Un'immagine celebre e un viaggio tra Giappone e Occidente.
Katsushika Hokusai Grande onda allargo di Kaganawa, 1832 Stampa a blocchi di legno su carta di 38 x 26 cm Vari musei e collezioni. |
Quel giorno le navi dell’ammiraglio Perry arrivarono nella rada di Uraga, vicino a Tokio. Vi ormeggiarono i loro scafi dipinti di nero, puntarono i loro cannoni sulla capitale e costrinsero il Giappone ad aprire i suoi porti al commercio mondiale. Era l’otto luglio 1853.
Una data importante. Da ricordare, soprattutto per gli appassionati di storia dell’Arte.
L’arrivo in Occidente dei prodotti della cultura giapponese, infatti, ha influenzato profondamente i maestri della nostra pittura, dall'Impressionismo all'Art Nouveau e oltre. Di più: ha cambiato la nostra stessa sensibilità. In un certo qual modo è diventato giapponese anche il nostro gusto. Ben prima di aver visto i film di Kurosawa o di essere diventati appassionati di Manga, abbiamo imparato a guardare con occhi giapponesi alla luce, agli spazi e ai materiali. Non credo di essere l’unico, tanto per fare un esempio, a cogliere le somiglianze tra i cretti e le combustioni di Burri e certe ceramiche tradizionali di Shigaraki. Non le avete presenti? Cercatele in rete. Intanto, se mi leggete dal soggiorno di un appartamento moderno, guardatevi intorno: siete in uno spazio giapponese. La pulizia dei muri che vi circondano arriva dal Giappone, così come spira aria giapponese dalla grande finestra che dà luce al vostro ambiente. Dal Giappone, andando oltre quel che vede l’occhio, arriva l’idea, che quasi certamente il vostro architetto ha seguito, di progettare secondo un modulo; inserendo gli elementi architettonici dentro una griglia dalle dimensioni fisse. Da noi, sono le misure dei mobili prodotti dall'industria a determinare quella delle sue maglie; in Giappone, da sempre, ogni stanza contiene un numero esatto di tatami; di materassini dalla misura predefinita.
L’arrivo in Occidente dei prodotti della cultura giapponese, infatti, ha influenzato profondamente i maestri della nostra pittura, dall'Impressionismo all'Art Nouveau e oltre. Di più: ha cambiato la nostra stessa sensibilità. In un certo qual modo è diventato giapponese anche il nostro gusto. Ben prima di aver visto i film di Kurosawa o di essere diventati appassionati di Manga, abbiamo imparato a guardare con occhi giapponesi alla luce, agli spazi e ai materiali. Non credo di essere l’unico, tanto per fare un esempio, a cogliere le somiglianze tra i cretti e le combustioni di Burri e certe ceramiche tradizionali di Shigaraki. Non le avete presenti? Cercatele in rete. Intanto, se mi leggete dal soggiorno di un appartamento moderno, guardatevi intorno: siete in uno spazio giapponese. La pulizia dei muri che vi circondano arriva dal Giappone, così come spira aria giapponese dalla grande finestra che dà luce al vostro ambiente. Dal Giappone, andando oltre quel che vede l’occhio, arriva l’idea, che quasi certamente il vostro architetto ha seguito, di progettare secondo un modulo; inserendo gli elementi architettonici dentro una griglia dalle dimensioni fisse. Da noi, sono le misure dei mobili prodotti dall'industria a determinare quella delle sue maglie; in Giappone, da sempre, ogni stanza contiene un numero esatto di tatami; di materassini dalla misura predefinita.
Prima dell’arrivo dell’ammiraglio Perry, i giapponesi commerciavano solo con gli olandesi (cui consentivano, peraltro, di prendere terra solo su un isoletta nella baia di Nagasaki). Gli artisti nipponici, di conseguenza, furono esposti non modo molto limitato all’immaginario occidentale.Poterono vedere qualche acquaforte olandese, appunto, ma nulla di più. Ne furono influenzati, certo, e dall’arte occidentale appresero alcuni dettagli tecnici oltre, forse, ad essere stimolati ad una maggiore attenzione nei confronti dei dettagli della natura, ma solo assai blandamente; in superficie. Per questo, quando le prime stampe giapponesi fecero il percorso inverso, approdando in Europa, fecero scalpore: erano prodotte da una tradizione artistica tanto evidentemente raffinata quanto del tutto aliena. Ne furono colpiti soprattutto gli artisti che stavano lottando per rinnovare il canone occidentale. I maestri dell’arte moderna che osservandole appresero a dare un diverso valore alla linea e al punto, al colore e alla superficie pittorica: a comporre prima che rappresentare. Ammirarono e collezionarono stampe giapponesi Gauguin e Van Gogh e studiarono la lezione giapponesi Degas e Toulouse - Lautrec. Continuarono a tenere gli occhi puntati sul Giappone Schiele e Klimt.
Gradualmente i nostri artisti appresero anche i nomi dei loro colleghi di quel paese lontano; primi tra tutti quelli di Hokusai e del suo successore, per così dire, Hiroshige.
Katsushika Hokusai è, per me, uno dei sommi della storia dell’arte. Nel corso di una vita lunghissima (1760- 1849) lavorò incessantemente producendo centinaia di opere che ancora ci stupiscono per la loro forza, per il coraggioso uso dei colori, per la potenza delle linee; che ci appaiono ancora modernissime nonostante i nostri occhi siano assuefatti alla visione delle opere dei suoi, magari inconsapevoli discepoli.
Come Michelangelo, cui somiglia per tanti versi, dall’energia quasi selvaggia di certe linee alla deformazio-ne espressionistica di certe figure, continuò a lavorare studiare fino all’ultimo giorno della propria vita. Lo fece con decine di pseudonimi tra cui uno, adottato nel 1834, Gakyō Rōjin Manji, che significa “il vecchio pazzo per l’arte”, che non posso che invidiargli, e riuscì a conservare intatta la propria curiosità, a non dar nulla per scontato o acquisito, anche nei suoi ultimi anni. Pare, che dopo aver tanto dipinto, e scritto trattati sulla pittura, sul letto di morte abbia detto: “Se solo il Cielo mi desse altri dieci anni, anche solo altri cinque, allora sì che imparerei a dipingere sul serio”. Lo conobbero sicuramente Monet e Renoir e a lui qualcosa deve il Van Gogh dei grandi campi di grano, così simili nel ritmo agli schizzi (i manga, appunto) del maestro giapponese; di quei campi di cui lo stesso Van Gogh scrive: “Non sembrano giapponesi eppure sono la cosa più giapponese che abbia fatto”. E lui, a fare “cose giapponesi” ci teneva. Al punto da copiare a olio due opere di Hiroshige. Due stampe della serie “100 viste di luoghi famosi di Edo” che il maestro olandese fece proprie nei quadri noti come “Giapponeseria: Ponte sotto la Pioggia” e di “Giapponeseria: Ciliegio in Fiore”.
Ando Hiroshige, la cui fama, in Giappone, arrivò a sfidare quella di Hokusai e che proprio nel 1853 pubblicò la sua più famosa serie di stampe “Le 53 Tappe del Tokaido”, fu l’ultimo dei grandi artisti del Giappone tradizionale e, se Hokusai è Michelangelo, lui è un Raffaello; un poeta straordinariamente sensibile, capace di rendere, con linee più fluide e colori più controllati, atmosfere e ambienti anche con un mezzo, apparentemente così poco adatto allo scopo, come la stampa. Un artista alla ricerca dell’armonia, se Hokusai era alla ricerca dell’espressione; l’uno e l’altro due termini di quella dialettica, quella tra forze è leggerezza, che è sempre stata e sempre sarà alla base dell’arte in qualunque epoca e presso qualunque civiltà.
Spero di non avervi tediato con questo lungo, eppure troppo breve, discorso sull’arte giapponese. Vorrei ora invitarvi a guardare con me un’opera di Hokusai, è la prima stampa della raccolta-capolavoro del maestro, “Le 36 viste del Monte Fuji”, ed è certo una delle immagini più famose prodotte dall’uomo; si tratta della “Grande Onda in Mare Aperto al Largo di Kanagawa”.
Guardate come l’artista ha reso l’immane potenza del mare, quanta poca cosa siano quelle barche e, sopra di queste, ridotti a dei punti, nulla siano gli uomini. Una visione romantica, diremmo, della lotta tra l’uomo e la natura, Viene naturale confrontarla con “La Tempesta di Neve” di un occidentale contemporaneo di Hokusai : William Turner. I due artisti utilizzano mezzi completamente diversi, per certi versi opposti , eppure esprimono lo stesso sentimento: nell’una e nell’altra immagine, di fronte agli elementi scompaiono la civiltà e i suoi manufatti. Restano solo, proprio nel centro dei due dipinti, uno squarcio di luce per Turner e, immobile e maestoso, seppur rimpicciolito dalla distanza, il monte Fuji per Hokusai
Anche nel mezzo di una tempesta, mi voglio dire stanotte, mentre il vento urla e la pioggia acceca la luce del faro, resta sempre una traccia di speranza.
Gradualmente i nostri artisti appresero anche i nomi dei loro colleghi di quel paese lontano; primi tra tutti quelli di Hokusai e del suo successore, per così dire, Hiroshige.
Katsushika Hokusai è, per me, uno dei sommi della storia dell’arte. Nel corso di una vita lunghissima (1760- 1849) lavorò incessantemente producendo centinaia di opere che ancora ci stupiscono per la loro forza, per il coraggioso uso dei colori, per la potenza delle linee; che ci appaiono ancora modernissime nonostante i nostri occhi siano assuefatti alla visione delle opere dei suoi, magari inconsapevoli discepoli.
Come Michelangelo, cui somiglia per tanti versi, dall’energia quasi selvaggia di certe linee alla deformazio-ne espressionistica di certe figure, continuò a lavorare studiare fino all’ultimo giorno della propria vita. Lo fece con decine di pseudonimi tra cui uno, adottato nel 1834, Gakyō Rōjin Manji, che significa “il vecchio pazzo per l’arte”, che non posso che invidiargli, e riuscì a conservare intatta la propria curiosità, a non dar nulla per scontato o acquisito, anche nei suoi ultimi anni. Pare, che dopo aver tanto dipinto, e scritto trattati sulla pittura, sul letto di morte abbia detto: “Se solo il Cielo mi desse altri dieci anni, anche solo altri cinque, allora sì che imparerei a dipingere sul serio”. Lo conobbero sicuramente Monet e Renoir e a lui qualcosa deve il Van Gogh dei grandi campi di grano, così simili nel ritmo agli schizzi (i manga, appunto) del maestro giapponese; di quei campi di cui lo stesso Van Gogh scrive: “Non sembrano giapponesi eppure sono la cosa più giapponese che abbia fatto”. E lui, a fare “cose giapponesi” ci teneva. Al punto da copiare a olio due opere di Hiroshige. Due stampe della serie “100 viste di luoghi famosi di Edo” che il maestro olandese fece proprie nei quadri noti come “Giapponeseria: Ponte sotto la Pioggia” e di “Giapponeseria: Ciliegio in Fiore”.
Ando Hiroshige, la cui fama, in Giappone, arrivò a sfidare quella di Hokusai e che proprio nel 1853 pubblicò la sua più famosa serie di stampe “Le 53 Tappe del Tokaido”, fu l’ultimo dei grandi artisti del Giappone tradizionale e, se Hokusai è Michelangelo, lui è un Raffaello; un poeta straordinariamente sensibile, capace di rendere, con linee più fluide e colori più controllati, atmosfere e ambienti anche con un mezzo, apparentemente così poco adatto allo scopo, come la stampa. Un artista alla ricerca dell’armonia, se Hokusai era alla ricerca dell’espressione; l’uno e l’altro due termini di quella dialettica, quella tra forze è leggerezza, che è sempre stata e sempre sarà alla base dell’arte in qualunque epoca e presso qualunque civiltà.
Spero di non avervi tediato con questo lungo, eppure troppo breve, discorso sull’arte giapponese. Vorrei ora invitarvi a guardare con me un’opera di Hokusai, è la prima stampa della raccolta-capolavoro del maestro, “Le 36 viste del Monte Fuji”, ed è certo una delle immagini più famose prodotte dall’uomo; si tratta della “Grande Onda in Mare Aperto al Largo di Kanagawa”.
Guardate come l’artista ha reso l’immane potenza del mare, quanta poca cosa siano quelle barche e, sopra di queste, ridotti a dei punti, nulla siano gli uomini. Una visione romantica, diremmo, della lotta tra l’uomo e la natura, Viene naturale confrontarla con “La Tempesta di Neve” di un occidentale contemporaneo di Hokusai : William Turner. I due artisti utilizzano mezzi completamente diversi, per certi versi opposti , eppure esprimono lo stesso sentimento: nell’una e nell’altra immagine, di fronte agli elementi scompaiono la civiltà e i suoi manufatti. Restano solo, proprio nel centro dei due dipinti, uno squarcio di luce per Turner e, immobile e maestoso, seppur rimpicciolito dalla distanza, il monte Fuji per Hokusai
Anche nel mezzo di una tempesta, mi voglio dire stanotte, mentre il vento urla e la pioggia acceca la luce del faro, resta sempre una traccia di speranza.
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