Una breve riflessione sul paragone in poesia.
“Come veltri ch’uscisser di catena”, rende con
ammirevole economia la frenesia delle “nere cagne, bramose e correnti” di cui è
piena la selva del tredicesimo canto dell’Inferno. Così sono i paragoni dei
grandi poeti, strumenti per aumentare la suggestione d’un verso grazie ad
un’immagine o ad un suono.
“As an umperfect actor on the stage, Who with his fear is
put beside his part”, Come imperfetto
attor in scena, Che paura da sua parte tolle, e poi “Or some fierce thing
replete with too much rage, Whose strength´s abundance weakens his own heart”, O come fiera belva d’ira piena, Cui troppa
forza il cuor fa molle. Sono versi
di Shakespeare che, nel suo XXIII sonetto, infila due paragoni uno sull’altro
per dire delle esitazioni dell’amante che si dichiara; facendolo ci dà però due
immagini potenti e allo stesso tempo necessarie, non traducibili con semplici
aggettivi.
Anche a questo
serve il paragone: ad ampliare il dominio della lingua, se mi consentite la
terminologia matematica. Paragoni come piante colonizzatrici di nuovi territori
per il lessico, semi di futuri aggettivi che renderanno con più precisione una
sfumatura, nello stesso modo in cui “colorato come una rosa” è diventato rosa
senz’altro, e il pesciolino dalle squame che luccicano come argento,
semplicemente argenteo.
Non è dunque
disdicevole usare i paragoni in poesia. Anzi.
Lo diventa
quando sono fini a se stessi; quando, stucchevoli nella loro ripetitività, sono
tutto quel che si può leggere in quegli strani brani di scrittura incolonnata
che s’ostinano a produrre quei poeti d’occasione che, da quando non sono più
pagati, si sono fatti numerosissimi e, specie in rete, onnipresenti.
Andrebbero
aiutati, questi forzati del verso, obbligati dalla loro mania, o vizio, a
sfornare liriche ogni giorno. I poveri Grillparzer volontari (l’originale pare
vivesse davvero bene del suo lavoro di poeta) ci sarebbero certamente grati se
gli fornissimo la materia prima da incastonare nelle loro composizioni;
paragoni nuovi al posto di quelli usati per essere, in mancanza d’altre virtù,
perlomeno originali. Che ve ne pare, a questo proposito, di “t’amo, come lo
stercorario la sua pallina” o “sei il cipressino del mio cimitero”?
Nessun commento:
Posta un commento