lunedì 16 febbraio 2015

EDGAR LEE MASTERS E IL SEGRETO AMERICANO

Da una lettera ad un'amica statunitense.


Di Schüler, Parking lot, 1997. Tecnica mista su tela preparata di 100 x 80 cm


Tornando alle mie non sempre lineari connessioni cerebrali, forse ti piacerà sapere che c’è un po’ d’America dietro la mia ultima idea.


Non so bene cosa mi abbia fatto pensare a lui, ma tutto è cominciato quando, poco dopo aver udito quelle cornamuse, mi è venuta in mente un’opera che, nel mio giudizio di europeo, è la quintessenza delle letteratura del tuo paese: Spoon River Anthology, L’antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters.
Un libro di cui mi permetto di scriverti perché so non essere molto conosciuto negli Stati Uniti d’oggi; nemo profeta in patria, d’altra parte, dicevano già i Romani.
Si tratta di una raccolta di poesie, scritte per la maggior parte nel 1914, in cui è raccontata la vita di una piccola comunità dell’Illinois.
Qualcosa di analogo a quel che ho in mente? Sì, ma solo per certi versi.  La collezione di ritratti di Masters, è quella appunto dadaista degli epitaffi, recitati da loro stessi, dei morti sepolti nel cimitero di questo suo villaggio, immaginario ma modellato su quello dove trascorse l’infanzia. Si tratta di un gruppo d’istantanee simultanee (perdona la cacofonia) come quelle che vorrei scattare io, che nel suo caso non rappresentano però solo i singoli, ma rendono anche, ed esplicitamente, i rapporti tra loro.
Io vorrei solo mostrare al mondo i miei compaesani. Far ammirare a tutti la sopravvivenza nei loro sguardi, a dispetto della modernità, di qualcosa di eterno che altrove è ormai troppo nascosto per essere riconosciuto. Vorrei che i loro volti testimoniassero della possibilità di una guarigione, insomma, ma so anche che la mia operazione avrebbe senso solo perché, anche se nessuno ha ancora trovato la cura, chi mi ha preceduto ha già diagnosticato il male.
Tra questi c’è Masters, che con la sua opera, ha inteso offrirci, per di più riuscendoci benissimo, una metafora della modernità.
Se il villaggio è un luogo comune della letteratura americana, infatti, la sua Spoon River non è l’Arcadia, come non appartiene all’ottimistico mondo rurale di Robert Frost, ma è la sede di una società complessa, dove stanno saltando tutti gli schemi tradizionali e non si sa con che sostituirli: è già rappresentazione della crisi dentro di cui ancora stiamo.
Ho usato l’espressione dadaista, nel parlarti dell’Antologia. Forse ho esagerato, e non solo perché il Dadaismo è ufficialmente nato solo un anno dopo la sua pubblicazione, ma certo la raccolta di poesie di Masters appartiene pienamente alla propria epoca e ha in comune molto, a partire dall’attenzione rivolta alle interazioni tra psicologia e realtà, con le opere che erano create negli stessi anni su questa sponda dell’oceano. Sto pensando a Joyce (come sempre, dirai tu) e in particolare a Portrait of the Artist as a Young Man, Ritratto dell’artista da giovane, come pure ai dipinti dell’Espressionismo Nordico; ad opere di maestri come Munch o Nolde.
Dico questo senza voler minimamente negare l’originalità di Masters; soprattutto senza metterne in dubbio il suo essere, perlomeno ai miei occhi d’europeo, profondamente americano, con la sua “barbarica” franchezza e la sua apparente mancanza di raffinatezze intellettuali.
Apparente e nulla più, intendiamoci, in un’opera che, secondo il suo stesso autore, è stata ispirata dall’Antologia Palatina, una raccolta di epitaffi greci compilata a Bisanzio verso la metà del X secolo e costituita da componimenti, riguardo ai più diversi argomenti, di scrittori sia pagani sia cristiani, dell’età classica come del periodo bizantino.

In questo, nella capacità di prendere gli esausti modelli del vecchio mondo e restituire loro la vita, trasformandoli, attraverso una diversa sensibilità, in qualcosa di nuovo, c’è, per me che la conosco solo di riporto, il segreto dell’America.




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