La mia parola italiana preferita è libellula. Non so
dire le ragioni di questa mia predilezione; forse è il susseguirsi delle
liquide onde di quelle elle a sembrarmi ad un tempo così dolce e così
quintessenzialmente italiano. Per il suo suono, o forse per l’aspetto di quelle
due doppie v, ma sicuramente senza riguardo al suo significato, la mia parola inglese
preferita è awkward, che si dice di chi è goffo, o, per un qualche motivo, a
disagio. In spagnolo amo azahar, il fiore dell’arancio,
che conserva tutta la
poesia delle sue origini arabe, come la nostra zagara, perla portata
all’italiano dalla sicilia, che pure adoro. Lo spirito tedesco, invece, mi pare
si rifletta meglio nelle parole composte; sono sempre indeciso, però tra
Pfanncuchen, frittella, che si porta dietro l’odore goloso di quelle di patate
che mi cucinava la nonna (di lei a dire
il vero ricordo poco altro) e Wissenschaft, che rispetto a scienza, science,
ciencia mi pare cosa assai più
teutonicamente seria. Difficilissimo, poi, scegliere la mia parola preferita
nella lingua che considero più mia, la variante di ladino (e non di lombardo
alpino come parrebbe ovvio) che parlavano i miei nonni valtellinesi; oggi,
forse perché ho in bocca il sapore di quelle che ho appena mangiato, propendo
per il neolatino braschèr, la caldarrosta, ma amo molto anche i dàsi, gli aghi
del pino, che di quella lingua appartengono allo strato più antico, forse
vecchio quanto i primi uomini che abbiano vissuto sulle Alpi. A viszontlátásra,
un banale arrivederci, una delle prime espressioni che abbia imparato nella
lingua in cui ancora mi capita di sognare, continua a racchiudere, per me,
tutto il mistero e le difficoltà dell’ungherese, mentre ruha, spirito o vento,
di cui spero di non aver sbagliato la traslitterazione, resta la parola ebraica
che preferisco, parlando dell’altra lingua che ho imparato (male; so solo leggere
la Genesi) a Budapest. Del russo, che parlo pochissimo e malissimo, mi piace
molto zolotoy, dorato, come il Volga di una canzone che mi è rimasta addosso, e
del polacco, di cui so a malapena un centinaio di parole, trovo irresistibile
pięćdziesiątpięć, che si pronuncia all’incirca pingiscionpinc’ e significa,
semplicemente, cinquantacinque. Ho
parole preferite anche in gaelico ( sagairt, sacerdote), in galiziano (luar,
chiaro di luna che, vi ho detto, è anche
il nome del mio cane) , afrikaans (pampoen, zucca) e in hindi: pani-hari,
portatrici d’acqua, come si chiamano le donne, a volte bellissime nei loro
sari, che si vedono attraversare i villaggi con delle grandi brocche in bilico
sulla testa
Non avevo ancora scelto, fino a ieri sera, una parola
francese. E’ stato parlando con Louise
che sono rimasto colpito dalla poesia di boulangerie. Pensate di arrivare sul nostro pianeta da una
lontana galassia. Per avere il primo assaggio di un cibo terrestre dovete
scegliere se entrare in una panetteria, in una panaderia, in una Bäckerei, in
una bakery o in una boulangerie. A guidarvi c’è solo il suono di quelle parole.
Avete a disposizione anche una pékség ungherese e una pekarnya russa, se
volete, ma ammettetelo, andate dritti alla boulagerie; non avete il minimo
dubbio, a orecchio, che quello che vi troverete sarà più buono.
Leggendo e rilegendo, questo bellissimo articolo, mi viene in mente sempre una sola parola: Namastè.
RispondiEliminaLa divinità in me saluta la divinità in te.
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