Le bimbe e i bimbi cantano “Nikkonesna”, nessuno lo sa, mentre escono dalla scuola, in file a dir il vero non troppo ordinate, sotto lo sguardo che cerca d’esser severo di due giovani insegnanti. Devono essere in partenza per una gita scolastica. Qualcuno degli scolari più grandicelli porta delle borracce; la maggior parte di loro ha con sé dei sacchetti che è facile immaginare possano contenere dei panini, della frutta e altro da mangiare. Un bus li sta aspettando, in un piccolo spiazzo, una cinquantina di metri avanti a noi, sul nostro lato della strada. Sembra essere pronto a partire non appena i bambini saranno saliti; non posso ancora sentire il rumore del suo motore, ma posso già odorarne la puzza.
L’autobus non sembra essere neppure troppo vecchio, ma è difficile trovare pezzi di ricambio e meccanici quando in giro c’è una guerra, e sembra davvero in cattive condizioni; dal suo scarico esce una densa nuvola scura che il vento che scende dalla montagna soffia verso di noi. Tiro su il vetro del finestrino.
Un vecchietto, con braccio una fascia colorata, su cui sono scritte delle parole che non capisco, ci fa segno di fermarci per lasciare che la scolaresca attraversi la strada. Una delle insegnati è bionda, con lunghi capelli lisci e un notevole paio di tette sotto un maglioncino azzurro aderente. Si gira verso di noi e ci sorride; un sorriso gentile, benevolo, che è il suo modo di chiederci scusa per l’attesa.
Slobo, seduto dietro il volante, le sorride di rimando, prima di rivolgersi a me: “Una maestrina come quella ti fa venir voglia di tornare a scuola”.
È il mio autista, la mia guida, il mio informatore e, anche se non ha mai tirato un pugno in tutta la sua vita adulta, tecnicamente sarebbe anche la mia guardia del corpo. Se non avesse qualche anno di troppo, ne deve compiere sessanta, però, della guardia del corpo avrebbe perlomeno l’aspetto; è alto, più di me di almeno cinque centimetri, e grosso, con le spalle larghe e un collo taurino; ha un filo di pancia, ma si muove con sorprendente agilità se deve farlo. Ha già avuto più di un’occasione di dimostrarmelo da quando siamo assieme: sono tempi difficili, questi; almeno lo sono qui, in questo paese.
Ha dei baffi, lunghi e all’ingiù,
che sottolineano certi tratti orientali del suo volto, forse l’eredità di qualche antenato unno, ed esibisce fieramente una gran coda di cavallo di capelli bianchi.
Lavorava per un mio amico, un reporter della televisione svizzero-tedesca, quando ci siamo incontrati, e mi è subito andato a genio. Quando lo svizzero mi ha annunciato d’esser stato richiamato in patria, promosso a qualcosa di meglio dopo due anni passati a sentire le cannonate, mi ha anche detto che non avrebbero inviato un suo sostituto; la guerra ormai era una notizia vecchia e, visto che da queste parti sparare alle troupe televisive sembrava esser diventato lo sport nazionale, a Berna o Zurigo avevano pensato che non valesse la pena far correre il rischio a qualcun altro.
Slobo l’ho assunto alla fine della festa organizzata per la partenza di quel mio amico, una sbronza lunga tutta una notte in un locale della Belgrado vecchia dove si mangia un capretto alla griglia indimenticabile, e da allora siamo sempre rimasti assieme; ne abbiamo viste tante dopo quella notte, e non solo di feste.
Ha lavorato per quasi tutta la vita nel reparto verniciatura di una fabbrica d’automobili, in Germania, e parla tedesco meglio di me. È anche pazzo per il basket; tanto appassionato da ricordare il mio nome dalle statistiche del campionato italiano di qualche anno fa.
Abbiamo qualcos’altro in comune, oltre alla lingua di Goethe e della Volkswagen e alla venerazione per Kresimir Cosic (non lo conosci? Uno dei più eleganti pivot che abbia mai giocato a basket); abbiamo le stesse idee su questa guerra. Non sarebbe mai dovuta scoppiare; è certo il risultato finale di una lunga serie di errori inanellata dai politici che ereditarono da Tito la guida di quelle che, ormai, fu la Jugoslavia, ma anche l’Europa, con le sue indecisioni e la mancanza di una chiara linea politica fin dall’inizio della crisi, ha le sue colpe.
È proprio guardando all’Europa che questa guerra appare completamente priva di senso; si sta facendo per dividere un paese in pezzettini che, individualmente, hanno tutti l’obiettivo dichiarato di diventare membri dell’Unione Europea. Qualcosa in più, per ridurli alla ragione, si poteva certo fare.
Ora è troppo tardi; il mostro è uscito dal suo antro e sta divorando tutto e tutti.
Non è ancora chiaro chi vincerà, ma di sicuro si può già dire chi sono gli sconfitti: gli innumerevoli uomini, donne e bambini che muoiono, spesso senza che neppure ne sia registrato il nome, nelle varie zone di combattimento, solo perché hanno il torto di vivere nella parte sbagliata di quello che un tempo era un solo paese.
Alla fine, quando si arriverà alla fine, un altro anello sarà stato aggiunto, alla catena degli odi che collegano il presente dei Balcani al loro più lontano passato, e i semi di altre vendette, di altre guerre che ineluttabilmente verranno, saranno stati di nuovo seminati.
A Slobo, esattamente come a me, non interessa sapere chi vincerà; vorrebbe solo che in qualche modo, in qualunque modo, il massacro terminasse. Per aiutarmi è disposto a fare qualunque cosa, non necessariamente restando dentro i confini di quel che rimane della legge. Si accontenta di poco: dà tutto di sé per 100 marchi tedeschi il mese, più le spese. La verità è che è un mio amico; quanto di più vicino a un amico si possa avere, in quello che è diventato il mio lavoro.
C’è una pompa di benzina, all’uscita del villaggio, davanti a quella che sembra una trattoria. È l’una; ora di mangiare. Decidiamo di fermarci.
Il posto potrebbe essere ovunque; l’ultima volta che l’ha visitata, Valeria mi ha portato a pranzare in un locale non troppo diverso da questo, da qualche parte sulle basse montagne che circondano il Lago di Como. La sala del ristorante potrebbe sembrare calda e accogliente, con la sua grande vetrata che si apre verso la montagna, il suo pavimento di larghe assi di legno, i suoi muri di pietra e il soffitto rivestito di perline di quello che sembra larice. Posso immaginarla affollata di turisti in una serata d’inverno, in tempo di pace, con la neve che scende là fuori e un bel ceppo che brucia nel grande caminetto che, da solo, occupa un’intera parete. Ora, però, con i tavoli completamente deserti, ha un’aria indefinibilmente triste; come certe stazioni di provincia, in cui i treni passano senza fermarsi mai.
Il cameriere dai capelli bianchi, che potrebbe avere settant’anni o più, ci saluta senza un sorriso, quasi che il nostro arrivo lo avesse disturbato; come lo avessimo interrotto nel bel mezzo di una conversazione che, lì, da solo, in piedi in mezzo al locale, stava avendo con i suoi fantasmi personali.
Ci sediamo a un tavolo d’angolo, ognuno con le spalle contro un muro; non si sa mai, da queste parti e di questi tempi. Il cameriere viene subito a prendere i nostri ordini. Non gli facciamo perdere tempo, tanto c’è poco o nulla da scegliere, e lui si allontana subito, zoppicando lentamente verso la cucina.
Slobo ed io parliamo di pallacanestro, come sempre. Della politica, ci siamo già detti tutto il giorno in cui ci siamo incontrati e abbiamo chiuso lì l’argomento. Lui sa che stavo con i croati, quando ho iniziato a seguire questa guerra; lui mi ha detto che sua figlia maggiore ha sposato un croato e che ha un figlio. Grazie a Dio vivono in Germania, lontano da tutta questa follia.
Slobo ha anche un figlio; è stato arruolato in fanteria e proprio ora è sotto le armi, a combattere chissà dove, con l’esercito serbo. Slobo non ha sue notizie da un paio di settimane ed è preoccupato per lui, ma non ne vuole parlare. In fondo non c’è nulla che si possa fare; solo aspettare e, se si crede, pregare.
La guerra in Jugoslavia era scoppiata nel 1991, quando due stati della confederazione d’allora avevano dichiarato la propria indipendenza. La Slovenia, la più settentrionale delle repubbliche della vecchia Jugoslavia, era riuscita ad andarsene senza troppi problemi, ma quando la Croazia aveva provato a imitarla, la situazione era subito degenerata. A rendere le cose ancora più complicate c’era stato che lungo il confine tra Croazia e Serbia, le due maggiori repubbliche della Federazione Jugoslava, e il cane e il gatto di questa storia, per secoli, serbi e croati si erano mossi liberamente, con il risultato che c’erano villaggi e cittadine abitati da serbi dentro di quelli che sarebbero diventati i confini della Croazia e villaggi e cittadine croate nel pieno di quella che sarebbe diventata la Serbia: una miscela esplosiva, se ce n’è mai stata una.
Da quando la guerra era iniziata, croati e jugoslavi (cioè i serbi, che dominavano quel che restava della Jugoslavia) si erano dati battaglia, villaggio per villaggio, per mantenere i propri territori e guadagnarne agli avversari; per proteggere la propria gente o per pulire etnicamente (per usare un’espressione che era stata coniata proprio durante quella guerra) quella che consideravano la propria terra.
Quel che era successo a tutta la Jugoslavia, si era ripetuto in scala minore e con ferocia ancora maggiore, quando la Bosnia, un altro degli stati che formavano la Federazione, aveva dichiarato la propria indipendenza nel 1992.
La Bosnia è abitata da tre popolazioni differenti; i croati che stanno nel nord, i serbi nel sud e nell’est, e i musulmani bosniaci che vivono nel resto di quel paese.
La popolazione serba della Bosnia, circa il trenta per cento del totale degli abitanti della repubblica, che sarebbe voluto restare nella Federazione Jugoslava, non aveva accettato la dichiarazione d’indipendenza; aveva formato un proprio stato, lo aveva chiamato Republika Srpska, gli aveva dato un esercito ed era cominciato un nuovo capitolo della guerra.
Nella parte orientale della Bosnia, in quella che ora è la Republika Srpska, a venti chilometri dal confine con la Serbia e con la Federazione Jugoslava, c’è una piccola cittadina chiamata Srebrenica. Prima della guerra ci vivevano circa 5000 musulmani bosniaci, ma ora è stata invasa da altri 25.000 o 30.000 musulmani; profughi che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case situate nei piccoli villaggi della circostante regione a forte maggioranza serba.
È ancora considerato un posto sicuro, Srebrenica, perché è stata dichiarata un’area protetta delle Nazioni Unite e perché, proprio per questo motivo, ospita un contingente di circa quattrocento caschi blu olandesi, ma è virtualmente assediata dall’esercito della Republika Srpska (VRS), al comando del generale RatkoMladić, e da formazioni irregolari di volontari provenienti dalla Serbia.
Si sta facendo di giorno in giorno più difficile, ottenere informazioni su quel che sta davvero succedendo a Srebrenica, e per questo mi hanno chiesto di andare a dare un’occhiata.
Siamo partiti da Belgrado stamattina presto; poco dopo l’alba.
Non ci siamo diretti immediatamente verso la città assediata, ma abbiamo puntato prima verso Loznica, che si trova una quarantina di chilometri più a nord, sul confine tra quel che resta della Jugoslavia e la Bosnia. Pochi chilometri prima di raggiungere questa città, Slobo ha deviato a Sud, prendendo una stradina di campagna (pare che lui conosca ogni sentiero che attraversa i Balcani; perlomeno ogni sentiero su cui si possa, in qualche modo, guidare un’automobile), per attraversare il confine senza incocciare nei posti di blocco organizzati dall’Esercito Popolare Jugoslavo, le forze armate regolari della Federazione. Non abbiamo nulla da nascondere, ma sappiamo che, solo un paio di giorni fa, dei giornalisti inglesi che stavano cercando di raggiungere Srebrenica lungo la statale, sono stati fermati e costretti a tornare a Belgrado con la protezione, o sotto la minaccia, di una scorta armata.
Noi siamo stai più fortunati; questa trattoria è già in Bosnia; per essere più precisi in quella parte della Bosnia di un tempo, che ora è meglio chiamare Republika Srpska, si vuol andare d’accordo con i serbi che vi abitano .
Abbiamo finito di magiare i nostri cevabcici, la versione balcanica, di cui già mi pare d’averti parlato, degli shish kebab indiani: erano davvero buoni, meglio di come mi ero aspettato visto l’ambiente, anche se, per i miei gusti, il cuoco ci ha messo un po’ troppa cipolla.
Slobo vuole ripartire; non ha idea di quanto ci vorrà a raggiungere Srebrenica, anche se dovrebbe distare da qui solo una ventina di chilometri. Poca strada, ma sono tempi difficili per chi viaggia.
Io devo bere il mio solito caffè: non si può ricominciare a funzionare, dopo pranzo, senza berne uno. Io, perlomeno, sono troppo italiano per riuscirci.
Al cameriere pare quasi dispiaccia che glielo ordini. Mi chiedo che cosa abbia da fare di così importante; dal modo in cui mi guarda pare mi voglia dire che gli sto solo facendo perdere tempo.
Forse ce l’ha con tutti gli stranieri che arrivano qua come avvoltoi a veder marcire il cadavere del suo paese, se non addirittura a contribuire in prima persona alla sua distruzione. Il suo paese. Chissà con che nome lo chiama? Jugoslavia, Serbia, Srpska o Bosnia Herzegovina? Meglio non chiederglielo.
Bevo in fretta il mio caffè serbo; si sta facendo tardi.
Cos’è un caffè serbo? È come un caffè croato, che è come un caffè greco; a parte qualche dettaglio, che non mi pare troppo importante ricordare, è come quello che in tutto il resto del mondo è chiamato caffè alla turca.
Ecco: il caffè è una buona metafora per quel che accade nei Balcani; tutti, in questa parte del mondo, vorrebbero piazzare la propria bandiera dentro la stessa, medesima, identica tazzina.
Dopo il villaggio, la strada si fa stretta e va a incunearsi tra due alte colline. Ci sono mucche che pascolano nei prati tutto attorno; ha piovuto molto in primavera e l’erba è ancora verde smeraldo in questi primi giorni di luglio del 1995. Guardo in alto; verso le folte pinete che coprono la cima delle colline. È proprio come a casa; come ovunque in Europa, voglio dire, e specialmente come qualunque posto ai piedi delle Alpi. Potremmo essere da qualche parte in Svizzera, in Austria, nell’Italia Settentrionale o in Baviera; scegli tu la regione che preferisci.
È questo che rende questo conflitto diverso da qualunque altro dopo la Seconda Guerra Mondiale; è questo a turbare anche i più stagionati veterani tra noi.
Siamo abituati ad associare l’idea della guerra a posti lontani come il Vietnam, dove alcuni dei più vecchi giornalisti che s’incontrano a Belgrado hanno iniziato la loro carriera, o come il Medio Oriente, per i miei coetanei che hanno assaggiato il gusto della guerra in epoche più recenti.
Si era trattato, ad ogni modo, di luoghi esotici e di popoli diversissimi dai nostri, o almeno così potevamo illuderci, e ci era stato facile pensare, allora, che le devastazioni che vedevamo attorno a noi non sarebbero mai più potute accadere nei nostri paesi. La civilissima Europa, ci potevamo raccontare per tranquillizzarci, e i suoi coltissimi abitanti, non sarebbero mai tornati a provare quegli orrori; dopo due guerre mondiali, avevano imparato la lezione.
Non c’è nulla di esotico in questo paese; le case che vediamo bruciare nei villaggi distrutti da questa guerra assomigliano alla mia o alla tua. I carnefici e le vittime, qui, assomigliano a me e a te; o a te e a me.
La radio urla a tutto volume una canzone degli
Eagles; Slobo li adora e comincia a cantare con loro, anche se non parla
l’inglese. Io giocherello con carta e penna; disegno circoli e quadretti senza
senso su di un bloc notes che tengo appoggiato alle ginocchia. All’improvviso
sento qualcosa colpire la carrozzeria dell’automobile: una specie di forte
tonfo. Penso che sia stato un ciottolo più grosso degli altri, del ghiaietto
che vedo lungo il bordo della strada, sollevato dalle nostre stesse ruote.
È un istante, poi Slobo comincia a urlare; un
urlo altissimo che sembra non voler finire mai.
Sollevo la testa dal foglio di carta e mi guardo attorno; non riesco a capire cosa stia succedendo. Slobo continua a urlare.
Lo guardo; mi accorgo solo ora che c’è del sangue sulla sua portiera. Tanto sangue.
Lui ha la presenza di spirito di schiacciare a fondo sull’acceleratore; schizziamo via a tutta velocità. Guida come un pazzo per un paio di minuti, nel corso dei quali rischiamo di finire fuori strada una decina di volte, poi accosta. Il motore dell’automobile si spegne; lui collassa all’indietro sul sedile.
Io scendo dall’automobile. Li sento solo adesso; gli inconfondibili “kra-kra-krak” dei Kalashnikov e i sordi “tu-tu-tu-tud” di qualcosa di più pesante. Sento calore al volto e alle braccia; vampate. È la prima volta in vita mia che provo il calore della paura. Qualcuno, non ricordo chi, mi ha raccontato che esiste; ora so che non mentiva: che la paura, oltre un certo limite, diventa bollente.
Slobo geme, con la testa gettata all’indietro e il mento puntato verso il soffitto dell’abitacolo. C’è un buco nella sua portiera: un piccolo squarcio, lungo cinque centimetri e largo uno, nel metallo, appena sotto il finestrino.
Apro la portiera; posso vedere che è stato ferito al braccio sinistro, appena sopra il gomito. Se fossimo in un film, ci sarebbe un forellino nella manica della sua camicia, da cui colerebbe un sottile, quasi grazioso, rivoletto di sangue; Slobo mi sorriderebbe e direbbe “è solo un graffio” o qualcosa di altrettanto rassicurante.
Il braccio è quasi tagliato in due; posso vedere le sue ossa rotte uscire dalla ferita e c’è sangue ovunque. Mi sento male; sto per vomitare.
Slobo impallidisce a vista d’occhio; sta perdendo troppo sangue.
Mi levo la cintura dai pantaloni e cerco di farne un laccio emostatico stringendogliela al braccio; dalla ferita esce ancora sangue, ma meno di prima. Slobo riesce ancora a muoversi; lo aiuto a scivolare dal suo posto dietro il volante a quello del passeggero.
C’è un buco largo cinque o sei centimetri nel pavimento dell’automobile, lo vedo quando cerco con gli occhi il pedale dell’acceleratore, ma il motore parte senza il minimo problema.
Guido più veloce che posso. Slobo, al mio fianco, tace; mi volto per controllare le sue condizioni e quasi vado dritto a una curva. Continuo a guidare senza rallentare per un’eternità, con il cuore che mi batte fortissimo nel petto, fino a quando vedo, dritto davanti a me, alla fine di un lungo rettilineo che scende giù da una dolce collina, quello che sembra un grande villaggio.
Ci sono tre o quattro blindati BMP di fabbricazione sovietica, con dei soldati dell’esercito regolare jugoslavo a bordo, parcheggiati davanti alle prime case; devo aver riattraversato la frontiera ed essere rientrato, senza accorgermene, nel territorio della Federazione Jugoslava.
Mi fermo davanti a loro. Dei soldati arrivano subito, prima ancora che possa scendere dall’automobile. Qualcuno di loro vede Slobo, si accorge che è ferito, e urla chiedendo aiuto; arrivano altri soldati.
Uno di loro ha con sé una specie di zainetto squadrato, di tela verde militare, marchiato da una grande croce rossa dentro un circolo bianco. Io comincio a tremare; sento freddo. Non riesco a pensare, per un momento temo di svenire.
I soldati portano via Slobo.
Qualcuno mi parla in serbo. Capisco solo qualche parola; non abbastanza.
Lo stesso qualcuno mi prende per un gomito e mi guida fino a una casa.
Ho la visione, sfuocata, di una grande stanza con un vecchio televisore in bianco e nero e un grande tavolo ricoperto di una tovaglia di plastica verde stampata con degli enormi fiori di un giallo impossibilmente giallo. Un’altra visione; quella del volto scavato dalle rughe di una vecchia che mi offre un bicchiere pieno di rakia. Il sorriso sdentato della donna è dolcissimo. La rakia, la grappa fatta in casa che si beve in tutti i Balcani, è fortissima; mi brucia la bocca e la gola. I fumi del suo alcol mi pizzicano il naso. La bevo tutta di un fiato; la vecchia mi riempie di nuovo il bicchiere. Fino all’orlo.
Un uomo, tanto vecchio da camminare quasi piegato in due, forse il marito della donna, mi porta in un’altra stanza e mi mostra un letto.
Vorrei protestare, poi mi sdraio sopra le coperte. “Solo un minuto per riprendermi”, mi dico, prima di addormentarmi.
È lo stesso vecchio che viene a svegliarmi, non so quanto tempo dopo; c’è un ufficiale che vuole parlare con me. È un maggiore e parla perfettamente inglese; dev’essere stato mandato fin qui da Belgrado apposta per interrogarmi. Mento e dico che ci siamo persi, mentre cercavamo di raggiungere Loznica. Capisco, dalla sua smorfia, che non crede a una sola parola di quel che gli dico, ma per qualche ragione decide di non approfondire la propria indagine. Riassume qual che ho detto in una breve relazione e mi chiede di firmarla; nient’altro. Sono libero di andare dove meglio mi pare, mi dice quando ci salutiamo, ma mi consiglia caldamente, per usare un eufemismo, di ritornare a Belgrado. La strada statale che si congiunge all’autostrada verso la capitale, da qui in poi, è perfettamente sicura, mi dice, e il mio amico, come lui chiama Slobo, è su un’ambulanza che lo sta trasportando in un ospedale di quella città.
La mattina dopo, la moglie di Slobo siede al suo capezzale in una sovraffollata corsia dell’Ospedale Generale, il più grande del centro di Belgrado; conto dodici altri letti. Slobo è sveglio e mi sorride. Sorridono entrambi. Lui ha perso il braccio.
“Non sono riusciti a salvarmelo”, mi dice. “Non ci hanno neppure provato troppo. Magari in un altro momento ci avrebbero perso più tempo, ma con la guerra i chirurghi hanno troppo da fare”. Ha anche il coraggio di scherzarci sopra: “Mi è andata bene, dopo tutto; era solo il sinistro. Ho sempre fatto schifo a palleggiare di sinistro; a basket, in fondo, era già come se giocassi con un braccio solo”.
Mi ringrazia per aver riportato a casa l’automobile e quasi mi chiede scusa per il disturbo. È dispiaciuto perché non siamo riusciti a raggiungere Srebrenica.
Gli lascio tutto quello che ho con me; mi sono portato dietro apposta circa duemila Marchi. Devo faticare per convincerli ad accettare il denaro; Slobo continua a dire che sono troppi soldi, ma sua moglie, alla fine, cede. Gli uomini sono fieri e le donne sono sagge; non c’è niente da ridire, siamo fatti così.
La moglie di Slobo prende i soldi dalle mie mani ed io, in quel momento, mi sento una vera puttana. Me ne vado.
Quando finalmente mi decisi a telefonare in ufficio, l’uomo che mi rispose, mi disse che ero in ritardo per consegnare l’articolo che, secondo gli accordi, avrei dovuto scrivere per loro.
Gli raccontai quel che mi è accaduto.
L’idiota all’altro capo del filo del telefono dapprima sembrò sorpreso, poi mi chiese come mai l’incidente non era ancora stato riportato dalle agenzie d’informazione.
Mi arrabbiai subito; gli spiegai, usando molte male parole, che quel che accadeva a gente come Slobo, ormai, non faceva più notizia: era solo uno slavo, jugo o no che fosse, e non aveva neppure avuto il buon senso di morire.
L’uomo cercò di calmarmi rovesciandomi addosso una sequela di frasi vuote di tutto tranne che di retorica.
Rimasi in silenzio, lasciandolo proseguire a suo piacimento.
Quando finalmente pensò d’aver compiuto appieno il proprio dovere di figura paterna, mi chiese: “Ma chi sono stati? I serbi? I musulmani? Ci sono anche croati da quelle parti?”.
Ti senti trasportata nel luogo del racconto e riesci a percepirne tutte le sfumature, le emozioni, i suoni, gli odori e i sapori descritti. Trovo il racconto molto attuale: da qualche parte nel mondo c'è sempre, purtroppo, una storia di guerra che deve essere raccontata e, a volte, non ci soffermiamo su quanto costi farlo. Grazie!
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