Un capolavoro. A meno che la nostra epoca sia diventata tanto barbara da pretendere scuse e pretesti anche dalla bellezza.
Atalanta e Ippomene. Guido Reni, ca 1620. Olio su tela, 192 x 264. Museo di Capodimonte, Napoli. |
Ovidio, nel
Decimo libro delle Metamorfosi, narra di Atalanta, figlia di Iaso, re
dell'Arcadia e di Climene. Abbandonata sul monte Pelio dal padre, che avrebbe
voluto un figlio maschio, e allevata da un'orsa, cresce bellissima, oltre che provetta
nella caccia e più veloce nella corsa degli stessi Centauri. Tanto veloce che,
non volendo prendere marito,
quando il terribile padre, dopo averla
riconosciuta, vuole costringerla a farlo, accetta di concedersi solo a chi la
batta in una gara di corsa. I pretendenti che si presentano alla prova, perdono
e sono per questo messi a morte. Tutti. Ippomene, che la ama, prima di
partecipare alla gara fatale chiede però aiuto a Venere. La Dea, scaltra, gli
consegna tre mele dorate, colte nel Giardino delle Esperidi, che durante la
corsa dovrà semplicemente lasciar cadere una ad una. Ippomene così fa. Atalanta,
che si ferma a raccogliere i frutti preziosi, perde tempo e la gara e diviene
sua.
Questo è il mito
che Guido Reni ha trasfigurato in questa immagine di suprema eleganza;
raffinata quanto il suo committente, Ferdinando Gonzaga. Pochi dubbi, infatti, che
a lui, profondo conoscitore d’arte e estimatore del pittore, fosse destinata la
grande tela, citata anche nell’inventario delle collezioni della sua casata
compilato poco prima della loro dispersione, alla fine del ‘600. Meno certo, l’anno
in cui Reni completò quest’opera. Forse proprio il 1617, quando dopo aver
rifiutato, adducendo problemi di salute, il suo invito a recarsi a Mantova per eseguire un ciclo di affreschi, dipinse per
Ferdinando le quattro grandi tele delle Fatiche
di Ercole. Ma è solo un’ipotesi. Altrettanto incerto è quale delle due
copie in cui il dipinto è giunto a noi sia l’originale; se Reni dipinse prima questa,
proveniente dalla milanese collezione Pertusati ed entrata nel 1802 nella Galleria Nazionale di Capodimonte, o quella conservata al
Prado, per cui, va detto, oggi propende la maggioranza dei critici. Due copie
che sono la testimonianza delle fortune del quadro, subito acclamato come un
capolavoro, e della fama del suo pittore, pronto a diventare, alla morte di
Annibale Carracci, nel 1619, il più importante di Bologna. Celebrità, anzi,
quella di Reni, che arrivò ad essere continentale, come il novero dei clienti
della sua grande bottega. Importanza, per i suoi contemporanei, che fa si che
di lui sia stato tramandato molto; che si sappia quasi tutto.
Addirittura
possiamo ritrovare, a Bologna, in via San Felice 3, la casa in cui nacque, il 4
novembre 1575, da Ginevra Pozzi e da Daniele, maestro della cappella di San Petronio. Un musico, suo padre, ma pure un
grande amico di Denijs Calvaert, detto Dionisio Fiammingo, pittore tardo manierista
dalla splendida tavolozza, ma di non troppe altre doti. Grande insegnante, però.
Forma anche il Domenichino, oltre a Guido, che entra nella sua bottega nel 1584
per restavi fino al principio del 1594 quando si unisce all’Accademia degli Incamminati, la scuola di pittura fondata dai
Carracci. Allievo brillantissimo, se di deve credere all'aneddotica, già nel 1598
avvia la propria carriera di pittore autonomo. Importanti, per la definizione della sua
poetica, in quei primi anni di attività, i suoi rapporti con Roma. Vi risiede,
nel 1601, e ha l’occasione di studiare a fondo Raffaello, che già conosceva
nella rivisitazione carraccesca, copiandone, per conto del Cardinale Sfondrato,
la Santa Cecilia con quattro Santi. E
sempre per una committenza romana, quella del cardinale Pietro Aldobrandini,
destinata alla chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, nel 1605 si confronta,
come tutti o quasi devono fare in quegli anni, con Caravaggio o perlomeno con
il suo chiaro-scuro. Una sfida che raccoglie nel modo più diretto possibile
dipingendo la Crocefissione di San Pietro
ora alla Pinacoteca Vaticana. Sua,
pare, la scelta del soggetto; lo stesso della tela che Caravaggio aveva dipinto
nel 1601 per la Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo. A suggerirgli la
mossa, volta a mettere in luce i propri meriti e a sminuire quelli del parvenu bergamasco, pare sia stato il
suo grande amico Cavalier D’Arpino. Notizie che ci dà Carlo Cesare Malvasia,
biografo dei pittori bolognesi, che ebbe modo di conoscerlo. Dalla stessa
fonte, sappiamo anche che Reni era imponente, di bell'aspetto, ma pure
oltremodo morigerato. Pare non si
lasciasse mai scappare una parolaccia; addirittura che sia rimasto vergine a
vita e che fosse capace di rimanere impassibile “come di marmo” anche di fronte
alle nudità delle più belle modelle. Amava, questo sì, i begli abiti e, ci dice
sempre Malvasia, una volta raggiunto il successo, si muoveva sempre in
compagnia di una numerosa servitù. Successo che gli arrise ben presto proprio
per la sua capacità di coniugare Successo proprio dovuto alla sua capacità di
coniugare, arrivando a risultati d’indubbia coerenza formale, l'idealismo di Raffaello
(che certo ispira i suoi quadri devozionali; le sue Madonne) alle esigenze di
verità poste dall’esplosione di Caravaggio e sentite come proprie perlomeno da
una parte della Chiesa controriformata. Un verismo ben temperato, depurato di
dramma e scandalo, o un idealismo capace di guardare al vero, che valsero a Reni
il plauso quasi unanime della critica sua contemporanea, che lo vedeva secondo solo a Raffaello. Un fortuna che si mantenne
anche successivamente e che terminò all’arrivo di Ruskin che, nel suo furore
anti-classico, lo condannò, arrivando a disprezzarlo, assieme ai Carracci e al resto della pittura
bolognese.
Un
stroncatura giunta, però, solo nel 1844. Ancora a metà Settecento, Winckelmann
paragonava Guido Reni a Prassitele; alla fine dello stesso secolo, sir Joshua
Reynolds scriveva: “Il suo (di Reni) ideale di bellezza è superiore a quello di
chiunque altro”.
Esagerazioni?
E fino a che punto? Non resta, per
deciderlo, che tornare a guardare il nostro quadro. Uno di quei dipinti, quale
che sia il nostro giudizio finale, che non di dimenticano. E’ il contrasto tra l’incarnato
dei corpi e l’oscuro grigiore dello sfondo ad imprimercelo nella memoria.
Incarnati delicatissimi; meravigliosi (come sempre quelli di Reni, tra i più
belli della storia dell’arte) a dispetto della nota gialla con cui la lama di luce, che da sinistra illumina la scena, ne
tinge il rosa. Una luce vivida. Ultraterrena. Non può essere quella dell’alba
che traccia, nel deserto dello sfondo, un orizzonte appena discernibile. Quella
di un riflettore, diremmo, se stessimo contemplando un fotogramma, messo lì da
un abile direttore della fotografia proprio per enfatizzare quei corpi. E’ la
lezione di Caravaggio ridotta alla sua parte più squisitamente tecnica; il
chiaro-scuro adottato, ma, per continuare con il paragone cinematografico, solo
come strumento di ripresa. C’è ben poco verismo, infatti, nell’immagine che ci
sta di fronte. A partire dal punto in cui le loro gambe sollevate si incrociano,
centro visivo del dipinto, le membra di Atalanta ed Ippomene sono disposte secondo
un gioco di rimandi e simmetrie diagonali meticolosamente calibrato. Equilibrio,
quasi fosse un omaggio all’etimologia del
nome della giovane (da Αταλάντη. Atalànte, appunto "in equilibrio") è
la parola chiave per descrivere questo dipinto. Il motto, anzi, da che iniziò a
praticarlo alla scuola dei cugini Carracci, di tutta l’arte di Guido. Bilanciamento statico, in questo caso, degno
di una natura morta. E’ una gara di corsa, ma i suoi protagonisti, quasi quel riflettore
li avesse congelati in un’istante di eternità, ci appaiono perfettamente
immobili. Ferma Atalanta (e non posso fare a meno di cogliere nella mollezza
delle sue carni, certo in modo arbitrario, un memento mori), china verso
sinistra per prendere il pomo fatale. Fermo Ippomene, come una statua dall’anatomia
perfettamente definita, mentre fugge in direzione opposta, verso la vittoria e
in definitiva, magica ambivalenza della narrazione barocca, verso di lei. Il
dramma è tutto nei colori; ancora in quella luce e nella scelta di una
tavolozza minima. Il dinamismo è tutto concentrato nei panneggi,
meravigliosamente eseguiti, mossi dalla corsa e da un vento che deve soffiare
impetuoso. Svolazzi barocchi? Sì, lo sono. Di un Barocco che è già superamento
delle Maniera, ma pure si volge all’indietro, proprio come fa Ippomene, verso
esempi rinascimentali. Dove, e certo il soggetto gioca un ruolo, v’è ben poca
traccia della Controriforma, mentre già si coglie l’essenza, perlomeno io voglia
coglierla, di quella che oltre un secolo dopo sarà la Ragione neoclassica.
Interpretazioni.
Quel che resta indiscutibile, oggi come domani o quattrocento anni fa, è che ci
troviamo davanti ad un’immagine straordinariamente bella. Non dovrebbe servire
altro per definirla un capolavoro. A meno che la nostra epoca sia diventata
tanto barbara da pretendere scuse e pretesti anche dalla bellezza.
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