mercoledì 22 ottobre 2014

LA MIA PAROLA PREFERITA



La mia parola italiana preferita è libellula. Non so dire le ragioni di questa mia predilezione; forse è il susseguirsi delle liquide onde di quelle elle a sembrarmi ad un tempo così dolce e così quintessenzialmente italiano. Per il suo suono, o forse per l’aspetto di quelle due doppie v, ma sicuramente senza riguardo al suo significato, la mia parola inglese preferita è awkward, che si dice di chi è goffo, o, per un qualche motivo, a disagio. In spagnolo amo azahar, il fiore dell’arancio,
che conserva tutta la poesia delle sue origini arabe, come la nostra zagara, perla portata all’italiano dalla sicilia, che pure adoro. Lo spirito tedesco, invece, mi pare si rifletta meglio nelle parole composte; sono sempre indeciso, però tra Pfanncuchen, frittella, che si porta dietro l’odore goloso di quelle di patate che mi cucinava la nonna  (di lei a dire il vero ricordo poco altro) e Wissenschaft, che rispetto a scienza, science, ciencia  mi pare cosa assai più teutonicamente seria. Difficilissimo, poi, scegliere la mia parola preferita nella lingua che considero più mia, la variante di ladino (e non di lombardo alpino come parrebbe ovvio) che parlavano i miei nonni valtellinesi; oggi, forse perché ho in bocca il sapore di quelle che ho appena mangiato, propendo per il neolatino braschèr, la caldarrosta, ma amo molto anche i dàsi, gli aghi del pino, che di quella lingua appartengono allo strato più antico, forse vecchio quanto i primi uomini che abbiano vissuto sulle Alpi. A viszontlátásra, un banale arrivederci, una delle prime espressioni che abbia imparato nella lingua in cui ancora mi capita di sognare, continua a racchiudere, per me, tutto il mistero e le difficoltà dell’ungherese, mentre ruha, spirito o vento, di cui spero di non aver sbagliato la traslitterazione, resta la parola ebraica che preferisco, parlando dell’altra lingua che ho imparato (male; so solo leggere la Genesi) a Budapest. Del russo, che parlo pochissimo e malissimo, mi piace molto zolotoy, dorato, come il Volga di una canzone che mi è rimasta addosso, e del polacco, di cui so a malapena un centinaio di parole, trovo irresistibile pięćdziesiątpięć, che si pronuncia all’incirca pingiscionpinc’ e significa, semplicemente, cinquantacinque.  Ho parole preferite anche in gaelico ( sagairt, sacerdote), in galiziano (luar, chiaro di luna che, vi ho detto, è  anche il nome del mio cane) , afrikaans (pampoen, zucca) e in hindi: pani-hari, portatrici d’acqua, come si chiamano le donne, a volte bellissime nei loro sari, che si vedono attraversare i villaggi con delle grandi brocche in bilico sulla testa
Non avevo ancora scelto, fino a ieri sera, una parola francese.  E’ stato parlando con Louise che sono rimasto colpito dalla poesia di boulangerie.  Pensate di arrivare sul nostro pianeta da una lontana galassia. Per avere il primo assaggio di un cibo terrestre dovete scegliere se entrare in una panetteria, in una panaderia, in una Bäckerei, in una bakery o in una boulangerie. A guidarvi c’è solo il suono di quelle parole. Avete a disposizione anche una pékség ungherese e una pekarnya russa, se volete, ma ammettetelo, andate dritti alla boulagerie; non avete il minimo dubbio, a orecchio, che quello che vi troverete sarà più buono.


2 commenti:

  1. Leggendo e rilegendo, questo bellissimo articolo, mi viene in mente sempre una sola parola: Namastè.

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  2. La divinità in me saluta la divinità in te.

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