"Un segno tanto forte da essere impresso nella memoria visiva di tutti".
La fusione esposta al MoMa. Bronzo, altezza 126,4 cm. |
Elettricità e motori. Notti che si
illuminano e automobili che rombano. Nei cieli volano i primi aeroplani.
Potenza e bellezza delle macchine che ha già incantato Walt Whitman. Progresso
irresistibile che canterà Majakovskij. Velocità, questa è la parola chiave di
un futuro che è ancora tutto nuovo.
Tanto da far sognare anche un inglese come
H.G. Wells o da procurare incubi anche ad un americano, Edgar Allan Poe, che
l’aveva intuito. E idee nuove. Nietzsche che uccide Dio e ci chiede di
diventare superumani. Bergson che lega la vita al cambiamento, sotto la spinta
dell’Élan; che afferma, soprattutto, che
l’esperienza stessa è fatta di molteplicità e frammentazione. Un turbine, un
uragano, di novità. Tanto violento da scuotere intere società; da essere
avvertito ancora più acutamente da chi vive in un paese che moderno forse sta
diventando, ma non lo è ancora. Un vento capace di mettere i nervi allo
scoperto a chi ha la pelle sottile del
poeta. A persone come lui: Filippo Tommaso Marinetti.
Fa caldo. Siamo in città. Una serata di
noia tra amici. Sentiamo arrivare tre auto con degli altri amici. Marinetti,
descrive così la stessa situazione: “Ma mentre ascoltavamo l’estenuato borbotto
di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolio dell’ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di
umide verdure, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili
famelici”. Raggiungiamo i nuovi arrivati, e saliamo sulle loro auto. Marinetti
e i suoi? Appena arrivano accanto alle “tre belve sbuffanti” sentono il bisogno
irresistibile di “palparne amorosamente i petti”. Partiamo. Andiamo a fare un
giro tutti assieme; noi nel nostro secolo e il poeta nel suo. Chi è al volante
si distrae. Forse ha già bevuto un po’ troppo. Finiamo in un canale. Noi,
riavutici dallo spavento, abbiamo un momento d’indecisione: tra ringraziare il
cielo perché non ci siamo fatti niente e ricoprire d’insulti il guidatore.
Filippo Tommaso, invece, prima innalza una lode “Oh, fossa materna, riempita quasi
al bordo di acqua ripugnante! Oh, fossa di drenaggio bella di una fabbrica”.
Poi, ed è lui a dirlo, ancora coperto da capo a piedi da quel fango benedetto,
quasi in estasi recita per la prima volta gli undici punti di quello che sarà
il manifesto futurista.
Un manifesto che sarà poi pubblicato,
col semplice titolo di Le Futurisme,
sulla prima pagina di Le Figaro del
20 febbraio 1909. Si deve tenere presente, e spero che quell’aneddoto aiuti a
farlo, che è nato in un secolo che non è il nostro, in un fervore che possiamo
solo immaginare e da sensibilità diverse dalle nostre, quando lo si legge. Vi
si dichiara che “Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è
più bello della Vittoria di Samotracia”. E molti potrebbero ancora essere d’accordo. Vi si decantano “il movimento aggressivo,
l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il
pugno”. E qualcuno potrebbe dubitare che tanta esaltazione nasconda un disturbo
neurologico. Il punto nove, in particolare, recita: “Noi vogliamo glorificare
la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto
distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della
donna”. Di che far pensare, oggi, alle affermazioni di un folle misogino o di
un ragazzino con le idee ancora molto confuse.
Allora, quell’inno alla modernità e alla
velocità, ad mondo nuovo da costruire
dopo aver distrutto “i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie”,
attrasse numerosi giovani e brillanti artisti italiani. Il manifesto dava loro
un ruolo. Dovevano, con le loro opere, “aumentare l'entusiastico fervore degli
elementi primordiali” e “dare l’assalto alle forze ignote, per ridurle a
prostrarsi davanti all’uomo. Come ? Cantando “il vibrante fervore” delle
officine. Facendo arte dei ponti in acciaio, delle locomotive, dei piroscafi e
degli aeroplani. Un compito che accolsero con entusiasmo i pittori.
Un piccolo gruppo di loro, formula un Manifesto dei pittori futuristi, che
rende pubblico l’ 11 febbraio 1910. Marinetti ed i poeti, dicono, sono
sulla strada giusta e loro combatteranno al loro fianco nella battaglia per il
rinnovamento dell’arte. A questo manifesto, ne segue un altro, a un mese di
distanza: il Manifesto tecnico della
pittura futurista. Lo firmano solo il cinque: Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi
Russolo, che poi, però, con i suoi intonarumori
meccanici, si occuperà più che altro di musica.
Tra loro, Boccioni è l’artista più
dotato. E’ ancora giovane. E’ nato il 12 ottobre 1882, a Reggio Calabria. I
genitori sono romagnoli, ma il padre, uscere di tribunale, era di servizio lì.
Vita difficile, allora, quella dei funzionari pubblici, con trasferimenti
continui. E Umberto cresce spostandosi su e giù per lo stivale. Studia. Si
diploma in un istituto tecnico di Catania. La pittura? Comincia a praticarla
solo dopo l’arrivo Roma, sempre al seguito di papà, nel 1901. E’ li che conosce
Severini e Balla. Frequenta anche la Scuola libera del Nudo e, per aggiornarsi,
viaggia. Visita Parigi, la Germania e la
Russia. A Milano, arriva per la prima volta
nel 1907. Vi conosce Gaetano Previati, maestro del Divisionismo.
Soprattutto, lì avviene il suo incontro fatale con Marinetti .
Di certo, tra gli artisti futuristi,
Boccioni è il più brillante teorico. E, da poco, si è messo anche a
scolpire. Ovvio che sia suo il Manifesto tecnico della Scultura futurista,
pubblicato a Milano l’11 aprile del 1912.
Un documento che non è solo un appello ad abbandonare la tradizione,
bagaglio inutile nell’era delle macchine, ma che, fedele al proprio titolo,
traccia le line programmatiche cui dovranno attenersi gli scultori che vogliano
restare al passo con i tempi moderni.
Forme uniche della continuità nello
spazio , che Boccioni completò un anno dopo la pubblicazione del Manifesto, non segue pedissequamente
quelle direttive. Le tradisce, dicano quel che vogliono i manuali, quasi tutte.
E forse proprio per questo è quello che è: un capolavoro; un segno tanto forte
da essere impresso nella memoria visiva di tutti, prima che sulle nostre
monete. Guardiamola. Dovremmo andare al Museo
del Novecento di Milano, che ne conserva una fusione, per farlo come merita
una scultura. Già dalle foto notiamo però che è fatta di tutto tranne che
da rette; da quelle linee che, nella sua
settima conclusione, il Manifesto
proclama essere le uniche che possano “condurre alla verginità primitiva”. E le
“intersecazioni di piani” auspicate nella quinta conclusione, dove sono? Sotto gli occhi abbiamo,
piuttosto, qualcosa che somiglia dannatamente ai “grovigli di muscoli” che lo
stesso punto censura. E ancora. Le conclusioni tre e quattro impongono
l’abbandono della “nobiltà tutta letteraria” del marmo e del bronzo per
arrivare a sculture fatte di “piani di legno o di metallo, immobili o
meccanicamente mobili, per un oggetto, forme sferiche pelose per i capelli,
semicerchi di vetro per un vaso, fili di ferro e reticolati …”. Non basta. Altre conclusioni auspicano “una modernissima
scelta di soggetti” e chiedono di “distruggere il nudo sistematico; il concetto
tradizionale della statua e del monumento”. E noi cosa vediamo? Una statua in
fondo tradizionale che rappresenta, con proporzioni decisamente monumentali, un
soggetto tanto antico quanto la figura umana. Una statua di bronzo, per di più.
Vero, si tratta di una fusione (nei vari
musei ve ne sono una dozzina, effettuate in tre momenti diversi) ricavate dal gesso originale dopo la morte
dell’artista, ma dell’auspicata polimatericità,
neppure in questo v’e traccia. Quel che
di vi è di nuovo, di futurista, in quest’opera di Boccioni è il tentativo di
rendere, con i mezzi della tradizione, e le conoscenze accademiche di sempre
(guardate il modellato di quella coscia), le interazioni tra spazio e corpo in
movimento. Movimento, si badi bene, non rappresentato come successione di
immagini. Ispirati dalle crono-fotografie di Etienne Jules-Marey, Eadweard
Muybridge e dei loro emuli, a questo mezzo ricorrono Duchamp nel Nu descendant un escalier e gli stessi
pittori futuristi, a cominciare da Balla, per esempio nella Ragazza che corre sul balcone. Boccioni
mira ad altro. Ad una resa psicologica, drammatica e non analitica, della
velocità. Vuole colpirci, con la figura di una macchina-uomo fatta di muscoli
che si gonfiano e tendini che si rilevano. Di forme che, a causa della
velocità, nella nostra percezione si sdoppiano; di pieni che si svuotano e
vuoti che si fanno pieni. Forme aperte,
dai contorni strinati dal vento; gambe a cui sembrano spuntare delle alette.
Rappresentazione ad un tempo dell’uomo e dell’atmosfera in cui si muove: del
vento che lo affila; della velocità che si sostituisce all’evoluzione
rendendolo nuovo, diverso, aerodinamico.
Soprattutto, Boccioni vuole offrirci un visione simultanea (e per lui simultaneità è la parola chiave
dell’estetica futurista) del corpo in movimento e dello spazio che questo
movimento modifica. L’uomo avanza? Rispetto a lui, le case, gli alberi e tutto
il paesaggio arretrano. Anzi, attorno a lui lo spazio si deforma. Sì, proprio
così, quasi che l’artista fosse arrivato ad avere un’intuizione poetica della
relatività einsteiniana. Spazio che il corpo fende, con quel ginocchio che
avanza. Corpo che lo spazio scompone, dilata, scava. Guardiamo il torace:
convesso a destra, diventa una vuota cavità a sinistra.
E’ pero solo un dettaglio, per quanto
importante. Non è quel che notiamo subito, mettendoci di fronte alla statua. La
scultura è, per prima cosa, una determinata distribuzione di masse. E noi
queste vediamo innanzitutto. Masse che non ci danno un immediata impressione di
velocità; che anzi ci pare descrivano una figura umana che avanza a fatica.
Nello lo spazio e contro il vento? Contro tutto. Eroica. Titanica. Dai volumi …
c’è solo una parola per definirli: michelangioleschi. Di quel Michelangelo che Boccioni spingeva a
ripudiare, ma pure ammetteva essere stato un “genio che fu nel passato il più
grande astratto che si esprimesse per mezzo del concreto”. Un genio tanto grande da contribuire a
definire la forma, l’anima di una delle sculture iconiche del XX Secolo.
Un Maestro con cui Boccioni avrebbe
forse continuato a dialogare, come solo gli allievi più brillanti sanno fare, e
come avrebbe poi fatto Moore, se solo non fosse morto con l’uniforme addosso il
17 agosto 1916. C’era la guerra e lui si era arruolato. Ad ucciderlo, non fu
una pallottola nemica, ma una banale caduta da cavallo, in addestramento, alle
porte di Verona. Aveva fatto già fatto in tempo, ad ogni modo, ad accorgersi
che la guerra non era per nulla igienica. La vita militare, scriveva nella sua
ultima lettera, “è fatta di noia e pidocchi”.
PS Tutte le fusioni della statua
conservano i plinti che Boccioni aveva lasciato come base del gesso originale.
Non sono affatto certo che, fosse stato vivo, avrebbe voluto così. Credo anzi
che nelle versione definitiva, in marmo o bronzo, avrebbe voluto una base
continua, unica, e che avesse scelto di usare i plinti solo per economia di
materiale. Com’è esposta oggi, la figura pare trascini due mattoni o due
blocchi di cemento. Bisognerebbe avere il coraggio di liberarla.
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