Una giovane amica statunitense, poco tempo fa, mi ha accusato di essere un bieco maschilista perché le ho detto di
ritenere poco utile un corso di “storia dell'arte femminile” che intendeva
seguire. Ho cercato di spiegarle che questo modo di interpretare la storia
dell'arte, del tutto simile a quello che ha portato alla creazione dei corsi di
studi “afroamericani”, è un passo verso una maggiore
domenica 30 novembre 2014
sabato 29 novembre 2014
venerdì 28 novembre 2014
SOLITUDINI CHE SI SFIORANO: EDWARD HOPPER, NIGHTHAWKS.
Nighthawks, I nottambuli, di Edgard Hopper. Olio su tela, cm 84 x 152. Chicago Art Institute. |
Uno squillo giallo che è, a suo modo, una dichiarazione programmatica. Un soffitto, illuminato dalle luci al neon. Se il nostro occhio è attirato dalla luce, questa è la prima cosa che vediamo di Nighthawks, una delle più celebri tele di Edward Hopper. Quasi altrettanto luminoso, il bianco della bustina e della camicia che indossa il barista. Elementi irrilevanti di una narrazione messi in primo piano dal caso; che sono dipinti a quel modo, perché sono così. Sono un pittore realista, pare ci voglia dire Hopper, non semplicemente figurativo: dipingo la realtà per come si presenta. La retorica, nei miei quadri, non trova spazio.
mercoledì 26 novembre 2014
JOSÉ SARAMAGO, L'ULTIMO DEI VEDENTI
Lo conobbi grazie ad Ennio, che è stato il mio libraio di fiducia fino a quando, una decina d’anni or sono, la concorrenza delle grandi catene di librerie e l’aumento dei costi di gestione, lo hanno costretto ad abbassare la serranda della sua secolare libreria: uno di quei posti con i muri ricoperti di scaffali di legno scuro e l’aria impregnata dell’odore della carta e dell’inchiostro che ormai è quasi impossibile trovare, non solo in Italia.
Era il 1996 e vivevo già all’estero da quindici anni. Tornavo nella mia città natale, un paio di volte l’anno, più per andare in quella libreria e fare scorta di libri italiani che per visitare i pochissimi conoscenti che mi erano rimasti in quel civilissimo borgo selvaggio dove mi trovavo sempre più sperduto; il lago era sempre lo stesso e uguale rimaneva la fredda cortesia della gente, ma diverso era l’egoismo senza remore, elevato a virtù, che si respirava ovunque e nuovo era il cinismo che animava anche le menti più brillanti.
Una riduzione al minimo del sano realismo lombardo che stava rendendo la vita pubblica, incurante della decadenza sempre più evidente delle cose e delle idee, quel che è ora: un lotta tra bruti per occupare l’angolo più asciutto della caverna.
lunedì 24 novembre 2014
FLAVIUS CERIALIS, SULPICIA LEPIDINA E LA VERA GRANDEZZA DI ROMA
Vindolanda era uno dei forti distribuiti lungo il muro di Adriano. I soldati della sua guarnigione, tra il primo e il secondo secolo della nostra era, forse per ingannare il tempo, scrivevano in continuazione. Documenti di servizio, certo, ma anche lettere a amici e parenti. Lo sappiamo perché gli archeologi, negli anni 70, hanno ritrovate centinaia di queste missive, ancora perfettamente leggibili. Quando subentrava una nuova guarnigione, la vecchia ripuliva il forte e buttava tutte le “cartacce” in un fosso dove, grazie alla particolare composizione chimica del terreno, si sono conservate fino ai nostri giorni. Sono scritte su tavolette di legno dello spessore di quelle usate per le cassette della frutta, grandi quanto un foglio di quaderno e riunite due a due da dei lacci, solitamente di pelle. Sono uno dei più grandi monumenti alla civiltà di Roma di cui io a sia conoscenza. Testimoniano, prima di tutto, come nell'esercito romano quasi non ci fossero analfabeti.
venerdì 21 novembre 2014
GOBBA A PONENTE, LUNA CRESCENTE
“G
|
obba a ponente, luna crescente; gobba a levante, luna
calante”. Non ricordo chi mi abbia insegnato questa filastrocca; forse le suore
nell’unico anno (tragico perché non sopportavo l’obbligatorio riposino
postprandiale; prima imposizione del sistema che mi trovassi ad affrontare) in
cui fui spedito all’asilo.
giovedì 20 novembre 2014
martedì 18 novembre 2014
VAN EYCK, VELÀZQUEZ E I LORO SPECCHI
Sono due
straordinari brani di pittura, ma sono pure solo dettagli di due capolavori che
certo conoscerete tutti benissimo; solo particolari dentro rappresentazioni di
mondi, prima ancora che di interni, tanto ricche e complesse da essersi
meritate interi volumi, scritti, oltre che dagli storici dell'arte, da
economisti e da sociologi.
Un'attenzione
meritata. Bastano infatti quelle arance, lasciate in modo apparentemente
casuale sul davanzale, e accanto alla finestra, per raccontarci delle rete
internazionale di commerci che doveva fare capo alla Bruges in cui vivevano il
mercante toscano e la sua signora. Gli inchini e le genuflessioni delle
damigelle, a fianco dell'infanta Margarita, costretta ad apparire freddamente
regale nonostante avesse solo cinque anni, possono poi benissimo fare da spunto
ad una riflessione sulle condizioni di una corona spagnola cui, a metà
seicento, restavano il cerimoniale, la pompa, e già ben poco d'altro. Si, i
quadri di cui vi sto parlando sono I coniugi Arnolfini e Las Meninas.
Quelli che vi invito ad osservare di nuovo assieme a me, sono gli specchi appesi
alle pareti che ne delimitano le “scenografie”.
Velázquez, che completò Las Meninas, oggi al Prado,
nel 1656, potrebbe benissimo aver pensato di mettere là il suo, proprio dopo
aver osservato quello dipinto da Van Eyck nel 1434. Il Maestro spagnolo, per
guadagnarsi l'appannaggio concessogli da Filippo IV ricopriva anche l'incarico
di conservatore delle collezioni reali e pare che a queste, in quel periodo,
appartenesse anche il ritratto dei coniugi toscani.
lunedì 17 novembre 2014
LINGUE E DIALETTI. E LINGUE MORTE, SACRE, NOBILI, PRIMITIVE, LOGICHE...
Lingua e dialetto.
Dobbiamo a Noahm Chomsky l'unica differenziazione che abbia davvero senso, tra questi due termini. Una lingua, dice il filosofo americano, è un dialetto con un esercito.
L'Italiano e i suoi dialetti.
La nostra lingua nazionale, storicamente non ha dialetti. Quelli che chiamiamo così, il milanese o il palermitano, il veneziano o il napoletano, sono lingue vere e proprie, non certo versioni impoverite dell'Italiano, cui non li legano neppure rapporti genealogici. Non sono, detto altrimenti, nate dopo questo e da questo, ma sono altre lingue neo-latine, con una storia ed un'evoluzione tutte proprie.
Lingue locali: lingue morte e lingue sacre.
Quando muore una lingua? Quando mure l'ultimo che aveva potuto condurre al propria vita senza conoscerne altre, è l'unica risposta sensata a questa domanda. Vale a dire quando scompare l'ultimo che parlando solo quella lingua abbia avuto modo di crescere, raggiungere un livello di istruzione adeguato e lavorare. Qualunque altra definizione, cade corta. Se si badasse solo alla sua conoscenza ed al suo uso, infatti, anche una lingua come il Latino, studiata da milioni ed ancora lingua ufficiale della Chiesa, andrebbe considerata viva, quando, con tutta evidenza, non lo è. Affermare questo, significa pure dire che sono morti la stragrande maggioranza dei nostri “dialetti”; che sono diventati, a tutti gli effetti, lingue sacre.
domenica 16 novembre 2014
ASPETTANDO L'ESTATE
A mio
figlio
che sta
per conoscere l’estate.
Nel
frangersi fragoroso degli anni,
restano
dolci quelle lontane estati,
quando il
futuro aveva vent’anni
e l’amore
vestiva di cotoni leggeri.
Corron
gambe snelle color del pane,
tra
ricordi d’indaco odor di lavanda;
sulle
labbra il fuoco di labbra di croco
e le
ardite parole del cuore che s’apre.
Gli occhi
nello specchio ai miei occhi
chiedono
di quell’intatta innocenza
e di
quell’eroico ignorante coraggio.
Mi
sorride la bocca un’assoluzione:
aver
macinato vita e non mancarsi
posson i
molti vili e solo pochi santi.Olmo dormiente
Olio su tavola. Cm 50 x 50
sabato 15 novembre 2014
GLI OCCHI DI CLAUDIA (RIPENSANDO A SCIASCIA)
Conobbi Leonardo Sciascia quando, durante un cineforum organizzato nel cinema parrocchiale dietro casa, proiettarono Il giorno della civetta; il film tratto dall’omonimo romanzo dell’autore siciliano e diretto da Damiano Damiani.
Mi piacque il film, bello come i migliori western (credo avessi tredici o quattordici anni e quelli erano i film che mi
piacevano allora) e mi piacque, soprattutto, la bellissima
Claudia Cardinale. Me ne innamorai, ma, forse perché avevo
troppi brufoli, tra noi poi non vi fu nulla.
Incontrai di nuovo Sciascia un decennio dopo, in
libreria; lo stesso Il giorno della civetta, edito da Einaudi (l’ho ripreso in mano per scrivere questa nota) che comprai, lo
ammetto, solo nella speranza di rivedervi, almeno con la
mia fantasia, gli occhi della bella Claudia che non fu mai mia.
Lessi il romanzo, con la voracità di allora, nello
spazio di un fine settimana.
Mi sorprese innanzitutto l’italiano di Sciascia;
diretto, rispettoso della parola e del suo peso. Ritrovai il mio
amato Hemingway in quel suo periodare scarno eppure così
attento ai ritmi del racconto; così diverso – fu una sorpresa,
almeno per me - da quello di tanti narratori italiani, non solo di
quegli anni, che, innamorati delle proprie parole, spesso dimenticano
quale sia il loro scopo. Ancora di più mi piacque il sapore di
Sicilia (il sapore che amo, anche oggi, trovare nei romanzi di
Camilleri)della lingua che Sciascia mette in bocca ai personaggi
del suo romanzo; in particolare a quelli minori, vivissimi, che
contribuiscono a fare de Il giorno della civetta, prima che un
giallo, un grande affresco di realismo sociale.
domenica 9 novembre 2014
SETTE SONETTI SCESPIRIANI
“Non so fino a che punto potrai apprezzarla, ma, a modo suo, è una testimonianza del rapporto che cerco di avere con i grandi del passato.
Può sembrare inutile una simile traduzione che, per rispettare metro e rima, deve introdurre altri e ben più gravi tradimenti dell’originale. Le parole italiane, con tutte le loro vocali, hanno infatti molte più sillabe delle loro corrispondenti inglesi. Questo fa sì che traducendo letteralmente,
venerdì 7 novembre 2014
A LEZIONE DA CARAVAGGIO
Credo di avere capito un paio delle lezioni di Caravaggio.
Un sole di notte.
Olio su tavola. Cm 50 x 50.
In una delle Lettere dalla fine del mondo narro la realizzazione di un quadro simile.
giovedì 6 novembre 2014
I FEROCI CASTRATORI DI BABIC'
I nomi composti, come i modi di dire, sono preziosissimi giacimenti di parole altrimenti dimenticate. Uno dei primi che abbia attratto la mia attenzione, tra quelli presenti nella lingua dei miei nonni alto-valtellinesi è stato sana-babic'; un'ingiuria, ma non tra le più terribili, che potremmo all'incirca tradurre con l'ormai pan-italico “minchione”. Pochi dubbi sul significato della prima delle due parole che lo compongono. Sanar, in quell'idioma, significa né più né meno che castrare. L'offesa, dunque, doveva essere suppergiù costruita come il soprannome che fu di Castruccio, il più glorioso tra gli Antelminelli, nobili ghibellini e lucchesi; insomma, come castra-cani.
martedì 4 novembre 2014
GABINEL, GAVINEL
Cap. 1 - LE STORIE SONO COME LE STRADE
In città ero nuovo e, anche se non lo avrei
mai ammesso, sperduto ed impaurito come quel bimbo che nella favola si
ritrova solo in mezzo agli sconosciuti pericoli del bosco.
Avevo ventiquattro anni, allora. Giovane, ma
in realtà ancora più giovane, se consideri che gli ultimi sei di quegli anni li
avevo trascorsi nell’esercito; in un ambiente sterile e quasi perfettamente chiuso
alle influenze del mondo esterno. Un universo auto-sufficiente, auto-referenziale,
auto-contenuto. Auto-tutto. Un grembo, a modo suo, che avevo trovato tanto
confortevole, dopo essermi abituato alle sue regole ed ai suoi divieti, da
provare un dolore quasi fisico quando avevo deciso di lasciarmelo alle spalle
per sempre.
Qualcosa che forse non avrei mai fatto, se
fosse esistito un altro modo di sfruttare l’incredibile opportunità, offertami
dalla sorte, di realizzare quel che restava dei miei sogni d’adolescente.
Sono nato in una cittadina di provincia dove
il basket è una vera e propria religione e, dopo averne imparati i sacri
fondamentali nelle formazioni giovanili della squadra locale, allora famosa in
tutta Europa, e nonostante non mi fossi dimostrato poi abbastanza bravo da
guadagnarmi da vivere con una palla tra le mani, a quella religione sono
rimasto sempre fedele.
Non l’ho tradita neppure mentre ero
nell’esercito, continuando a giocare anche mentre vi ero arruolato, seppure
solo in un campionato minore, dopo aver trovato posto nella squadra del
paesotto delle Alpi dove era acquartierato il mio reparto: un gruppo di amici,
molti ben oltre la trentina e con dei normali lavori da svolgere durante il
giorno, che si ritrovava un paio di sere la settimana per degli allenamenti
ridotti,dalle mediocri condizioni fisiche di moltitra noi, a poco più che a
delle sedute di tiro. Soldi? Se pensi che giocavamo la domenica, contro altre
squadre di quella provincia e di quella limitrofa, sul linoleum della stessa
palestra dove ci allenavamo e davanti a un pubblico di poche dozzine di persone,
composto quasi esclusivamente di amici e parenti, capirai chec’era tanta
passione, ma assolutamente nient’altro.
Quell’estate una squadra, neopromossa in serie
A2, per sfuggire all’afa della pianura era venuta a tenere il raduno
precampionato da quelle parti.
Alla fine di uno dei nostri allenamenti un
tipo sulla cinquantina, con la tuta di quella squadra addosso, mi si era avvicinato
e mi aveva chiesto se me la fossi sentita di andare a giocare per qualche giorno
con loro; avevano ancora alcuni contratti in alto mare, uno dei loro playmaker
si era slogato una caviglia ed erano rimasti in nove.
Senza pensarci un secondo, avevo detto di
sì. Ero corso in caserma, avevo pregato
il Capitano, implorato il Colonnello ed avevo ottenuto due settimane di
licenza.
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