerra, con grandi palazzine
d’appartamenti: dei casermoni tirati su in fretta e al risparmio, in un paese
che aveva poco tempo e meno soldi.
Come risultato di quelle economie, quarant’anni
dopo o giù di lì, quando vi ero andato ad abitare, la maggior parte di quegli
edifici sembrava prossima al collasso; forse era solo un’impressione, ma c’era
un che di lebbroso nelle larghe squame d’intonaco che l’umidità degli inverni
staccava da quelle facciate coperte da una ragnatela di crepe, forse sottili,
ma non al punto da non essere preoccupanti.
Tutto doveva esser stato bianco, magari con
qua e là qualche arditissima macchia di colore, quel giorno, nel quaranta e
tanti o nel cinquanta e pochi, quando il ministro, o il senatore o Dio solo sa
chi, aveva inaugurato quella schiera di edifici banalmente razionalisti.
Potevo immaginare il discorso di questa
sconosciuta autorità, giù nella piazzetta, ornata da una specie di rottame che
voleva essere un monumento. Mi pareva di poter vedere ancora, assiepati lungo
la bassa scalinata che la circondava, gli uomini e le donne che erano stati presenti
allora. Indossavano i loro abiti della domenica, sorridevano ed applaudivano
felici a quella conquista della modernità, a quelle case simbolo del ritorno
alla normalità, mentre l’Onorevole, o chi era poi, nel suo serissimo tre pezzi
blu scuro, con la catena di un orologio che attraversava il panciotto, faceva del
proprio meglio per cercare di sembrare elegante nell’atto di tagliare, con un
paio di gigantesche forbici, il tradizionale nastro tricolore. Potevo, usando
un poco di fantasia, e di quella ne ho sempre avuta troppa, sentire la banda
dei Carabinieri suonare in sottofondo, mentre il vescovo spruzzava acqua santa
su tutto e tutti.
Quando sono arrivato da quelle parti, ad ogni
modo, di tutto questo non restava memoria; l’idea stessa che lì, un tempo,
qualcuno avesse avuto qualcosa da celebrare pareva assurda: uno dei tanti parti
di questa testa un po’ matta che mi ritrovo.
Solo un po’, eh, non ti spaventare.
Colore, per certo, non ne restava. Il fumo del
carbone, che si era usato per alimentare gli impianti di riscaldamento fino ai
primi anni settanta, aveva steso su tutto una mano di grigio scuro, aiutato dai
pesanti vapori che il vento trascinava fin lì dalla vicina zona industriale,
oltre che dai gas di scarico delle automobili e dei camion perennemente
incolonnati lungo la tangenziale, un fiore di cemento armato degli anni
sessanta, che tagliava il quartiere in due metà malamente interconnesse da un
paio di cavalcavia.
Ero andato a dare un’occhiata fuori dalla
finestra, il mio primo giorno, subito dopo aver preso possesso del monolocale[1](sì, vuol proprio dire una sola stanza, più un buco che serviva da
cucina) che la squadra mi aveva procurato. Nei mesi successivi, avevo evitato accuratamente
di ripetere l’esperienza: deprimente era l’unico aggettivo adatto a descrivere
quella vista; assolutamente, terribilmente, deprimente.
I miei impegni, mentre occupavo quella reggia?
Dovevo andare ad allenarmi una sola volta il giorno, alle sei del pomeriggio, e
poi, di solito la domenica, giocare la partita, anzi guardarla dalla panchina.
A questo aggiungi che dovevo perdere qualche
giorno, viaggiando su e giù per l’Italia con un autobus che era stato
nuovissimo quindici anni prima, in occasione delle gare in trasferta; di regola
una ogni due settimane.Nient’altro.
Non ti mare molto? Infatti avevo un sacco di
tempo libero che passavo leggendo e scrivendo interminabili e incomprensibili
poemi: versi innocenti, quasi infantili, a proposito di cose che m’immaginavo
di conoscere e di altre che solo avevo letto. Facevo anche dei disegni, a china
e pennino, senza altra compagnia che la musica, perlopiù rock degli anni
settanta, che ascoltavo da una piccola radio a transistor, di plastica
arancione troppo brillante, che doveva essere vecchia quanto quelle canzoni e
che era l’unico elettrodomestico che possedessi.
Non uscivo mai dall’appartamento; non di
giorno. Solo in caso di necessità, quando proprio non mi restava niente da
mangiare, e sempre alle dieci in punto (faccio così anche adesso; seguo sempre
degli orari che m’impongo senza nessun’altra ragione che avere degli orari. Non
saprei vivere altrimenti; soldato una volta, dicono, soldato per sempre, andavo
fino al negozio di generi alimentari all’angolo, gestito da un’anziana coppia
di pugliesi che doveva essere arrivata lì assieme ai palazzi, per comperare
dello scatolame, del pane, delle patatine o dell’affettato, sgomitando, per
aprirmi una strada verso la cassa, tra le massicce signore di mezz’età, dagli
sguardi capaci di congelarti come un bastoncino di pesce, che erano le clienti
abituali di quel posto.
Non prendevo mai niente che richiedesse
d’esser cucinato. Già allora non ero male ai fornelli (uno si stanca della
sbobba della naja, dopo un po’), ma mi sembrava inutile sporcare delle pentole
solo per me; vedi, ho sempre avuto bisogno di un pubblico per produrre la mia
arte.
Facevo una vita riservata, si sarebbe potuto
dire.
Avevo una maledetta paura del mostro, questa è
la verità.
Il mostro? Sì, la città.
Non che fosse una metropoli, allora aveva sì e
no 250 mila abitanti, ma a me sembrava enorme, minacciosa, brulicante di
pericoli che nessun addestramento mi aveva preparato ad affrontate.
Ero a disagio, passeggiando tra le vie del
centro, affollate di gente ben vestita che se ne andava sempre di fretta.
Gli uomini, quasi tutti incravattati, quasi
tutti con l’aria d’essere in affari, lanciavano continue occhiate agli orologi,
a volte dei veri lingotti d’oro, che portavano ai polsi. Molti di loro avevano
delle squadrate valigette ventiquattrore, che impugnavano con quella fiera determinazione
che io non ero riuscito a mostrare neppure quando mi ero ritrovato tra le mani
un fucile d’assalto. Tutti avevano l’aria
d’essere importanti nei loro importanti lavori.
Le donne, signore impellicciate e coi tacchi
alti (tutte perfettamente bionde, tutte perfettamente truccate), scrutavano
nelle vetrine dei negozi che s’allineavano lungo i marciapiedi con la stessa
intensa concentrazione di studiosi intenti a decifrare gli antichi teschi sacri
di una qualche misteriosa religione.
Anche gli studenti che andavano e venivano
dalle lezioni tenute nei vari palazzi, alcuni dei monumenti straordinari per
bellezza ed antichità, che l’università aveva in vari punti della città,
sembrava avessero uno scopo; una meta.
Tutti, uomini o donne, con i tacchi alti o le
scarpe da tennis, mi pareva camminassero allo stesso modo, quasi mi volessero
dire, con quei loro passi secchi e nervosi, di non avere, come me, del tempo da
perdere.
C’era gente ovunque, ad ogni modo, e c’erano
facce ovunque. Sorrisi non ce n’erano,
però, oio non riuscivo proprio a vederne.
Nelle prime settimane dopo il mio arrivo, in
un paio di occasioni mi ero sentito talmente solo da convincermi ad entrare in
un bar per cercare qualcuno con cui fare quattro chiacchiere. Non lo avevo
trovato; anzi, quando avevo provato a parlare con gli altri avventori, uomini o
donne che fossero, questi avevano preso a fissarmi come se fossi un psicopatico
criminale afflitto da strane manie.
Forse la colpa di tutto era il mio accento (le
consonanti tedesche di mio padre, così aspre per l’orecchio italiano, mi sono
rimaste appiccicate come una specie di tara genetica), ma più probabilmente era
proprio quel che facevo a essere contrario alla buona educazione cittadina.
Pareva che da quelle parti, nessuno rivolgesse la parola a qualcuno che non
conoscesse già. Come facevano a conoscersi, allora? Non sono mai arrivato a
capirlo; un mistero cittadino, ed io con le città non ho mai avuto un buon
rapporto.
Non ce l’ho adesso, che ho visto un bel pezzo
di mondo; a quel punto della mia vita, erano passati quattro anni dall’ultima e
unica volta in cui avessi vissuto in una grande città, e quella era stata molto
diversa da quella dove mi trovavo. A Beirut non c’erano state in giro né
cravatte, né pellicce, né bionde (un paio però le ho viste); solo raffiche di
Kalashnikov che volavano e bombe che esplodevano.
Gli altri posti dove ero stato con l’esercito?
Beh, interessati, a modo loro, ma non un granché quanto a vita sociale: il nord
della Norvegia, per delle manovre invernali e le aride colline della Cappadocia,
bruciate da un sole abbacinante, per quelle estive. Non si sarebbe potuto fare
il contrario? Forse, ma quello era l’esercito e si sa come vanno le cose se lo si
usa come agenzia di viaggi.
Se quelle mie giornate vi sembrano noiose, consolatevi:
le serate erano molto peggio. Me ne restavo sdraiato a letto a guardare il
soffitto, con la radio sempre accesa, cercando d’immaginare che stessero
facendo i miei vicini, dalle vite invidiabilmente normali, con le loro
famiglie; cerando d’indovinare a cosa fossero dovute le risate che si sentivano
attraverso i muri di carta velina del palazzo e sopra alla voce di Iggy Pop.
Il monolocale mi sembrava sempre più una
prigione, ma non avevo la minima attrezzatura per pensare d’evadere.
La caserma insegna tante cose, ma non prepara
certo alla vita, come invece si dice. Almeno, non prepara ad una vita dove i
gradi e le precedenze non sono cuciti alle spalline e dove i ruoli e le
gerarchie, i si deve e i non si deve, devono costantemente essere ridefiniti.
Per cercare di tornare alla mia cella il più
tardi possibile, per sfuggire all’opprimente senso di solitudine che ormai vi
provavo, iniziai a fermarmi al palazzetto anche dopo l’allenamento. Magari non
era proprio un locale notturno, ma certo era meglio che starmene a letto a
coltivare la mia malinconia e ad aspettare un sonno che sembrava non voler
arrivare mai.
C’era anche una squadra femminile in città,
che giocava sul nostro stesso campo e che, ogni sera, si allenava subito dopo
di noi.
Lei giocava con loro (era il loro pivot, la
loro miglior giocatrice e il loro capo-branco; in campo e fuori) e fu così che
ci incontrammo. Anche lei era nuova in città: lo avevo letto in un articolo del
giornale locale che, ricordando i suoi successi, salutava il suo arrivo come
quello di una salvatrice della patria. Beh, perlomeno dei destini cestitistici
di una società che, la stagione precedente, aveva scampato di un soffio la
retrocessione,
Alta un metro e novantadue, con i capelli
tinti di un color rosso evidenziatore che pareva fluorescente, mi era stato
facilissimo individuarla, la prima volta che mi ero fermato a vedere le
ragazze. Aveva anche gli occhi più azzurri e il peggior carattere che avessi
mai visto su un campo di basket; era una furia anche nella più insignificante
partita d’allenamento: era uno di quei giocatori che non possono neppure
accettare l’idea della sconfitta. Uno di quelli col cervello fritto da
testosterone.
OK; a friggere il suo cervello sarà stato qualcos’altro,
ma cisiamo capiti: quando giocava, pur di vincere, pareva disposta ad uccidere.
Sapevo che era valtellinese, originaria della
lunga valle delle alpi italiane, incastrata tra i confini svizzero e austriaco,
da cui veniva la balia che era stata la mia seconda madre. Se lo avessi
ignorato, ad ogni modo, lo avrei capito dopo averla vista giocare per pochi
minuti: imprecava e bestemmiava in continuazione, come un alpino ubriaco, in
quel dialetto il cui suono peculiare, come una cantilena che pare a mezza via
tra tedesco ed italiano, mi ricordava gite estive nei boschi e lunghe domeniche
invernali sugli sci.
Una specie di compaesana, insomma, ma non per
questo sarei riuscito a trovare il coraggio di rivolgerle la parola; osare
tanto, era qualcosa che superava le mie capacità.
Ero seduto sulle gradinate, leggendo un libro
e buttando un occhio, di tanto in tanto, alle ragazze che si allenavano, quando
lei venne da me. Che libro? Mi pare fosse Seize the Day di Saul Bellow,
ma non ne sono davvero certo. Forse sono io, ora, a ritenere che un grande
romanzo sull’auto-accettazione sarebbe stata la lettura più appropriata in quel
momento. Non ricordo neppure esattamente che giorno fosse; di sicuro era già
inverno ed era notte. Ricordo il buio oltre i finestroni del palazzetto;
ricordo d’essermi fermato ad osservare la neve che aveva iniziato a coprire le
guglie della cattedrale, a pochi passi da lì, prima di entrare ad allenarmi.
“Cosa resti qui a fare, tutte le sere? Non hai
niente di meglio da fare?”, mi chiese a voce altissima, quasi urlando. La
sentirono tutti. Sicuro. Continuò: “Se proprio vuoi vedere tette e culi, non
puoi andare da un’altra parte?”.
Arrossii come non ero arrossito mai e,
credimi, io ad arrossire ero sempre stato bravissimo. Riuscivo a diventare
color melanzana; almeno in quello, ero un fenomeno.
Devo aver mormorato qualcosa o forse sono solo
rimasto zitto, guardando in basso; cercando di scavare con lo sguardo un buco
nel pavimento. Profondo. Profondissimo; tanto da sparire e non farmi più ritrovare.
“Cosa dici? Ma come cavolo parli? Magari dopo
mangiato ti si riesce a capire di più, ma adesso è meglio che te ne resti
zitto, prima di dire troppe cazzate”.
Sorrideva. “Aspettami, dai. Mi faccio la doccia, poi andiamo da qualche
parte a mangiare qualcosa assieme”. Come faccia a sorridere cosìa qualcuno,
dopo avergli urlato contro con la stessa brutalità di un sergente istruttore
che stia accogliendo un gruppo di reclute appena arrivate in caserma, per me
resta ancora oggi uno dei suoi misteri; delle sue infinite meraviglie.
Quella, per quanto ti possa sembrare
sorprendente era la mia prima volta con una donna. No, non in senso biblico; in
qualunque senso.
Trascorsi un’orribile mezz’ora chiedendomi che
avrei potuto dirle, come avrei dovuto comportarmi con lei. Avrei voluto aver
letto un qualche manuale sull’argomento. Ecco; questo nell’esercito l’ho
imparato: in caso di necessità c’è sempre un manuale a dirti quel che dovresti
fare. O ci dovrebbe essere, se sai dove andarlo a cercare.
Molti dicono che sono bravo con le parole.
Adesso, forse; uno impara, ma, appunto, ci vuole tempo. Mi dirai tu, se me la
so cavare davvero. Allora sapevo solo
balbettare e bofonchiare.
Lei, invece, sapeva già perfettamente come
trattare le persone. Ha un talento naturale per questo e i talenti naturali,
per definizione, non devono imparare come gli altri esseri umani.Arrivò, mi
mise un braccio attorno alle spalle, come se fossimo grandi amici da sempre, e io
subito persi qualunque timidezza. Conservai ancora qualche dubbio, qualche
incertezza ( uno come me non poteva sciogliersi così, di colpo, neanche grazie
al suo tocco magico), ma mi dimenticai anche di loro alla fine della terza
bottiglia di vino che bevemmo assieme in quella notte memorabile.
Finimmo per ubriacarci del tutto e, dopo che
l’ultimo bar del centro aveva chiuso per la notte, ci ritrovammo ad aspettare
l’alba su una panchina gelata davanti alla facciata della cattedrale, ai bordi
della grande piazza tardo rinascimentale che era edè il cuore di quella città.
Sono passati più di vent’anni da quella
panchina; abbiamo condiviso tante risate e qualche lacrima, e ancora oggi io e
lei ci sentiamo al telefono ogni giorno, o quasi.
Non andiamo d’accordo per niente; abbiamo
opinioni diverse su tutto. Qualunque discussione tra noi, anche la più
apparentemente innocente, può degenerare in un battibecco e, certe volte, i
nostri litigi sono più spettacolari del più spettacolare che puoi aver visto al
cinema, ma Valeria è ancora il mio migliore amico. E lo sarà sempre.
►▼◄
Mi dispiace di non esseri presentato in
maniera più tradizionale, ma sono tempi nuovi e nuovi, forse, sono gli aspetti
che possono assumere alcune delle antiche formalità.
Mi chiamo Daniel, ad ogni modo, ma mi puoi chiamare Gombo; quasi tutti quelli che
mi conoscono, e per certo tutti i miei amici, mi chiamano così fin da quando
ero poco più che un ragazzino.
Non sono ancora vecchio, ma, a quarantacinque
anni, giovane posso solo dire d’esserlo stato. Ho letto moltissimo e leggo
molto, scrivo qualcosa di tanto in tanto, scolpisco per guadagnarmi da vivere e
dipingo perché mi va di farlo; al mio talento come pittore hanno sempre creduto
in pochi. Io ci credo. Di solito.
Sai già che sono stato un soldato e che
giocavo a basket abbastanza bene da guadagnarmi uno stipendio. Sono stato anche
un giornalista; una specie. Che cosa sono adesso? Penso che dovrai scoprirlo, o
che lo scopriremo assieme alla fine di questo viaggio; perché una storia è come
un viaggio e questo che abbiamo appena iniziato sarà uno di quelli molto
lunghi, se lo lascerai continuare. Saprai il resto su di me attraverso queste
lettere, insomma, e quando avrai letto l’ultima di loro, arriverai a conoscermi
meglio di quanto mi conosca io stesso. Questa è la mia speranza, perlomeno.
Non so niente di computer; questa sera è stata
la prima volta che sono entrato in una chat e, prima di farlo con te, non avevo
mai parlato a quel modo con nessuno (si dice chattare? Sono un montanaro,
dentro. Non so se mi se mi piacciono davvero le cose e, soprattutto, le parole
nuove).
Sono arrivato lì per caso; Valeria mi ha detto
che è un modo nuovo di conoscere gente e, in questo non sono per niente
cambiato, io a conoscere gente faccio sempre una gran fatica.
Appena sono entrato nella chat, ad ogni modo,
sono rimasto affascinato da quella specie di letteratura istantanea che vi era
creata. Mi sono messo lì e ho iniziato a leggere, senza dire nulla, come si
legge un libro; una pagina infinita, anzi, fatta di un solo dialogo tra mille voci sempre diverse. Fantastico.
Un’ora dopo, mentre assistevo meravigliato
alle trasformazioni che l’anonimato sembra produrre sull’umana natura, ho
visto, sul margine dello schermo, il tuo nome: “Reader”. Il lettore.
Mi sono fatto coraggio e ti ho chiamato;
qualcosa che, devo ammetterlo, probabilmente non avrei osato, nella vita
“reale”.
Mi ero già accorto prima, nei mesi precedenti,
d’essere, tra le molte cose anche uno scrittore alla ricerca di un lettore, per
la storia che volevo raccontare. Sono sempre stato così: amo l’idea di scrivere
per tutti, ma devo farlo per qualcuno. Qualcuno di particolare.
Non mi hai voluto dare nessuna informazione su
di te. Va bene. Suppongo che questi siano tempi terribilmente complicati.
Ti sorprenderà sapere che, in un’epoca non
troppo lontana, era perfettamente normale scrivere il proprio nome ed indirizzo
su un bigliettino e darlo ad una qualche persona interessante, ma altrimenti
completamente sconosciuta, incontrata su un treno o facendo la fila per entrare
in un cinema. Erano tempi più sicuri? No, solo c’era infinitamente meno paura
in giro, ma, di questo, dovrei scriverti troppo a lungo. Le paure, ad ogni
modo, non sono là fuori; ce le portiamo dentro.
Di te so che hai dei modi squisiti, d’altri
tempi, appunto, una viva intelligenza e un’ottima cultura: è tutto quello che
posso sperare di trovare in un lettore; il resto non conta.
Vicino al tuo nome c’era un pallino rosa,
quindi dovresti essere una donna. Mi piace l’idea di scrivere per una signora,
ma anche questo non è fondamentale.
Un lettore è un lettore, hai riposto, quando
ti ho chiesto della tua età. Hai ragione. Mi piacerebbe, però, se credi che
darmi questa informazione non ti ponga in troppo grave pericolo, sapere
perlomeno in che continente vivi. Non che sia troppo importante, ma vorrei
avere un’idea di che ora possa essere quando ti mando le mie e-mail.
Io vivo in Spagna ora, in un piccolo villaggio
di neppure duecento abitanti, lungo le tempestose coste atlantiche della
Galizia, nell’estremo nord-ovest del Paese. La grande città più vicina,
La Coruña, importante per il suo porto e per i suoi cantieri navali, dista da
qui 120 chilometri, ma per certi versi potrebbe essere su un altro pianeta;
Santiago de Compostela e la sua cattedrale, con le reliquie del Santo meta dei
pellegrini fin dall’alto medioevo, sono un poco più vicine, ma solo sulla
carta geografica. Questo, da tutti i punti di vista, è un posto a parte.
A non molti chilometri da qui, lungo una
strada che passa attraverso rari
villaggi e costeggia spiagge infinita, s’incontrano una cittadina e,
dopo questa, un capo su cui svetta un faro.
Finisterre è come viene chiamato quel capo;
Fisterra, la cittadina. Sono due variazioni dello stesso nome il cui
significato, che sicuramente lo troverai un po’ melodrammatico, è: la fine
della terra.
Gli antichi pensavano che qui, in questo
remoto angolo d’Europa, finisse il mondo. Che oltre questa costa non vi fosse
più nulla. Qui, per loro, doveva terminare ogni possibile viaggio; non si
poteva andare oltre perché, prima della scoperta dell’America, non pensavano ci
potesse essere un oltre.
Ho promesso di fornirti qualcosa di nuovo da
leggere ogni giorno; tu mi hai promesso che ogni giorno leggerai quel che ti
scriverò. A me sembra un patto perfetto. Se vuoi che io smetta di scriverti, però,
basta che m’invii un messaggio che lo dica: io sparirò nel nulla senza mai più
disturbarti in alcun modo.
Non è mai stato così facile far fuori uno
scrittore. È proprio vero: la tecnologia, a chi li sa cogliere, offre dei
grandi vantaggi.
Per questa notte credo che possa bastare: non
voglio certo stancarti troppo in fretta; spero, anzi, che tu duri al mio fianco fino alla fine di
questo viaggio.
Non mio resta, se come mi piace immaginare,
stai leggendo queste righe mentre sorseggi la prima tazza di caffè della tua
giornata, che augurarti buongiorno, o mio Lettore, e ringraziarti per i
preziosissimi doni del tuo tempo e della tua attenzione.
Alla prossima.
Daniel
Io il libro l'ho preso sia in bit che in carta
RispondiEliminaDi primo acchito molto bello
ma poi vi racconto meglio...
Diaolin
Grazie di tutto Diaolin, come sempre.
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