martedì 4 novembre 2014

GABINEL, GAVINEL


 
Gabinel, gavinel,
o, come mi segnala il poeta Giuliano Natali, gambinel, è il nome che si dà al falco, o più precisamente al gheppio, lungo le nostre Alpi Orientali. Ho riflettuto sulla sua etimologia, ma inizialmente sono arrivato a ben poco. Il latino gavia da cui proviene il nostro gabbiano? Poco probabile che sulle Alpi si sia sentito il bisogno di  affibbiare ad un rapace il nome, d'importazione, di un uccello marittimo. E poi il gavia dei latini pare avesse una base onomatopeica, e se i gabbiani fanno “ga ga”, certo non lo fanno i falchi. Qualcosa a che vedere con il giallo? Con il galbinus che sta alla base pure del nome di un particolare tipo di ciliegie, ( i galbini, appunto)? Mah .. forse. Certo che non sono i riflessi giallastri delle piume, la prima cosa che salta all'occhio quando si vede un falco. A mettermi sulla pista che  credo sia quella giusta, e a convincermi a scrivervi questa pillola, è stato il mio vicino Polan, che ho visto passar via armato di falcetto. Anzi, di gabilan, come si chiama in galiziano quell'attrezzo. Non solo; mi basta scambiare due parole con il mio amico, per scoprire che gabilan è, anche da queste parti, il nome che si dà ad un falchetto. E qui mi sono illuminato. E già: falchetto … falcetto, si chiamano su per giù allo stesso modo perché hanno la stessa forma. L'ho detto a Polan. Mi ha guardato come fa certe volte; quando pensa che sono irrimediabilmente “di città”. Per lui, che il gabilan che aveva tra le mani avesse lo stesso profilo della ali del gabilan che vola in cielo era assolutamente ovvio. L'ho ringraziato, salutato e mi sono messo a pensare a qualche oggetto ricurvo che, nella mia lingua, si chiamasse su per giù come gavinel. L'ho trovato quasi subito: “gavel”, uno dei quarti di cerchio di cui si compone il profilo di una tradizionale ruota in legno.  Non solo; gavèla si diceva di una fanciulla dalle gambe non proprio dritte. Armato di tutto questo, mi sono messo a frugare nelle mie cartacce e ho scoperto uno splendido gabilo* termine celtico ricostruito per dire ricurvo, piegato. E credo si essere felicemente arrivato al termine della mia ricerca.
 
 
 
 

Cap. 1 - LE STORIE SONO COME LE STRADE





In città ero nuovo e, anche se non lo avrei mai ammesso, sperduto ed impaurito come quel bimbo che nella favola si ritrova solo in mezzo agli sconosciuti pericoli del bosco.
Avevo ventiquattro anni, allora. Giovane, ma in realtà ancora più giovane, se consideri che gli ultimi sei di quegli anni li avevo trascorsi nell’esercito; in un ambiente sterile e quasi perfettamente chiuso alle influenze del mondo esterno. Un universo auto-sufficiente, auto-referenziale, auto-contenuto. Auto-tutto. Un grembo, a modo suo, che avevo trovato tanto confortevole, dopo essermi abituato alle sue regole ed ai suoi divieti, da provare un dolore quasi fisico quando avevo deciso di lasciarmelo alle spalle per sempre.
Qualcosa che forse non avrei mai fatto, se fosse esistito un altro modo di sfruttare l’incredibile opportunità, offertami dalla sorte, di realizzare quel che restava dei miei sogni d’adolescente.
Sono nato in una cittadina di provincia dove il basket è una vera e propria religione e, dopo averne imparati i sacri fondamentali nelle formazioni giovanili della squadra locale, allora famosa in tutta Europa, e nonostante non mi fossi dimostrato poi abbastanza bravo da guadagnarmi da vivere con una palla tra le mani, a quella religione sono rimasto sempre fedele.
Non l’ho tradita neppure mentre ero nell’esercito, continuando a giocare anche mentre vi ero arruolato, seppure solo in un campionato minore, dopo aver trovato posto nella squadra del paesotto delle Alpi dove era acquartierato il mio reparto: un gruppo di amici, molti ben oltre la trentina e con dei normali lavori da svolgere durante il giorno, che si ritrovava un paio di sere la settimana per degli allenamenti ridotti,dalle mediocri condizioni fisiche di moltitra noi, a poco più che a delle sedute di tiro. Soldi? Se pensi che giocavamo la domenica, contro altre squadre di quella provincia e di quella limitrofa, sul linoleum della stessa palestra dove ci allenavamo e davanti a un pubblico di poche dozzine di persone, composto quasi esclusivamente di amici e parenti, capirai chec’era tanta passione, ma assolutamente nient’altro.
Quell’estate una squadra, neopromossa in serie A2, per sfuggire all’afa della pianura era venuta a tenere il raduno precampionato da quelle parti.
Alla fine di uno dei nostri allenamenti un tipo sulla cinquantina, con la tuta di quella squadra addosso, mi si era avvicinato e mi aveva chiesto se me la fossi sentita di andare a giocare per qualche giorno con loro; avevano ancora alcuni contratti in alto mare, uno dei loro playmaker si era slogato una caviglia ed erano rimasti in nove. 
Senza pensarci un secondo, avevo detto di sì.  Ero corso in caserma, avevo pregato il Capitano, implorato il Colonnello ed avevo ottenuto due settimane di licenza.

venerdì 31 ottobre 2014

I NOMI DEL NERO E L'ESTETICA DEGLI ALTRI

Noi diciamo sempre nero, ma i Romani dicevano niger, se quel nero era lucido, e ater se era opaco. Dove noi vediamo un colore, detto altrimenti, loro ne vedevano due tanto diversi da meritarsi nomi così differenti. E dove noi diciamo e vediamo solo bianco, loro vedevano albus, se opaco, e candidus, se brillante. Distinzioni simili sono fatte anche da molte lingue africane ed è facile capire come per gli scultori che le parlano, l'opposizione liscio-ruvido, e quindi niger-ater, sia tanto importante quanto è quella tra pieno e vuoto per uno scultore occidentale. Tutto questo, per dire come sia tutt'altro che scontato che la nostre siano le uniche sensibilità ed estetiche possibili. Non solo; che in passato si è arrivati a negare l'esistenza del pensiero estetico di altre civiltà, lontane dalla nostra nel tempo o nello spazio, solo perché non conoscevamo il lessico e la grammatica del linguaggio artistico in cui si esprimevano.


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giovedì 30 ottobre 2014

BALLOTTE, BALOTI, BELLOTAS E ALTRE ROTONDITÀ





Grazie a Macek Zini, ho scoperto che in Toscana le castagne lesse si chiamano ballotte, un termine molto prossimo al beloti di certi dialetti lombardi e allo spagnolo bellotas che, però, indica le ghiande della quercia.  Non ci è voluto molto a scoprire, semplicemente consultando i dizionari, 

mercoledì 29 ottobre 2014

Cap. 4 - QUARTO POTERE



Tenevo la rivista aperta tra le mani e leggevo il mio articolo per la millesima volta. Non potevo credere che lo avessero pubblicato e che là, sotto il titolo, scritto in caratteri forse troppo piccoli, ma perfettamente leggibili, ci fosse il mio nome.
Uno dei miei sogni giovanili si era fatto realtà; ero diventato un giornalista: le mie parole, i mei pensieri, i miei stessi ideali erano lì, nero su bianco, a disposizione di chiunque volesse leggerli, ovunque, in qualunque continente. Non erano, frasi e idee, più solo mie: appartenevano a tutta l’umanità. Per sempre.
Ora sapevo per quale ragione ero stato messo al mondo; quale avrebbe dovuto essere lo scopo della mia vita. Avevo finalmente trovato, per usare un’espressione della mia cattolicissima nonna materna, la mia vera vocazione.
Nulla, nell’intero universo, sarebbe stato grande abbastanza da reggere il paragone con la sensazione di totale appagamento che provavo in quel momento. Era la più grande delle gioie possibili; la più perfetta e completa delle felicità.
Mi pareva impossibile che qualcosa di così assolutamente incredibilmente fantasticamente meraviglioso stesse accadendo a me, proprio a me. Dovevo dirlo a qualcuno.
Andai al telefono e composi quello che, per quasi due anni, era stato anche il mio numero. Nessuno rispose. Non me ne stupii, dopo tutto; sapevo che ben difficilmente avrei trovato Valeria ancora a casa, la mattina così tardi. Avevo cercato di raggiungerla lì solo perché non potevo fare altrimenti; i telefonini c’erano già, a quel tempo, ma erano tutt’altro che “ini”, grandi come mattoni, e terribilmente costosi. Una roba da manager o comunque da straricchi e Vale non era certo una donna in carriera e ricca sembrava destinata a non diventarlo mai.
Scrollai le spalle; l’avrei chiamata durante la serata, quando sarebbe tornata a casa dopo l’allenamento.

lunedì 27 ottobre 2014

MALEVIC FONTANA RHOTKO


Malevic' viaggiò fino ai limiti della pittura e tornò indietro.

Fontana arrivò fin là, squarciò la tela e cercò di andare oltre.

Rhotko restò, con le vene tagliate, a contemplare l'abisso.



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E` LA VERA MADDALENA DI CARAVAGGIO

E’ la vera Maddalena.

Lo annuncia Mina Gregori, rivelando di aver ritrovato uno dei quadri che il pittore aveva con sé nel suo ultimo viaggio. L’originale di un capolavoro noto solo attraverso quelle che ora appaiono essere, tutte, solo delle copie.



Porto Ercole, era allora parte degli Stati dei presidi spagnoli di Toscana e una feluca la collegava regolarmente con Napoli. Fu questo, probabilmente, che fece pensare a Michelangelo Merisi da Caravaggio, che si trovava a Palazzo Cellammarre, a due passi dalla Riviera di Chiaia, ospite di Costanza Colonna Marchesa di Caravaggio, di servirsi di questa imbarcazione per rientrare inosservato nello Stato della Chiesa ed aspettare, a poca distanza da Roma, un perdono papale che si dava per certo e prossimo. La feluca, attraccò segretamente a Palo, presso Ladispoli, allora feudo degli Orsini, vi sbarcò l’artista, ma, per una qualche ragione, dovendo immediatamente ripartire per Porto Ercole, non i suoi bagagli. Tra questi, importantissimi per l’immediato futuro di Caravaggio, i quadri con cui si riprometteva di ringraziare il Cardinale Scipione Borghese per l’aiuto che gli aveva dato. Opere che rappresentavano, insomma, il prezzo delle sua libertà e che doveva a tutti i costi recuperare. Per questa ragione, ripartì subito per Porto Ercole. Viaggiò via terra, però, e nell’attraversare in piena estate gli acquitrini della costa laziale, si ammalò di “febbri”. Arrivò a Porto Ercole, ma solo per morirvi, il 18 luglio 1610.
Il Cardinale Borghese, saputo della scomparsa del pittore, mise in azione la propria rete di contatti per scoprire dove fossero finiti quei quadri che considerava suoi. Glielo fece sapere con una lettera, il 29 luglio di quell’anno, il Nunzio di Napoli, Deodato Gentile: “Re.mo. p.ron Colend.mo. Il povero Caravaggio non è morto in Procida, ma a port'hercole ove ammalatosi ha lasciato la vita. La felucca ritornata riportò le robe restateli in casa della S.ra Marchese di Caravaggio che habita a Chiaia, e di dove era partito il Caravaggio. Ho fatto subito vedere se vi sono li quadri e ritrovo che non sono più in essere, eccetto tre, li doi San Gio.anni e la Maddalena, e sono in sud.a casa della S.ra Marchese, quale ho mandato subito a pregare che vogli tenerli ben custoditi, che non si guastino, senza lasciarli vedere o andar in mano di alcuno, perché erano destinati e si hanno da trattenere per V.S. Ill.ma”.