mercoledì 25 febbraio 2015

UN PANE DI SEGALE PER MARIO RIGONI STERN

Il sergente della neve è epica allo stato puro. Senza un grammo di retorica.

Di Schüler, Bozzetto per La pietà. Tecnica mista su carta di 30 x 50 cm.

  

Leggendo quel che scrivo di Mario Rigoni Stern, sentendo l’affetto con cui ne parlo, qualcuno mi ha chiesto se fossi originario delle sue stesse montagne. No, tra la mia valle e il suo altopiano ci sono alcuni passi e un paio di centinaia di chilometri.


Nonostante questo, quando è morto, sei inverni or sono, mi si sono inumiditi gli occhi.
Mi è difficile spiegare a parole perché mi sia accaduto. Il senso di fratellanza che dà la penna nera (avrà voluto, come vorrei io, Signore delle Cime per la sua ultima messa?) deve aver avuto la sua responsabilità, come il senso di gratitudine verso chi, con le sue opere, ha fatto rivivere per sempre i miei parenti ed i miei compaesani che dalla neve della Russia non sono mai tornati.

Anche i ricordi devono aver congiurato . Innanzitutto quello della foto che mia nonna teneva sul cassettone, a fianco di una statuina della Madonna di Lourdes: un ritratto del povero Severino; povero perché in Russia c’era rimasto, beccato da un’incursione area quando la divisione (la Tridentina, la stessa di Rigoni e che, ridotta a brigata, è stata anche mia) era ormai fuori dalla sacca. Era proprio un bell’uomo, Severino, con la divisa da ufficiale aggiustata da un sarto che ci doveva saper fare, il cappello alpino tenuto un po’ sulle ventitré, che gli dava un’aria spavalda, e la croce di ferro tedesca al collo. “Diceva che non valeva niente; che neanche sapeva perché gliel’avessero data”. Poi quello delle voci grevi degli amici di mio nonno (tre, non uno di più) che dalla Russia invece erano tornati.  Di quel che avevano visto là, qualcosa mi raccontavano sempre “al Don l’è grand; grand cume cent volti l’Ada quandu l’è granda”; altro, invece, non raccontavano quasi mai. A nessuno. “E i cridava mama, i rusi. quandu i muriva, Mama cume nualtri”.

Per certo, quando ho saputo che il Sergente se n’era salito più in alto delle cime più alte,  ho subito provato un senso di vuoto. Difficile descrivere anche questo: non quello assoluto, che riduce il mondo a tohu wa-bohu, che si prova quando muore chi si ama; piuttosto quello, meno atroce ma non meno reale, che lascia la perdita di un pezzo della propria storia. Ho sentito qualcosa di simile quando il terremoto ha sgretolato gli affreschi di Giotto e di Cimabue ad Assisi e, più ancora, quando ho scoperto, pochi mesi fa, che il grande e secolare castagno (l’arbul per antonomasia) eternamente svettante nell’immagine del fondovalle che porto nella memoria, non c’era più, aperto da un fulmine già qualche anno fa, mentre io ero chissà dove a fare chissà cosa.

Forse è proprio il senso di colpa, la spiegazione di quell’accenno (solo un accenno; io non piango mai) di lacrime. Per il solito vigliacco pudore, rinviando il viaggio ad Asiago da un’occasione all’altra, Rigoni Stern non lo sono mai andato a trovare. Non so se la mia visita gli avrebbe fatto piacere, ma  avrei voluto portargli un salame dei nostri, magari con del pane di segale di quello buono, e immaginavo di mangiarlo con lui, scambiando qualche parola.

Non che volessi avere grandi rivelazioni o chissà quali perle di saggezza, da parte sua; per quelle mi potevano bastare i suoi libri. Avrei semplicemente voluto far comunione con lui e, tramite lui, con tutti i ragazzi di un tempo; condividere con quei sapori il poco che davvero resta di quel mondo alpino in cui lui ha vissuto e di cui, giovanissimo, ho potuto solo cogliere gli ultimi bagliori.
Più che altro avrei voluto ringraziarlo. Per il suo rispetto per la lingua (che bello il suo italiano; anche quello degli ultimi suoi lavori) conservato anche negli anni in cui infuriavano i più orribili e illeggibili sperimentalismi. Per aver saputo esprimere, come non avrei saputo fare, per mancanza di un adeguato lessico e non solo, un sentimento per la montagna e il bosco così simile al mio.
Soprattutto per aver scritto, magari neppure volendolo, una delle poche opere della nostra moderna letteratura che meriti d’essere definita epica. Un termine che non uso a sproposito.  Non è solo un capolavoro, Il sergente della neve, come tanti si accorgono solo ora che il tempo, allontanando quegli eventi, gli ha fatto perdere il carattere di cronaca; è Epica.

Epica altissima, e per di più senza un grammo di retorica. Come l’Anabasi e più dell’Anabasi.


Mito senza dei, fatto di freddo e fame. E fatica. E sangue. Memoria cui attingere, mentre il riverbero di questi anni ci acceca, per ricordare da dove veniamo e chi siamo.

1 commento:

  1. Mentre io ero chissà dove a fare chissà cosa...
    c'ero anch'io e non ci siamo incontrati!

    In compenso ogni tanto ci incontriamo qui con questi racconti che hanno il sapore della vita vera.

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