Tenevo la rivista aperta tra le mani e leggevo il mio articolo per la millesima volta. Non potevo credere che lo avessero pubblicato e che là, sotto il titolo, scritto in caratteri forse troppo piccoli, ma perfettamente leggibili, ci fosse il mio nome.
Uno dei miei sogni giovanili si era fatto
realtà; ero diventato un giornalista: le mie parole, i mei pensieri, i miei
stessi ideali erano lì, nero su bianco, a disposizione di chiunque volesse
leggerli, ovunque, in qualunque continente. Non erano, frasi e idee, più solo
mie: appartenevano a tutta l’umanità. Per sempre.
Ora sapevo per quale ragione ero stato messo
al mondo; quale avrebbe dovuto essere lo scopo della mia vita. Avevo finalmente
trovato, per usare un’espressione della mia cattolicissima nonna materna, la
mia vera vocazione.
Nulla, nell’intero universo, sarebbe stato
grande abbastanza da reggere il paragone con la sensazione di totale
appagamento che provavo in quel momento. Era la più grande delle gioie possibili;
la più perfetta e completa delle felicità.
Mi pareva impossibile che qualcosa di così
assolutamente incredibilmente fantasticamente meraviglioso stesse accadendo a
me, proprio a me. Dovevo dirlo a qualcuno.
Andai al telefono e composi quello che, per
quasi due anni, era stato anche il mio numero. Nessuno rispose. Non me ne
stupii, dopo tutto; sapevo che ben difficilmente avrei trovato Valeria ancora a
casa, la mattina così tardi. Avevo cercato di raggiungerla lì solo perché non
potevo fare altrimenti; i telefonini c’erano già, a quel tempo, ma erano
tutt’altro che “ini”, grandi come mattoni, e terribilmente costosi. Una roba da
manager o comunque da straricchi e Vale non era certo una donna in carriera e
ricca sembrava destinata a non diventarlo mai.
Scrollai le spalle; l’avrei chiamata durante
la serata, quando sarebbe tornata a casa dopo l’allenamento.
Non lasciai che un simile insignificante
contrattempo rovinasse il mio umore. Ero entusiasta. Di più: ero pieno
d’entusiasmo all’idea di essere entusiasta.
E finalmente avevo qualcosa da celebrare nel
più sontuoso dei modi.
Erano due mesi che cercavo di trovare il
coraggio di andare a cena da Gundel,
il più raffinato ed elegante ristorante di Budapest e uno dei più lussuosi in
Europa.
Fondato nel 1910 dal famoso gastronomo Károly
Gundel, il ristorante che ancora portava il suo nome, situato ai margini del
grande parco cittadino, era un monumento alla cucina ungherese e al mai
abbastanza compianto, perlomeno da molti ungheresi, Impero Austro-Ungarico; una
nobile istituzione che, in quasi un secolo di storia, aveva riempito le
migliori pance della nazione, da quelle in divisa dei generali dell’esercito
Kaiser a quelle incravattate dei ministri del nuovissimo governo
democraticamente eletto.
E i comunisti? Quando erano al potere, lo
avevano chiuso?
Assolutamente no; non avevano neppure pensato
d’alzare un dito contro Gundel:
quelli che uscivano dalle sue cucine erano capolavori, opere d’arte come quelle
che si possono ammirare nei musei, e i compagni, per quanto male tu possano
aver detto di loro, amavano la cultura. E poi gli alti gradi del partito
sapevano benissimo che fare con caviale e fois gras; non devi credere a tutta
la propaganda che abbiamo messo in giro durante la guerra fredda.
Ad ogni modo, trovai facilmente il numero
sulle pagine gialle e telefonai. Mi rispose, in ottimo inglese, una voce
maschile che, per quanto beneducata, non poté evitare di deludermi: “Mi
dispiace, ma non abbiamo tavoli liberi per stasera”.
Decisi di usare, per la prima volta, le mie
nuove credenziali: “Forse, se controlla meglio, riesce a trovarmi un posticino.
Sono un giornalista. Sì, un giornalista straniero. Di che giornale? Ah, lavoro
per una rivista americana”.
Sentii la voce parlare in ungherese con
qualcun altro. Non riuscii a capire cosa stessero dicendo, ma sembravano
nervosi.
Quando tornò a rivolgersi a me, la voce era
tornata perfettamente calma: “Sì, signore. Aveva ragione signore; c’era rimasto
un tavolo libero. Cenerà da solo? Perfetto signore. Può ripetermi il suo
nome?”.
Aveva funzionato. Boja! Gonfiai il petto: Ero
diventato qualcuno che contava. Beh, magari non molto, ma ero solo all’inizio.
Guardai il mio riflesso nello schermo spento
del televisore che avevo di fronte (in bianco e nero, sembrava un pezzo
d’archeologia industriale, nonostante fosse stato prodotto in Cecoslovacchia
solo un paio d’anni prima). Non era il volto del povero vecchio Gombo quello
che vedevo; era quello un uomo di potere. Del quarto potere: quello che a
questo mondo conta più d’ogni altro.
No, Reader; non era il volto di un bugiardo.
Seguendo i precetti di un mio vecchio maestro, di cui prima o poi ti scriverò,
io non mento mai, se non trovo chi mi paga per farlo.
Ho detto che ero straniero e ... ero
indubbiamente straniero. Che ero un giornalista? Beh, avevano appena pubblicato
un mio articolo. Ho detto anche che scrivevo per un giornale americano? Ma era
la pura verità, in un certo senso.
Avevo conosciuto quello che sarebbe diventato
il mio capo un paio di settimane prima, in un tardo pomeriggio di vento e
pioggia.
C’era ormai poca gente in giro e la maggior
parte dei negozi lungo la Vaci Utca, il vialone centrale di Pest, aveva già
tirato giù le serrande. Io avevo appena finito di seguire la mia quotidiana
lezione d’ungherese per stranieri, all’università EötvösLoránd, e, dopo aver
percorso in fretta la via fino in fondo, avevo raggiunto, di fronte alla grande
torta nuziale di marmo del monumento dedicato al poeta Vörösmarty, l’unica
edicola in città che allora vendesse giornali stranieri.
Lui era arrivato proprio mentre io stavo
pagando l’ultima copia di USA today
che fosse rimasta, e che già m’ero infilato sotto il braccio, e non era
riuscito a nascondere la propria delusione, quando aveva compreso che quella
sera non sarebbe riuscito a leggere il suo giornale preferito.
Da lettore quale, prima di tutto, ero e sono,
mi era dispiaciuto per lui e gli avevo rivolto un sorriso di scusa.
Incoraggiato da questo, forse, lui allora mi aveva fatto una proposta: mi avrebbe offerto un aperitivo, in un bar lì vicino, se,
mentre lo bevevo, gli avessi fatto dare un’occhiata al giornale.
Ci avevo pensato su per un paio di secondi,
non di più.
Era tra i quaranta e i cinquanta, ben vestito,
con una classica giacca antracite da uomo d’affari e una cravatta tanto
discreta che non ne ricordo il colore. Non era né alto né basso, con un filo di
pancetta, ma non davvero grasso e indossava in paio d’occhiali dalla montatura
metallica. Sembrava, insomma, una persona perfettamente normale, un bancario o
un commercialista per capirci, e non avevo visto nessun rischio nell’accettare
la sua proposta.
“Perché no? Non ho niente di meglio da fare”,
avevo detto infine e mi ero avviato con lui verso il bar.
L’uomo, con mia sorpresa, si era rivolto in
perfetto ungherese al barista, che gli aveva risposto come se stesse parlando a
un vecchio amico, ed aveva ordinato un qualche vecchio cocktail a base di
whisky, mentre io ero andato sul sicuro e avevo chiesto il mio solito Negroni.
Avevamo poi preso i nostri intrugli, eravamo andati a sedere ad un tavolo di
fronte ad una delle grandi vetrate che offrivano una vista della strada ormai
semideserta e lì gli avevo passato il giornale.
Avevo appena iniziato a sorseggiare il Negroni
quando, lanciandogli uno sguardo distratto, mi ero accorto che l’uomo,
ignorando il resto del giornale, era già immerso nella lettura delle pagine
dedicate al basket, le uniche, a dire il vero, che interessassero anche me.
Glielo avevo detto e quello aveva rotto
definitivamente il ghiaccio tra noi.
Si chiamava Robert, era di Chicago e, mi aveva
spiegato, come molti abitanti di quella zona d’America, aveva origini
ungheresi. Soprattutto era un fanatico dei Bulls, i Tori, la squadra di basket
della sua città. Nel giro di pochi minuti era anche riuscito a dirmi che aveva
un’antenna satellitare, una delle prime in tutta Budapest, e ad invitarmi a
casa sua per vedere, assieme a quattro altri americani, gente che lavorava per
la General Electric che aveva appena acquistato una delle ditte statali privatizzate,
la prossima partita dei playoffs della NBA.
Michael Jordan, la stella dei Chicago Bulls, è
stato di sicuro uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi; capace di fare
miracoli in campo e anche 5000 miglia più lontano.
I Bulls, costretti a inseguire per quasi tutta
la partita, avevano vinto solo sul finale, quando noi avevamo già trasformato
il soggiorno di Robert in un deposito di lattine di birra vuote, proprio con
uno di quegli incredibili tiri, scoccati all’ultimo secondo e con il difensore
addosso, per cui M.J. (le iniziali bastano e avanzano) è passato alla storia;
un capolavoro che era stata la scusa perfetta per un altro giro di birre.
Troppo bello quel tiro, ci eravamo detti poi, e ci era scappato un nuovo giro.
Incredibile quell’uomo, che campione, c’eravamo detti poi, e, per celebrarlo,
eravamo stati tutti d’accordo che servisse un altro giro ancora.
La celebrazione era continuata con una
bottiglia di vino che era rimasta ormai sola, in un frigorifero altrimenti
deserto, ed era finita assieme all’ultima goccia dell’ultima bottiglia di
qualcosa che fosse rimasta in quella casa. Forse vodka, ma non ci giurerei.
Per allora, ad ogni modo, mi era stato offerto
un posto di lavoro. Beh, diciamo che mi era stata quasi offerta una specie di
posto di lavoro.
Robert era l’editore, il direttore e il capo
cronista di Budapest Weekly, un
settimanale in inglese che vendeva 20,000 copie; forse duemila agli stranieri
residenti in città e il resto a un crescente numero di ungheresi che lo leggeva
per approfondire i misteri della lingua dei nuovi e benvenuti liberatori (o dei
nuovi maledetti conquistatori, se hai una diversa visione del mondo).
Uno degli altri tre giornalisti, ad ogni modo,
stava per ritornarsene in Inghilterra perché, stanco di sopportare inverni
troppo freddi, e della paprika che gli ungheresi sembrano mettere dappertutto,
aveva accettato d’insegnare non ricordo cosa, se inglese o storia o tutti e
due, in una scuola superiore di Londra.
Quando lo avevo saputo, durante la serata,
avevo detto e ripetuto a Robert (mai chiamarlo Bob; lo odia) che mi piaceva
scrivere. Davvero. Che mi piaceva tanto, ma proprio tanto. Tantissimo.
Lui, già almeno mezzo sbronzo, quando aveva
finalmente capito dove volevo arrivare, si era dimostrato subito entusiasta
della mia idea; aveva bevuto altri due bicchieri di rosso, uno dopo l’altro,
aveva fatto una smorfia, forse riferita alla qualità del vino, e, senza bisogno
di altri anestetici, mi aveva detto: “Prova a scrivere qualcosa e fammelo
leggere; se è solo un mezzo schifo, sei dei nostri”.
A questo punto, ovviamente, avevamo discusso a
lungo, per quasi due minuti, accordandoci su ogni dettaglio di quello che
avrebbe potuto essere mio primo articolo, e lui aveva finito per darmi
istruzioni molto precise “boh, fallo su qualcosa di utile. Qualcosa che conosci
già, su cui non devi fare troppe ricerche”, oltre che incoraggiarmi,
ricordandomi quale brillante futuro avrebbe potuto attendermi: “Se tutto va
bene, Gombo, ti troverai a scrivere per una delle nostre sezioni più popolari.
La leggono quasi tutti; anche gli ungheresi”.
Ero così eccitato che quando ero andato a casa
non ero riuscito ad addormentarmi. Avevo provato ad andare a letto, ma poi mi
ero alzato, mi ero infilato un maglione, perché anche in casa iniziava a far
freddo, e, senza altro addosso, mi ero messo a fare giri intorno al tavolo del
soggiorno, camminando sempre più in fretta, quasi sperassi di raggiungere con
le gambe un’ ispirazione che continuava a sfuggirmi.
Finalmente, quando saranno state le sei esatte
del mattino, l’ispirazione si era stancata e si era fatta catturare e nel lampo
di un’illuminazione, o di uno sbalzo di tensione nella rete elettrica
cittadina, avevo saputo quel che dovevo scrivere.
Mi ero seduto alla macchina da scrivere e
avevo iniziato a mitragliare lettere come un indemoniato. Avevo già in mente
ogni parola, ogni frase: ero io ad essere diventato una macchina da scrittura,
perfettamente oliata, e niente avrebbe potuto fermarmi.
Alle nove in punto di quel mattino, stavo già
bussando alla porta dell’ufficio di Robert, nella redazione del giornale, con
tra le mani l’articolo bello e pronto.
Lui l’aveva degnato di uno sguardo. Non di
più. Non ne aveva avuto bisogno; è uno che sa riconoscere il talento: “Fa
davvero solo mezzo schifo, Gombo. Ci sai fare ... a modo tuo”.
Lessi per un’ultima volta il mio capolavoro;
ero sicuro che fosse solo il primo passo di una strada che mi avrebbe condotto
alla celebrità. Alla gloria.
Potevo vedere, con perfetta chiarezza, come le
mie parole avrebbero un giorno cambiato la storia del mondo; come avrebbero
influenzato le politiche dei governi e i comportamenti della gente. Come
avrebbero innalzato, altissima, la fiaccola della tolleranza e della
comprensione reciproca per rischiarare le tenebre dove si annidano,
perennemente in agguato, le forze, ovviamente oscure, della più bieca reazione.
Non potevo resistere oltre; dovevo trovare a
chi raccontarlo. A cosa serve raggiungere il successo, se non c’è nessuno ad
applaudirti? Ci doveva essere qualcuno, che non fosse Valeria, cui potesse
interessare quel che stavo combinando.
Ci pensai a lungo, ma l’unico nome che mi
venne in mente fu quello di Charo, la ragazza spagnola che stava con Vale, ma
sapevo che era appena partita per Barcellona, dov’era andata a far visita alla
propria famiglia.
Famiglia? Famiglia! Mia mamma!
Avrei telefonato a mia madre, come qualunque
altro figlio su questo pianeta. In fondo ero un ragazzo assolutamente normale.
Assolutamente.
E poi, finalmente, avevo una buona notizia da
comunicarle; questa volta, ci potevo scommettere, sarebbe stata fiera di me.
“Mamma, sono io. Sì, Daniel. No, non ho
combinato nessun casino. Ma da quando è che tu usi certe parole? Ah, non vuoi
perdere il passo con i tempi. Giusto. Eh? Non telefono? Sì, lo so che telefono
poco. Ok ... quasi mai. Hai ragione. Papà chiede di me? Ah, qualche volta. Ok.
No, dico, va bene. Dovrei essere felice perché mio padre, una volta ogni sei
mesi, vuol sapere in che continente mi trovo? Beh, se lo dici tu, Mamma, allora
ne sono felice. Telefonavo per dirti che ho iniziato a fare un nuovo lavoro;
qualcosa di grande. Di fantastico. Eh? Ah. No, Mamma, non mi hanno assunto in
banca. Mi dispiace.
Sono un giornalista, adesso; hanno appena
pubblicato il mio primo articolo ... sì Mamma; grazie Mamma. Hai sempre saputo
che ero nato per fare il giornalista? Che si vedeva che era il mio mestiere?
Sicura? Beh ... grazie, ma ... non me l’hai mai detto. No, per favore, Mamma,
no. Dai, non piangere.
Cavolo ...
scusa che ho detto cavolo ma, cavolo, piangi sempre al telefono. Se ti
do cattive notizie ... piangi; se ti do una buona notizia ... piangi lo stesso.
Magari è per questo che non ti telefono così spesso. No, dico, perché ti voglio
bene e non voglio farti piangere. OK, la smetto ... sì, smetto di fare
l’ironico. Hai ragione.
Se adesso sposerò Valeria? E cosa c’entra? E
poi, Mamma, ti ho anche detto che lei e Charo ... ricordi? Ah, dici che e
giovane e ha il diritto di fare le sue esperienze. Bene, almeno su una cosa
abbiamo la stessa opinione ... No, Mamma, non sono geloso. Nessun problema.
Anzi, è proprio quello il problema; non siamo gelosi perché non siamo
innamorati. Sì ... no, per favore, basta subito. Non voglio sapere cosa ti dice
il cuore. Sì, lo so che conosci la vita. Sì, lo so che di queste cose capisci
più di me; me lo dici sempre.
La paga? Bella domanda. Stiamo ancora
definendo i dettagli; sai, premi, benefits ... robe di questo tipo.
No, non lo so se finirò in televisione. Per
ora, comunque, non credo. Ma è così importante? Ah, i soldi veri sono lì? Me ne
ricorderò. Come? Vuoi che ti legga il mio articolo? Ma dai, non mi pare il
caso. No, non mi sto inventando un bel niente. Io sono Daniel, quello fesso;
quello che si faceva beccare sempre, anche quando non faceva niente.
No, non mi sto lamentando di quel santo di mio
fratello. Sì, lo so, lui è un genio e i geni... diciamo che non ho il suo
talento per l’affabulazione. Ah, dici che ha preso da Papà? No, non mi ero mai
accorto che anche Papà fosse così, ma certo tu lo conosci meglio. Beh, si è
fatto tardi e tu Mamma sarai piena di cose da fare; guardare la tivù, fare le
parole crociate ... insomma le tue cose. Ti salu...
Ah, l’articolo? No, no. Scusa, scusa, te lo
stavo proprio per iniziare a leggere. Sei seduta? Ecco, bene, rilassati che
bevo un sorso d’acqua e comincio”.
Bevvi e, con un tono che voleva imitare quello
dei commentatori dei documentari, iniziai a leggere:
“Da poco tempo alcuni dei migliori negozi
cittadini hanno iniziato a vendere una raffinata specialità italiana: gli
spaghetti.
Cuocerli è relativamente facile se si seguono
scrupolosamente alcune semplici istruzioni.
Iniziamo mettendo sul fornello una grande
pentola colma d’acqua; ricordate, ne servono almeno cinque litri per lessarvi
il classico pacco di spaghetti da 500 grammi.
Accendiamo il fuco e portiamo l’acqua a
bollore; ricordiamo, in questa fase, di lasciare il coperchio sulla pentola:
servirà ad abbreviare il tempo necessario per arrivare all’ebollizione.
Solo allora leveremo il coperchio e porremo
nell’acqua un pugno di sale; se lo avessimo messo subito sarebbe stato
necessario molto più tempo per far bollire l’acqua.
Rimettiamo il coperchio e attendiamo un minuto
o due, fin che l’acqua sarà tornata in pieno bollore.
Quello sarà il momento di aggiungere gli
spaghetti. Non li romperemo, come certi pensano sia necessario fare, ma li
lasceremo scivolare nell’acqua, lungo il bordo della pentola, lasciando che sia
il calore a piegarli perché s’immergano completamente, se necessario, e ci
ricorderemo di rimestarli un poco per evitare che si appiccichino tra loro.
Rimetteremo di nuovo il coperchio sulla
pentola e ve lo lasceremo fino a quando sentiremo che l’acqua ha ripreso a
bollire; quello sarà il momento esatto da cui partiremo a contare il nostro
tempo di cottura. È fondamentale non cuocere troppo gli spaghetti.
Sull’imballaggio si trova abitualmente l’indicazione di un tempo di cottura
medio; seguitela o, al massimo, cuocete gli spaghetti un paio di minuti in più,
ma non oltre. Ricordate che nella patria degli spaghetti, l’Italia meridionale,
già il tempo di cottura indicato dal fabbricante sarebbe considerato eccessivo
e che, se troppo cotti, gli spaghetti si trasformano in una massa colloidale,
quasi solida, a cui nessun italiano, del nord o del sud, si avvicinerebbe.
Gli spaghetti devono essere scolati
immediatamente dopo la cottura; per svolgere quest’operazione sarebbe ideale
poter disporre di un apposito scolapasta:
è importante scolarli tutti assieme, o nel minor tempo possibile, per
assicurarsi che abbiano tutti la stessa consistenza.
Arrivati a questo punto, potremo condire gli
spaghetti con un’incredibile varietà di salse.
Ora vi darò la ricetta per quella al pomodoro,
di gran lunga al più popolare tra gli italiani: ...”.
Daniel di Schuler, l'eterno giovane con l'entusiasmo dei grandi, ha intravisto una finestra sul mondo spalancarsi davanti a lui come un miraggio, è rimasto affascinato e, come tutti, ha dato libero sfogo ai sogni ad occhi aperti, i sogni ai quali tutti noi speriamo di approdare. Ha disegnato il suo mondo come vuole che sia nella realtà, il mondo di Daniel, lo stesso mondo a cui tutti noi apparteniamo, il modo coriaceo che spalanca a tutti una finestra per aspettarci al varco ed affidarci al destino incerto della vita. Il mondo dove Daniel ... LEGGI IL LIBRO.
RispondiEliminaSottoscrivo tanto di quel che dici. Sì, Lettere dalla fine del mondo è nato così.
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