L'estate in cui scrissi le “Lettere”, resterà memorabile soprattutto per una tragedia che sconvolse, seppur per pochi giorni, il quieto vivere di noi della fine del mondo. Una crisi tanto grave, e nella cui risoluzione ebbi un ruolo tanto importate, da convincermi, appena superata, a raccontarla agli amici del blog di un grande quotidiano, sui cui mi sfogavo allora, suppergiù in questo modo.
Finalmente posso
mettere le mani su una tastiera, dopo un paio di difficili giornate passate a risolvere
il più mondano dei problemi.
Difficile trovare
le parole giuste per dire di cosa si è trattato, specie rivolgendomi a persone
della vostra squisita sensibilità, ma ci proverò.
Con le vacanze
estive, la nostra casa in capo al mondo diventa meta del pellegrinaggio annuale
di parenti ed amici; siamo in undici, ora, sotto questo tetto, e diventeremo
sedici quando, nel prossimo fine settimana, arriveranno anche gli ultimi
ospiti.
Siamo in undici,
vi dicevo; undici bocche da sfamare e quindi, a stretto rigor di logica, come
si può dedurre in base a minime conoscenze d’anatomia e fisiologia, undici culi
a cui offrire un cesso.
La casa è
debitamente grande e ha quattro bagni, con i conseguenti quattro vasi escretori
di bella porcellana bianca, perciò, salvo qualche simpatico episodio
d’affollamento durante le ore di punta, "occupato, un momento", che
pure rafforzano i già saldi vincoli amicali e parentali, "porca vacca. Ho
detto un momento; sto cagando", e contribuiscono al miglioramento delle
relazioni transatlantiche, "I gotta take a shiiit", non abbiamo mai
avuto veri problemi a soddisfare, con relativa tempestività e certa
soddisfazione finale, i bisogni di chi passa l'estate da noi.
Domenica mattina
all’alba, saranno state le undici, stavo facendo colazione, pregustando la
giornata che avrei trascorso in barca a vela con il mio amico Polan, fiero
proprietario di un bella dorna di legno vecchia di cent’anni e ottimo vicino di
casa, quando uno strillo acuto, dal primo piano, mi ha annunciato che avevo un
qualche problema.
L’urlatrice, due
sere prima, mi aveva chiamato per dirmi che non riusciva ad accendere il
condizionatore, quindi, prima ho finito di bere il mio caffè e solo dopo, con
tutta calma, sono sceso a vedere di cosa si trattasse.
Vero; scusate:
dovrei spiegare meglio la ragione del mio atteggiamento.
La stessa
parente, perché di parente si tratta, come vi dicevo, poche ore dopo il suo
arrivo nella nostra casa, mi aveva informato, a dire il vero con una certa
bruschezza, che l’aria condizionata in camera sua non funzionava; donna
d’indubbie risorse, grazie al proprio acume e senza bisogno di spiegazioni, ne
aveva individuato il telecomando, sulla poltroncina di fianco proprio al letto,
ma, per quanto si fosse ostinata a schiacciarne il tasto d’accensione e poi,
per restare sul sicuro, tutti i tasti in ogni possibile combinazione, il
condizionatore non aveva voluto saperne di accendersi.
Io avevo cacciato
due urlacci a mio figlio, che mi aveva accompagnato con quell’odiosa curiosità
infantile, “cosa fai papà? Vengo anch’io papà”, che nel giro di un paio di
estati si trasformerà in odioso adolescenziale disprezzo, “non rompere papà. Ho
da fare papà”, sicuro che fosse stato lui a lasciare in giro il telecomando
dello stereo, poi, dando prova delle mie capacità diplomatiche, avevo spiegato
alla signora la differenza tra calorifero, con relativa griglia
copri-calorifero, e condizionatore; lei era impallidita, come fa ogni anno del
resto, al pensiero di passare due settimane in un ambiente tanto primitivo, “I
forgot you don’t have A. C. over here”, ma, dopo avermi ringraziato, aveva
trovato la forza di andarsene a letto, seppure in condizioni al limite
dell’umana sopportazione.
Ci saranno stati
venti gradi; più probabilmente diciotto.
Scusate per la
breve parentesi. Sono sceso, dunque, col sapore del caffè in bocca e la prima sigaretta
della giornata tra le labbra, aspettandomi un qualche contrattempo minimo, di
quelli che si risolvono con un paio di parole ben spese o poco più; il problema
era invece assai più grave: la signora era stata in bagno, aveva fatto quella
cosa che si fa in bagno oltre a lavarsi, ma, alla fine di tutto, quando aveva
premuto il fatidico bottone che sostituisce, nelle case moderne, la catenella
del tempo che fu, se pure si era scatenata l’ira purificatrice della cascatella
sanitaria, poi, l’acqua della sopra nominata cascatella, non se n’era andata
per l’opportuno pertugio, ma era rimasta lì, dove non sarebbe dovuta rimanere,
tenendo a galla quel che tutti sanno che galleggia assieme a qualche strappo di
carta igienica.
Eviterò di
commentare le dimensioni del corpo galleggiante, ma, devo dire, da allora
guardo quella donna con rinnovata ammirazione.
Preso atto della
natura del problema ho sorriso, nel dubbio sempre meglio sorridere, ho
garantito alla mia ospite che non aveva fatto nulla di sbagliato (di notevole
sì, ma di sbagliato no) e ho iniziato a ragionare su come mettere le mani per
aggiustare quel guasto senza, speravo, doverci davvero mettere le mani.
Sono andato
all’autorimessa, ho recuperato una scatola di un magico prodotto che avevo
acquistato l’ultima volta che mi ero trovato a lottare con gli scarichi, una
specie di digestivo per tubature, ne ho disciolto una certa quantità nel bagno
intasato, ne ho disciolto un altro po’, “melius est recurrere quam malo
correre”, sì, lo so che non è la latinata giusta per queste circostanze, ma a
me quella è venuta in mente, e poi, con un “ give the stuff some time to
work” ed un “per adesso possono usare gli altri bagni”, pensando che il
problema fosse risolto, o perlomeno che potesse aspettare, mi sono avviato,
perlomeno con la mente, verso il molo.
Stavo per farlo
anche con il corpo, dopo aver preso la giacca della cerata, da queste parti
meglio portarsela sempre dietro, quando un’altra voce dal primo piano mi ha
chiamato. Ho guardato in alto e, dalla finestra aperta, è spuntato il capoccione
padano, già quasi leghista ed ora in cerca di precisa collocazione politica,
del mio amico Alberto che mi annunciava che anche il suo scarico non era più
tale; insomma, che non scaricava.
Come nei migliori
di quei film, che tanto piacciono ai miei contemporanei, in cui una cosa
apparentemente da nulla, una flautolenza minore, in poco tempo s’aggrava e si
complica fino a divenire un pericolo per l’umanità, così quel primo bagno
intasato si rivelò essere, dopo un controllo compiuto su tutti i bagni della casa,
“ tira l’acqua del cesso. Sì, prova a tirarla. Va? Come, ti pare che vada? Va o
non va? Ah, non va. Lo sapevo”, in una vera emergenza: eravamo sempre in undici
anime, bocche e culi, ma di bagni non ne funzionava neppure uno.
Sempre come in
quei film spaventosi, fatti apposta per voi che amate tanto farvi spaventare,
proprio in quel momento di dramma, un’altra circostanza iniziò a far sentire
tutto il suo peso negativo.
Rosa, la moglie
d’Alberto, architetta e pure già un poco berlusconiana (ve l'ho detto: casa
nostra è aperta proprio a tutti) il sabato sera aveva cucinato per tutti.
Voleva farmi una sorpresa, aveva detto quando lo aveva annunciato, tra la
curiosità dei presenti e l’incredulità del marito, e preparare un piatto che mi
era tanto piaciuto quando ero stato ospite da loro. Io, ricordando le sue
capacità culinarie, avevo immediatamente pensato ad una pizza surgelata o ad
una di quelle buste il cui contenuto, scaldato in padella, produce delle
sostanze relativamente edibili.
La sorpresa,
invece, quando ero arrivato a tavola sabato sera, era stata tale per davvero:
dopo una giornata in spiaggia, con quaranta gradi all’ombra e poca ombra, avevo
scoperto che Rosina nostra adorata aveva passato due ore del suo tempo ai
fornelli, quello che normalmente vi passa in un anno, per preparare una
buonissima pasta e fagioli. Buonissima per davvero; tanto che ne avevo mangiato
due piatti colmi, che mi si erano conficcati nello stomaco e li erano rimasti
per tutta la notte, producendo degli effetti psichedelici simili a quelli
dell’ellessedi descritti in certa letteratura americana della metà del secolo
scorso.
Mi avete seguito
fin qui? No! Bene; non ne dubitavo.
Ricapitolando,
come fanno gli americani in tivvù dopo la pubblicità: domenica mattina
all’alba, ormai quasi mezzogiorno, undici intestini sovraccarichi di pasta e
fagioli erano rinchiusi in una casa isolata e senza un solo scarico
funzionante.
Tragedia; dramma.
Cataclisma. Probabilmente anche peggio.
A me, solo a me,
toccava il compito di salvarli.
No, non perché io
fossi il padrone di casa; in circostanze analoghe un normale padrone di casa
allarga le braccia, tira due santi e un porco, e il lunedì mattina chiama un
idraulico mentre la famiglia, gli ospiti ed i parenti, in qualche modo (la
casa, appunto, è isolata ...) si arrangiano fino al momento in cui il
professionista risolve il problema; toccava a me perché, disgraziatamente, ho
fatto il muratore da giovanotto.
Ho fatto, notante
bene e non sono stato: muratori infatti si è a vita. Non perché sia una
vocazione così totalizzante da non potervi sfuggire; perché chiunque sappia del
tuo passato murario te lo ricorda: per ogni consulenza che mi è stata richiesta
in campo artistico da amici e conoscenti, “mi hanno offerto X a Y ; tu che ne
dici? A me pare buono”, e a cui rispondo sempre con la stessa competenza, “ e
che ne so io”, sono decine le richieste di consigli che mi sono state rivolte
per tetti da cambiare, camini che non tirano, piastrelle che si sollevano e
cose simili.
Muratore una
volta, insomma, muratore per sempre.
Sotto gli occhi,
trepidanti ma fiduciosi degli altri dieci, ho sorriso, per la stessa ragione di
prima, e, cercando di far capire a tutti che sapevo quel che stavo facendo, “e
che cavolo ne so”, e di mantenere la calma, “ mo mi metto a piangere”, dopo
aver cancellato dal programma della giornata Polan e la sua dorna, la barca a
vela tipica di qui come avevate già intuito, mi sono messo al lavoro.
Come avrebbe
fatto chiunque, al mio posto, conoscendo un poco d’anatomia e fisiologia, questa
volta fognarie, sono andato dapprima in un angolo del giardino a verificare il
pozzo perdente dove, non avendo fognatura qui in capo al mondo, confluiscono i
prodotti di tutte le attività defecatorie della casa. Ho sollevato senza troppe
difficoltà, “ma quanto pesa sta roba? Cavolo, almeno un anello potevano
mettercelo”, il pesante coperchio, poi, dopo aver lasciato evaporare un poco la
densa nuvola d’effluvi che si era sollevata, “ma che schifo”, ho preso una pila
e controllato quella vera e propria cattedrale della cacca; il piccolo
capolavoro d’edilizia civile, in bei mattoni pieni a vista che avrebbero
meritato ben altro utilizzo, era pieno solo a metà e il tubo degli scarichi,
sottodimensionato a mio modesto parere, solo undici centimetri di diametro, era
ancora ben al di sopra del livello raggiunto dalla vera, innominabile,
protagonista di questa storia.
Bene, non dovevo
chiamare uno spurgatore, e molto male: qualunque cosa fosse quella che non
andava, minacciava di essere assai più complicata, e potenzialmente più
costosa, che far svuotare quel pozzo.
Ho sperato che il
confratello massone, il muratore che fece l’impianto di scarico un ventennio
fa, ragionasse come me, e mi sono messo a cercare un pozzetto d’ispezione nei
pressi del punto in cui la colonna degli scarichi raggiungeva il terreno; l’ho
trovato subito, la gran fratellanza muraria dunque esiste, e subito l’ho
aperto.
Ho svitato un
poco il tappo che chiudeva la conduttura in quel punto e immediatamente un
liquame marronastro e maleolente, che non vi devo certo descrivere, ha iniziato
a trafilare: la tubazione, a monte, era dunque piena. Adesso sapevo che
l’occlusione si trovava, da qualche parte, nei venti e più metri di tubatura
tra quel pozzetto e il grande pozzo perdente; poco male o forse malissimo:
dipendeva.
Ho svitato del
tutto il tappo del pozzetto, essendo investito da un getto del liquame di cui
sopra, e, come ho fatto tante volte nel lontano passato, ho infilato nello
scarico il tubo di gomma che uso per lavare, una volta ogni due anni, la
macchina. Sono riuscito a farlo avanzare per una decina di metri, poi non c’è
più stato verso. Tutti i maschi di casa, nel frattempo, erano venuti a vedere
di darmi una mano; Alberto mi passeggiava di fianco nervosamente ripetendo “
non va eh? Non va”, mentre mio suocero, forte del suo passato da
ufficiale, sorvegliava le operazioni dall’alto, scuotendo la testa di tanto in
tanto per incoraggiarmi. I miei bambini, nella tenera innocenza dei loro anni,
“papà fai schifo”, cercavano di sostenermi moralmente anche se, “ papà puzzi”,
da una rispettosa distanza. Io ho aperto il rubinetto dell’acqua e sperato che
la pressione fosse sufficiente a sloggiare il tappo di … sì, sempre di quella
cosa là, che bloccava lo scarico.
No; niente da
fare: dopo dieci minuti il tappo tappava ancora quel che stava tappando e non
c’era verso di stapparlo nonostante cercassi, caparbiamente, di facilitare
l’operazione spingendo avanti ed indietro il maledetto tubo dell’acqua .
In quel momento è
arrivato Polan, sorridente come sempre, e pronto per uscire in barca. Gli ho
spiegato la natura del mio problema; sì, mio, perché il problema, se non lo
avete capito, era ormai solo mio, e gli ho chiesto se conoscesse qualcuno che
avesse di una quelle attrezzature che, collegate ad un idro-pulitrice, sono
miracolose quando si tratta di stappare tappi che tappano scarichi e che non si
vogliono fare altrimenti stappare.
Il vecchio lupo
di mare, una vita imbarcato nei mari del nord, tra la Faer Oer e la
Groenlandia, mi ha ascoltato con ancor più attenzione del suo cortese solito,
si è fatto descrivere l’aggeggio, anche lui lo ha trovato geniale, e mi ha
detto che no; nessuno da queste parti aveva niente del genere.
Forse in città,
magari, poteva essere, ma qui proprio no.
E’ rimasto ancora
qualche minuto, poi, dopo avermi lasciato una considerazione frutto della sua
enorme esperienza, di vita oltre che di navigazione, “ caray, Daniél, es un
trabajo de mierda”, se n’è andato giù al porto.
Io, che pure odio
pala e piccone, come tutti quelli che hanno avuto in sorte d’usarli in
gioventù, mi sono rassegnato ad andare a prenderli. Grazie al tubo dell’acqua
ora sapevo anche a che distanza, più o meno, dal pozzetto d’ispezione si
trovava l’occlusione e ho iniziato a scavare lì.
Pensavo di
tagliare in tubo in quel punto, stappare finalmente il fottuto tappo, e
rimettere il tutto a posto con una rappezzatura che reggesse fino a lunedì,
quando mi sarei procurato il materiale per fare un lavoro migliore; dovevo
assolutamente trovare il modo di far fare alla mia gente quel che doveva fare e
trovarlo in fretta: la pasta e fagioli, subdola, stava facendo effetto.
Ho pranzato
tardissimo, non ho fatto alcun riposino (e io devo fare una mezz’ora di
pennichella dopo pranzo) e sono tornato a giocare al piccolo forzato. Ho
raggiunto lo scarico, dopo averlo mancato un paio di volte, nel tardo
pomeriggio; un’altra mezz’ora di lavoro con la pala e la situazione si è
chiarita: una radice di una delle due grosse araucarie che stanno in mezzo al
giardino, crescendo si era avvinghiata al tubo, stringendolo, schiacciandolo e
riducendone il diametro, già piccolo di suo. Poco alla volta si era depositato
del materiale, come il colesterolo su un’arteria, se ho capito bene come
funziona quella faccenda, e finalmente, forse per il lavoro supplementare
causato al sistema dai culi degli ospiti, durante la notte il tubo si era
chiuso del tutto.
Dopo aver
ricordato i versi immortali del grande poeta brianzolo, “fremon del callido
favonio l’araucaria solitaria e il caco” che sarebbe dovuto arrivare di lì a
qualche giorno, ho telefonato al mio amico Edu, cantate e , soprattutto,
ingegnere forestale, e gli ho chiesto che sarebbe accaduto alla maledetta,
stramaledetta, cancerogena araucaria se avessi amputato quella grossa radice.
Il suo parere è stato netto e deciso; esattamente quello che avrei dato io al
uso posto: “No tengo ni puta idea … pero, si hay muchas...”.
Calavano ormai le
prime ombre della sera, e pure le seconde, e i parenti ed amici, uno per uno,
sconfitti dalla pasta e fagioli si erano ormai recati nel boschetto di roveri
dietro casa e avevano provveduto ai propri bisogni, quando io pure pure mi sono
arreso e ho fatto “en la naturaleza” quel che ormai non potevo evitare di fare:
la riparazione, anche solo provvisoria, avrebbe dovuto aspettare il giorno
dopo.
A cena, in un
atmosfera eccitata per le avventure di quella giornata di vita di frontiera,
non abbiamo parlato d’altro che di scarichi; abbiamo ricostruito la storia
delle fognature dal Neolitico ai giorni nostri, confrontato le colonne di
scarico tra le due sponde dell’Atlantico, anzi, tra Atlantico e Pacifico,
ricordato antiche defecazioni selvagge, in campeggio come pure durante la vita
militare: insomma abbiamo passato una serata meravigliosa condividendo tutto
quel che sapevamo di quanto, in quel momento, ci stava veramente a cuore.
Credo che anche
la signora che per prima aveva lanciato l’allarme si sia divertita; so con
certezza che ha scritto una lunga relazione sull’accaduto per le sue amiche
californiane: certo che la vecchia decadente Europa è sempre, e comunque, una
sfida.
Il giorno dopo ho
fatto quel che pensavo; ho allargato la scavo, troncato la radice e, dopo
essere andato ad acquistare un pezzo di tubo, ero pronto a tagliare quello
esistente per sostituirne la parte schiacciata.
Ci siete ancora?
Grazie; siete proprio degli amici.
Ora, mettetevi
nei miei panni; siete in un buco profondo almeno un metro, dietro di voi
ci sono una quindicina di metri di tubatura piena d’acqua e altro, e dovete
tagliare quel tubo. Bene; siete ancora sicuri di volerci essere in quei miei
panni? No, vero?
Ecco: io invece
c’ero. Ho preso una mazza, sfondato il tubo con un colpo secco, e sono uscito
in fretta dal buco mentre questo si riempiva con tutto il materiale contenuto
nello scarico. Suona neutra la parola materiale? Di neutro, dentro a quello
scarico, vi garantisco che non c’era proprio niente. Il resto credo lo
immaginiate; ho preso due secchi e ho svuotato il buco dal … materiale, poi,
dopo aver tagliato per bene lo scarico vecchio con un seghetto, ho messo il
tubo nuovo al posto del tratto che si era otturato.
Tra le
acclamazioni della folla, finalmente, la sera di lunedì potevo proclamare il
ritorno della libertà d’evacuazione e scarico; per festeggiare tutti gli
scroscioni di casa sono stati tirati all’unisono: mi sono sentito un eroe.
Ieri, martedì, ho
verificato che non ci fossero perdite, poi ho coperto la voragine che avevo
aperto in giardino e, nel corso della notte, ho iniziato a scrivervi questa
storia.
Perché ve la ripropongo
ora? Se avete già letto il romanzo, per offrirvi un “dietro le quinte” che
spero vogliate considerare simpatico. Se invece ancora avete dei dubbi, per
mostrarvi come so raccontare. Potevo scegliere un argomento più elevato? Beh,
se vi ho saputo intrattenere con una storia di scarichi fognari, forse dovreste
pensare che vale la pena leggere anche il resto di quel che scrivo.
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