Il dipinto più famoso di uno degli artisti più influenti del XX secolo.
Henri Matisse, La Danza, 1910. Olio su tela di 391 x 260 cm. Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo. |
Blu. Giallo. Rosso. In loro c’è della magia; possono ammaliare. Dovrebbe capirlo chi regala dei colori; chi li riceve può restarne stregato. Non doveva saperlo Madame Matisse quando, nel 1889, ne comperò una scatola al figlio che, costretto a letto da mesi, dopo aver rischiato di morire d’appendicite, moriva di noia.
Povero anche Monsieur Matisse. Mettetevi al posto suo. Che fareste, voi, se vostro figlio neo-avvocato, dopo aver giocato per un po’ con i colori, vi dicesse senza alcun preavviso di voler mollare tutto per diventare artista? Beh, è proprio quello che gli succede. Lui prima si sorprende, poi s’incazza. Le prova tutte per convincere il figlio a rinsavire. Niente da fare. Henri, ristabilitosi, a Parigi ci torna, ma solo per frequentare l’Academie Julian.
Ha talento, perlomeno.
Tanto che nel 1895, Gustave Moreau, pittore che andava per la maggiore, lo
invita a lavorare nel proprio studio. Lì Henri si affina. Sente discutere del
loro mestiere alcuni degli artisti più celebrati. Migliora la propria tecnica copiando
i capolavori del Louvre. Diventa pittore di tocco sensibile e, stranamente,
visto quel che farà dopo, “grande esperto nell’arte dei grigi”. Così lo
presentò nel 1896 il suo amico Evenpoel. Tutte le potenzialità del colore,
infatti, le scopre solo poi. Dapprima grazie John Russel, un pittore australiano
che gli mostra i lavori degli ancora semi-sconosciuti impressionisti. Poi,
grazie a Signac. Quando lo incontra, Matisse è in piena trasformazione. Ha
stretto amicizia con Derain e ha cominciato a studiare Cézanne, che arriverà a
chiamare “il mio maestro” (come infiniti altri, dalla fine dell’800 ad oggi).
Ne acquista anche un quadro, Le tre
bagnanti, e dirà d’aver appreso da lui a calibrare le composizioni e a
considerare i toni “delle forze che bisogna equilibrare”. E’ però proprio Signac
che gli fa scoprire il valore espressivo dei colori più brillanti. Lo fa
mostrandoglieli sulle tele dei propri lavori e facendoglieli ritrovare, ancor
più vividi, lungo la Costa Azzurra. E’ il 1904, e Matisse ha appena organizzato
la propria prima personale, quando Signac lo invita a trascorre l’estate nella
sua villa di Saint Tropez, allora un villaggio di pescatori. Dipingono en plein
air. Matisse si avvicina al divisionismo del suo ospite, in quadri come La terrazza a Saint Tropez; soprattutto
si imbeve di quell’ atmosfera. Sì, come ha già fatto con altri pittori nordici,
il sole provenzale gli infiamma la tavolozza.
Matisse, sarebbe
diventato uno dei pittori più influenti del ‘900. La Danza è la sua opera più celebre; quella che corona la sua prima
maturazione. Ora esposta all’Ermitage di
San Pietroburgo, è stata completata solo nel 1910, ma è da quell’estate che
arrivano il colore del suo cielo, “il più blu dei blu”, e quel suo verde. Tanto
intensi da parere smalti, sono, come disse lui stesso, i colori del
Mediterraneo d’agosto e delle calotte dei pini marittimi. Per farci una ragione
della loro stesura tanto uniforme, tanto compatta, dobbiamo però andare in
vacanza con Matisse anche nel 1905.
Quell’anno passa l’estate
in compagnia di André Derain. Vanno a Coillure, un altro villaggio di
pescatori, vicino al confine spagnolo. Matisse, che si sta già lasciando alle
spalle gli esperimenti divisionisti, dipinge paesaggi usando colori ancor più
brillanti e puri. Poi, incontra Daniel de Monfreid, che ha casa da quelle
parti. E’ anche lui un pittore ed è stato grande amico di Gauguin. Ne possiede
alcune tele del periodo tahitiano e gliele: le campiture compatte, solidamente
descritte dal contorno scuro, prima che altrove sono lì.
Tornato a
Parigi, Matisse non le adotta subito. Si affida ancora al valore espressivo
della pennellata nella Donna con cappello,
un ritratto di Amélie Noelie Parayre, sua moglie dal 1896. I colori, però, vi sono già
usati senza intento descrittivo; sono messi sulla tela solo per quel che comunicano
in sé e in relazione tra loro. E’ in questo senso un’opera espressionista ed è
per questo uso del colore “teso verso il massimo dell’espressione” che,
nonostante la sua impostazione tutto sommato tradizionale, desta enorme
scandalo al Salon D’Automne. Su
Matisse e su Derain, De Vlaminck e gli altri amici che espongono con lui,
fioccano gli insulti. Uno, lanciato dal critico Vauxcelles ha particolare
fortuna. E’ fauves, belve, che adesso
troviamo come nome del movimento sui manuali.
E’ però in un altro
ritratto della moglie, dipinto poco dopo, e non esposto al Salon, che Matisse metabolizza la lezione di Gauguin. Nel Ritratto con la riga verde, il ruolo
delle pennellate è del tutto secondario. Sono i colori puri e luminosi, a
cominciare proprio dal verde della linea che divide in due il viso, a narrare
tutto; a comporre un gioco di contrasti ed equilibri che determina un proprio, solo
proprio, “spazio spirituale”. Partendo dalle tahitiane, passando per questo
ritratto e procedendo un poco oltre lungo questa via, ci è ora facile capire come si arrivi alla Danza.
Un titolo che, in sé, testimonia il momento in cui il quadro fu dipinto.
Mentre tentano di completare la rottura con la tradizione avviata dagli
impressionisti, mentre cercano quelli che Gombrich, in un capitolo della sua Storia dell’arte, definisce “nuovi standard”, gli artisti, chiamati
ad esprimere l’indicibile, sentono venir meno la classica vicinanza alla letteratura.
Guardano piuttosto alla musica, come disciplina affine; specie a quella resa
esperienza visuale dal balletto. Nella Parigi di inizio 900 la danza è l’arte
guida, o poco ci manca. Fa sensazione, a dire il vero anche per gli scarsi veli di cui si copre, Isadora
Duncan, capace di dare forma, con il proprio corpo, ai sentimenti più profondi.
Scuote il pubblico, e le tavole dei palcoscenici, l’energia dei balletti russi di
Sergej Djagilev: spettacoli che attingono alla tradizione popolare e portano in
scena quel che per i parigini è esotico e primordiale. Sembrano arrivare da
lontano, nel tempo e nello spazio; da là dove pittori e scultori stanno
cominciando a guardare. Perché lo fanno? Perché si interessano all’arte
primitiva o medioevale, africana o
orientale? Non una sola riposta. Alcuni,
come già i romantici, subiscono il fascino epidermico, sensuale, delle decorazioni
arabe. Altri, cercano in tradizioni diverse la via d’uscita dalla crisi della
nostra. Altri ancora vedono nelle opere degli africani una testimonianza
incorrotta di quanto di più vero e profondo vi sia nell’arte. Matisse,
appartiene a tutte queste categorie e in particolare nell’ultima. Non si
limita, però, ad osservare la scultura africana con la benevolenza che Rousseau
riservava al buon selvaggio; con grande umiltà, cerca di apprenderne le lezioni
di sintesi offerta da quegli scultori che considera colleghi. Nel 1911,
presentando l’Almanacco del Blaue Reiter,
Kandinskij e Marc scriveranno “Quell’opera globale che si chiama Arte non
conosce né confini né popoli: conosce l’umanità”. E’ una frase che potrebbe
essere di Matisse, come erano alcune delle opere riprodotte in quella
pubblicazione.
Torniamo a guardare La Danza. Osserviamo il cerchio
descritto dalle danzatrici. Sono dipinte di un rosa tanto intenso da essere
quasi rosso. L’unico colore che potesse andarci, spiega lo stesso Matisse, una
volta deciso di usare quel blu e quel verde; che potesse fare da contrasto e
contrappeso a questi. Sono nude. Si tengono per mano. Non lo facessero, una paio
di loro rischierebbero di cadere, tanto frenetico appare il loro ballo, tanto
al limite dell’equilibrio sembra la posizione dei loro corpi. Sono vive, vitali,
e ci comunicano la loro gioia di vivere. Una felicità, che non è però delirio; che
appare misurata, aristotelica. Anzi, propria del Matisse che scrisse di volere “un
arte d’equilibrio, purezza e della tranquillità, (...) che sia (…) per l’uomo
d’affari come per il letterato, un lenitivo, un calmante, qualcosa di simile ad
una poltrona che lo riposi dalle sue fatiche”. Un effetto cui contribuisce il
modo in cui sono disegnati quei corpi: con un contrappunto di linee
semplicissime, tanto fluide da sembrare tracciate d’impeto. Da sembrare solo.
In realtà sono il frutto di decine di schizzi e di un bozzetto che Matisse ha realizzato nel 1909 (La Danza ora al
MoMA di New York) già grande quanto l’opera
finita. Studiate e calibrate, quelle linee sono soprattutto poche e tutte
indispensabili: appunto come quelle che usano gli scultori Fang nelle loro
maschere (e sappiamo con certezza che Derain ne possedeva almeno una) o quelli
Ashanti nelle loro bambole.
Nel 1908 Matisse
pubblicò Notes d’un peintre, con le
sue riflessioni sull’arte. Tra l’altro vi si legge: “Un centimetro quadrato di
blu non equivale a un metro quadro dello stesso blu”. Una ragione in più per ricordare
che La Danza è una tela enorme. Misura 3,9 x 2,6 m. Non solo.
Assieme a questa, Matisse ne dipinse un’altra delle stesse dimensioni: La Musica. Gli erano entrambe state
commissionate dallo straricco moscovita Sergei Shchukin, a modo suo un’altra
vittima della magia dei colori. Dopo aver comprato un Monet, durante un viaggio
a Parigi nl 1897, Shchukin aveva poi continuato a collezionare opere
impressioniste e post-impressioniste, rivaleggiando col proprio concittadino ed
amico Morozov, fino a possederne più di 200, tra cui tredici Monet, tre Renoir,
otto Cezanne e quattro Van Gogh. Possedeva già anche otto altre sue opere, quando
commissionò a Matisse le due grandi tele destinate ad essere appese ai lati
della scalinata, nel grande salone del suo palazzo. A collocarle là, provvide
poi lo stesso pittore, che nel 1911 si recò apposta a San Pietroburgo. Un
viaggio lungo come quello che avrebbe continuato a compiere, dentro il
colore, fino alla morte, nel 1954. Lo
stesso viaggio che dovette compiere, nell’altro senso e in gran fretta, Sergei
Shchukin nel 1917. Allo scoppio della Rivoluzione, infatti, ebbe l’intelligenza
di lasciarsi alle spalle tutto e di rifugiarsi a Nizza. Non so poi cosa ne sia
stato di lui. Sicuramente avrà continuato ad amare i colori. Il rosso, forse,
solo un po’ meno di prima.
P.S. Dopo la Rivoluzione,
le case di Shchukin e Morozov, divennero le sezioni I e II del Museo Statale della Nuova Arte Occidentale.
Nel 1928, le due collezioni furono unite e il museo ebbe una sede unica, nel
palazzo di Morozov. Resto aperto fino al 1948, quando Stalin ne firmò il
decreto di chiusura perché esibiva “arte borghese, cosmopolita e d’orientamento
sbagliato”. Ricordando Hitler e la sua crociata contro l’arte degenerata, pare
proprio che l’arte moderna non sia per dittatori.
Nessun commento:
Posta un commento