giovedì 16 ottobre 2014

UNA SPORCA FACCENDA




L'estate in cui scrissi le “Lettere”, resterà memorabile soprattutto per una tragedia che sconvolse, seppur per pochi giorni, il quieto vivere di noi della fine del mondo. Una crisi tanto grave, e nella cui risoluzione ebbi un ruolo tanto importate, da convincermi, appena superata, a raccontarla agli amici del blog di un grande quotidiano, sui cui mi sfogavo allora, suppergiù in questo modo.


Finalmente posso mettere le mani su una tastiera, dopo un paio di difficili giornate passate a risolvere il più mondano dei problemi.

Difficile trovare le parole giuste per dire di cosa si è trattato, specie rivolgendomi a persone della vostra squisita sensibilità, ma ci proverò.

 Con le vacanze estive, la nostra casa in capo al mondo diventa meta del pellegrinaggio annuale di parenti ed amici; siamo in undici, ora, sotto questo tetto, e diventeremo sedici quando, nel prossimo fine settimana, arriveranno anche gli ultimi ospiti.
Siamo in undici, vi dicevo; undici bocche da sfamare e quindi, a stretto rigor di logica, come si può dedurre in base a minime conoscenze d’anatomia e fisiologia, undici culi a cui offrire un cesso.
La casa è debitamente grande e ha quattro bagni, con i conseguenti quattro vasi escretori di bella porcellana bianca, perciò, salvo qualche simpatico episodio d’affollamento durante le ore di punta, "occupato, un momento", che pure rafforzano i già saldi vincoli amicali e parentali, "porca vacca. Ho detto un momento; sto cagando", e contribuiscono al miglioramento delle relazioni transatlantiche, "I gotta take a shiiit", non abbiamo mai avuto veri problemi a soddisfare, con relativa tempestività e certa soddisfazione finale, i bisogni di chi passa l'estate da noi.


Domenica mattina all’alba, saranno state le undici, stavo facendo colazione, pregustando la giornata che avrei trascorso in barca a vela con il mio amico Polan, fiero proprietario di un bella dorna di legno vecchia di cent’anni e ottimo vicino di casa, quando uno strillo acuto, dal primo piano, mi ha annunciato che avevo un qualche problema.
L’urlatrice, due sere prima, mi aveva chiamato per dirmi che non riusciva ad accendere il condizionatore, quindi, prima ho finito di bere il mio caffè e solo dopo, con tutta calma, sono sceso a vedere di cosa si trattasse.
Vero; scusate: dovrei spiegare meglio la ragione del mio atteggiamento.
La stessa parente, perché di parente si tratta, come vi dicevo, poche ore dopo il suo arrivo nella nostra casa, mi aveva informato, a dire il vero con una certa bruschezza, che l’aria condizionata in camera sua non funzionava; donna d’indubbie risorse, grazie al proprio acume e senza bisogno di spiegazioni, ne aveva individuato il telecomando, sulla poltroncina di fianco proprio al letto, ma, per quanto si fosse ostinata a schiacciarne il tasto d’accensione e poi, per restare sul sicuro, tutti i tasti in ogni possibile combinazione, il condizionatore non aveva voluto saperne di accendersi.
Io avevo cacciato due urlacci a mio figlio, che mi aveva accompagnato con quell’odiosa curiosità infantile, “cosa fai papà? Vengo anch’io papà”, che nel giro di un paio di estati si trasformerà in odioso adolescenziale disprezzo, “non rompere papà. Ho da fare papà”, sicuro che fosse stato lui a lasciare in giro il telecomando dello stereo, poi, dando prova delle mie capacità diplomatiche, avevo spiegato alla signora la differenza tra calorifero, con relativa griglia copri-calorifero, e condizionatore; lei era impallidita, come fa ogni anno del resto, al pensiero di passare due settimane in un ambiente tanto primitivo, “I forgot you don’t have A. C. over here”, ma, dopo avermi ringraziato, aveva trovato la forza di andarsene a letto, seppure in condizioni al limite dell’umana sopportazione.
Ci saranno stati venti gradi; più probabilmente diciotto.
Scusate per la breve parentesi. Sono sceso, dunque, col sapore del caffè in bocca e la prima sigaretta della giornata tra le labbra, aspettandomi un qualche contrattempo minimo, di quelli che si risolvono con un paio di parole ben spese o poco più; il problema era invece assai più grave: la signora era stata in bagno, aveva fatto quella cosa che si fa in bagno oltre a lavarsi, ma, alla fine di tutto, quando aveva premuto il fatidico bottone che sostituisce, nelle case moderne, la catenella del tempo che fu, se pure si era scatenata l’ira purificatrice della cascatella sanitaria, poi, l’acqua della sopra nominata cascatella, non se n’era andata per l’opportuno pertugio, ma era rimasta lì, dove non sarebbe dovuta rimanere, tenendo a galla quel che tutti sanno che galleggia assieme a qualche strappo di carta igienica.
Eviterò di commentare le dimensioni del corpo galleggiante, ma, devo dire, da allora guardo quella donna con rinnovata ammirazione.
Preso atto della natura del problema ho sorriso, nel dubbio sempre meglio sorridere, ho garantito alla mia ospite che non aveva fatto nulla di sbagliato (di notevole sì, ma di sbagliato no) e ho iniziato a ragionare su come mettere le mani per aggiustare quel guasto senza, speravo, doverci davvero mettere le mani.
Sono andato all’autorimessa, ho recuperato una scatola di un magico prodotto che avevo acquistato l’ultima volta che mi ero trovato a lottare con gli scarichi, una specie di digestivo per tubature, ne ho disciolto una certa quantità nel bagno intasato, ne ho disciolto un altro po’, “melius est recurrere quam malo correre”, sì, lo so che non è la latinata giusta per queste circostanze, ma a me quella è venuta in mente, e poi, con un “ give the stuff some time to work” ed un “per adesso possono usare gli altri bagni”,  pensando che il problema fosse risolto, o perlomeno che potesse aspettare, mi sono avviato, perlomeno con la mente, verso il molo.
Stavo per farlo anche con il corpo, dopo aver preso la giacca della cerata, da queste parti meglio portarsela sempre dietro, quando un’altra voce dal primo piano mi ha chiamato. Ho guardato in alto e, dalla finestra aperta, è spuntato il capoccione padano, già quasi leghista ed ora in cerca di precisa collocazione politica, del mio amico Alberto che mi annunciava che anche il suo scarico non era più tale; insomma, che non scaricava.
Come nei migliori di quei film, che tanto piacciono ai miei contemporanei, in cui una cosa apparentemente da nulla, una flautolenza minore, in poco tempo s’aggrava e si complica fino a divenire un pericolo per l’umanità, così quel primo bagno intasato si rivelò essere, dopo un controllo compiuto su tutti i bagni della casa, “ tira l’acqua del cesso. Sì, prova a tirarla. Va? Come, ti pare che vada? Va o non va? Ah, non va. Lo sapevo”, in una vera emergenza: eravamo sempre in undici anime, bocche e culi, ma di bagni non ne funzionava neppure uno.
Sempre come in quei film spaventosi, fatti apposta per voi che amate tanto farvi spaventare, proprio in quel momento di dramma, un’altra circostanza iniziò a far sentire tutto il suo peso negativo.
Rosa, la moglie d’Alberto, architetta e pure già un poco berlusconiana (ve l'ho detto: casa nostra è aperta proprio a tutti) il sabato sera aveva cucinato per tutti. Voleva farmi una sorpresa, aveva detto quando lo aveva annunciato, tra la curiosità dei presenti e l’incredulità del marito, e preparare un piatto che mi era tanto piaciuto quando ero stato ospite da loro. Io, ricordando le sue capacità culinarie, avevo immediatamente pensato ad una pizza surgelata o ad una di quelle buste il cui contenuto, scaldato in padella, produce delle sostanze relativamente edibili.
La sorpresa, invece, quando ero arrivato a tavola sabato sera, era stata tale per davvero: dopo una giornata in spiaggia, con quaranta gradi all’ombra e poca ombra, avevo scoperto che Rosina nostra adorata aveva passato due ore del suo tempo ai fornelli, quello che normalmente vi passa in un anno, per preparare una buonissima pasta e fagioli. Buonissima per davvero; tanto che ne avevo mangiato due piatti colmi, che mi si erano conficcati nello stomaco e li erano rimasti per tutta la notte, producendo degli effetti psichedelici simili a quelli dell’ellessedi descritti in certa letteratura americana della metà del secolo scorso.
Mi avete seguito fin qui? No! Bene; non ne dubitavo.
Ricapitolando, come fanno gli americani in tivvù dopo la pubblicità: domenica mattina all’alba, ormai quasi mezzogiorno, undici intestini sovraccarichi di pasta e fagioli erano rinchiusi in una casa isolata e senza un solo scarico funzionante.
Tragedia; dramma. Cataclisma. Probabilmente anche peggio.
A me, solo a me, toccava il compito di salvarli.
No, non perché io fossi il padrone di casa; in circostanze analoghe un normale padrone di casa allarga le braccia, tira due santi e un porco, e il lunedì mattina chiama un idraulico mentre la famiglia, gli ospiti ed i parenti, in qualche modo (la casa, appunto, è isolata ...) si arrangiano fino al momento in cui il professionista risolve il problema; toccava a me perché, disgraziatamente, ho fatto il muratore da giovanotto.
Ho fatto, notante bene e non sono stato: muratori infatti si è a vita. Non perché sia una vocazione così totalizzante da non potervi sfuggire; perché chiunque sappia del tuo passato murario te lo ricorda: per ogni consulenza che mi è stata richiesta in campo artistico da amici e conoscenti, “mi hanno offerto X a Y ; tu che ne dici? A me pare buono”, e a cui rispondo sempre con la stessa competenza, “ e che ne so io”, sono decine le richieste di consigli che mi sono state rivolte per tetti da cambiare, camini che non tirano, piastrelle che si sollevano e cose simili.
Muratore una volta, insomma, muratore per sempre.
Sotto gli occhi, trepidanti ma fiduciosi degli altri dieci, ho sorriso, per la stessa ragione di prima, e, cercando di far capire a tutti che sapevo quel che stavo facendo, “e che cavolo ne so”, e di mantenere la calma, “ mo mi metto a piangere”, dopo aver cancellato dal programma della giornata Polan e la sua dorna, la barca a vela tipica di qui come avevate già intuito, mi sono messo al lavoro.
Come avrebbe fatto chiunque, al mio posto, conoscendo un poco d’anatomia e fisiologia, questa volta fognarie, sono andato dapprima in un angolo del giardino a verificare il pozzo perdente dove, non avendo fognatura qui in capo al mondo, confluiscono i prodotti di tutte le attività defecatorie della casa. Ho sollevato senza troppe difficoltà, “ma quanto pesa sta roba? Cavolo, almeno un anello potevano mettercelo”, il pesante coperchio, poi, dopo aver lasciato evaporare un poco la densa nuvola d’effluvi che si era sollevata, “ma che schifo”, ho preso una pila e controllato quella vera e propria cattedrale della cacca; il piccolo capolavoro d’edilizia civile, in bei mattoni pieni a vista che avrebbero meritato ben altro utilizzo, era pieno solo a metà e il tubo degli scarichi, sottodimensionato a mio modesto parere, solo undici centimetri di diametro, era ancora ben al di sopra del livello raggiunto dalla vera, innominabile, protagonista di questa storia.
Bene, non dovevo chiamare uno spurgatore, e molto male: qualunque cosa fosse quella che non andava, minacciava di essere assai più complicata, e potenzialmente più costosa, che far svuotare quel pozzo.
Ho sperato che il confratello massone, il muratore che fece l’impianto di scarico un ventennio fa, ragionasse come me, e mi sono messo a cercare un pozzetto d’ispezione nei pressi del punto in cui la colonna degli scarichi raggiungeva il terreno; l’ho trovato subito, la gran fratellanza muraria dunque esiste, e subito l’ho aperto.
Ho svitato un poco il tappo che chiudeva la conduttura in quel punto e immediatamente un liquame marronastro e maleolente, che non vi devo certo descrivere, ha iniziato a trafilare: la tubazione, a monte, era dunque piena. Adesso sapevo che l’occlusione si trovava, da qualche parte, nei venti e più metri di tubatura tra quel pozzetto e il grande pozzo perdente; poco male o forse malissimo: dipendeva.
Ho svitato del tutto il tappo del pozzetto, essendo investito da un getto del liquame di cui sopra, e, come ho fatto tante volte nel lontano passato, ho infilato nello scarico il tubo di gomma che uso per lavare, una volta ogni due anni, la macchina. Sono riuscito a farlo avanzare per una decina di metri, poi non c’è più stato verso. Tutti i maschi di casa, nel frattempo, erano venuti a vedere di darmi una mano; Alberto mi passeggiava di fianco nervosamente ripetendo “ non va eh? Non va”, mentre mio suocero, forte del suo passato da ufficiale, sorvegliava le operazioni dall’alto, scuotendo la testa di tanto in tanto per incoraggiarmi. I miei bambini, nella tenera innocenza dei loro anni, “papà fai schifo”, cercavano di sostenermi moralmente anche se, “ papà puzzi”, da una rispettosa distanza. Io ho aperto il rubinetto dell’acqua e sperato che la pressione fosse sufficiente a sloggiare il tappo di … sì, sempre di quella cosa là, che bloccava lo scarico.
No; niente da fare: dopo dieci minuti il tappo tappava ancora quel che stava tappando e non c’era verso di stapparlo nonostante cercassi, caparbiamente, di facilitare l’operazione spingendo avanti ed indietro il maledetto tubo dell’acqua .
In quel momento è arrivato Polan, sorridente come sempre, e pronto per uscire in barca. Gli ho spiegato la natura del mio problema; sì, mio, perché il problema, se non lo avete capito, era ormai solo mio, e gli ho chiesto se conoscesse qualcuno che avesse di una quelle attrezzature che, collegate ad un idro-pulitrice, sono miracolose quando si tratta di stappare tappi che tappano scarichi e che non si vogliono fare altrimenti stappare.
Il vecchio lupo di mare, una vita imbarcato nei mari del nord, tra la Faer Oer e la Groenlandia, mi ha ascoltato con ancor più attenzione del suo cortese solito, si è fatto descrivere l’aggeggio, anche lui lo ha trovato geniale, e mi ha detto che no; nessuno da queste parti aveva niente del genere.
Forse in città, magari, poteva essere, ma qui proprio no.
E’ rimasto ancora qualche minuto, poi, dopo avermi lasciato una considerazione frutto della sua enorme esperienza, di vita oltre che di navigazione, “ caray, Daniél, es un trabajo de mierda”, se n’è andato giù al porto.
Io, che pure odio pala e piccone, come tutti quelli che hanno avuto in sorte d’usarli in gioventù, mi sono rassegnato ad andare a prenderli. Grazie al tubo dell’acqua ora sapevo anche a che distanza, più o meno, dal pozzetto d’ispezione si trovava l’occlusione e ho iniziato a scavare lì.
Pensavo di tagliare in tubo in quel punto, stappare finalmente il fottuto tappo, e rimettere il tutto a posto con una rappezzatura che reggesse fino a lunedì, quando mi sarei procurato il materiale per fare un lavoro migliore; dovevo assolutamente trovare il modo di far fare alla mia gente quel che doveva fare e trovarlo in fretta: la pasta e fagioli, subdola, stava facendo effetto.
Ho pranzato tardissimo, non ho fatto alcun riposino (e io devo fare una mezz’ora di pennichella dopo pranzo) e sono tornato a giocare al piccolo forzato. Ho raggiunto lo scarico, dopo averlo mancato un paio di volte, nel tardo pomeriggio; un’altra mezz’ora di lavoro con la pala e la situazione si è chiarita: una radice di una delle due grosse araucarie che stanno in mezzo al giardino, crescendo si era avvinghiata al tubo, stringendolo, schiacciandolo e riducendone il diametro, già piccolo di suo. Poco alla volta si era depositato del materiale, come il colesterolo su un’arteria, se ho capito bene come funziona quella faccenda, e finalmente, forse per il lavoro supplementare causato al sistema dai culi degli ospiti, durante la notte il tubo si era chiuso del tutto.
Dopo aver ricordato i versi immortali del grande poeta brianzolo, “fremon del callido favonio l’araucaria solitaria e il caco” che sarebbe dovuto arrivare di lì a qualche giorno, ho telefonato al mio amico Edu, cantate e , soprattutto, ingegnere forestale, e gli ho chiesto che sarebbe accaduto alla maledetta, stramaledetta, cancerogena araucaria se avessi amputato quella grossa radice. Il suo parere è stato netto e deciso; esattamente quello che avrei dato io al uso posto: “No tengo ni puta idea … pero, si hay muchas...”.
Calavano ormai le prime ombre della sera, e pure le seconde, e i parenti ed amici, uno per uno, sconfitti dalla pasta e fagioli si erano ormai recati nel boschetto di roveri dietro casa e avevano provveduto ai propri bisogni, quando io pure pure mi sono arreso e ho fatto “en la naturaleza” quel che ormai non potevo evitare di fare: la riparazione, anche solo provvisoria, avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo.
A cena, in un atmosfera eccitata per le avventure di quella giornata di vita di frontiera, non abbiamo parlato d’altro che di scarichi; abbiamo ricostruito la storia delle fognature dal Neolitico ai giorni nostri, confrontato le colonne di scarico tra le due sponde dell’Atlantico, anzi, tra Atlantico e Pacifico, ricordato antiche defecazioni selvagge, in campeggio come pure durante la vita militare: insomma abbiamo passato una serata meravigliosa condividendo tutto quel che sapevamo di quanto, in quel momento, ci stava veramente a cuore.
Credo che anche la signora che per prima aveva lanciato l’allarme si sia divertita; so con certezza che ha scritto una lunga relazione sull’accaduto per le sue amiche californiane: certo che la vecchia decadente Europa è sempre, e comunque, una sfida.
Il giorno dopo ho fatto quel che pensavo; ho allargato la scavo, troncato la radice e, dopo essere andato ad acquistare un pezzo di tubo, ero pronto a tagliare quello esistente per sostituirne la parte schiacciata.
Ci siete ancora? Grazie; siete proprio degli amici.
Ora, mettetevi nei miei panni; siete in un buco profondo almeno un metro, dietro di voi ci sono una quindicina di metri di tubatura piena d’acqua e altro, e dovete tagliare quel tubo. Bene; siete ancora sicuri di volerci essere in quei miei panni? No, vero?
Ecco: io invece c’ero. Ho preso una mazza, sfondato il tubo con un colpo secco, e sono uscito in fretta dal buco mentre questo si riempiva con tutto il materiale contenuto nello scarico. Suona neutra la parola materiale? Di neutro, dentro a quello scarico, vi garantisco che non c’era proprio niente. Il resto credo lo immaginiate; ho preso due secchi e ho svuotato il buco dal … materiale, poi, dopo aver tagliato per bene lo scarico vecchio con un seghetto, ho messo il tubo nuovo al posto del tratto che si era otturato.
Tra le acclamazioni della folla, finalmente, la sera di lunedì potevo proclamare il ritorno della libertà d’evacuazione e scarico; per festeggiare tutti gli scroscioni di casa sono stati tirati all’unisono: mi sono sentito un eroe.
Ieri, martedì, ho verificato che non ci fossero perdite, poi ho coperto la voragine che avevo aperto in giardino e, nel corso della notte, ho iniziato a scrivervi questa storia.

Perché ve la ripropongo ora? Se avete già letto il romanzo, per offrirvi un “dietro le quinte” che spero vogliate considerare simpatico. Se invece ancora avete dei dubbi, per mostrarvi come so raccontare. Potevo scegliere un argomento più elevato? Beh, se vi ho saputo intrattenere con una storia di scarichi fognari, forse dovreste pensare che vale la pena leggere anche il resto di quel che scrivo.


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