domenica 3 dicembre 2017

PETER BRUEGEL IL VECCHIO, LA PARABOLA DEI CIECHI

"Nei suoi dipinti ogni uomo è un noi."


Peter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi (1568)
Olio e tempera su tela di 85 x 154 cm
Museo di Capodimonte, Napoli.
Ciechi guidati da ciechi. Ammettiamolo, mentre ci sembra di brancolare nel buio assieme a tutta la nostra società, a volte ci sentiamo così. 


Per descriverci, forse senza neppure rifletterci sopra, in questo caso citiamo la parabola evangelica riportata da Luca (VI, 39) e da Marco (XV, 14).
Sono anche i brani che ispirano quest’opera di Pieter Bruegel, conservata alla Galleria Nazionale di Capodimonte. E’ una lunga tela rettangolare Cnque uomini, camminando in fila indiana, ognuno appoggiandosi a quello che lo precede, la attraversano da destra a sinistra. Dapprima vediamo solo loro; sembrano gli unici protagonisti della composizione. La dominano. Solo poi scorgiamo un sesto uomo. E’ all’estrema sinistra. Doveva essere in testa alla fila, fino a un attimo prima di quello fissato dal pittore, ma ora è finito in un fosso. Giace lì, sulla schiena, con una mano che ancora stringe il bastone e l’altra sollevata, forse in una richiesta d’aiuto. Non glielo darà quello che lo segue e rivolge allo spettatore un indimenticabile sguardo fatto di orbite che han perso gli occhi: sta per fare la sua stessa fine. Anche lui regge un bastone. Vi è aggrappato il terzo della fila. Un’altra figura memorabile; un altro sguardo, questo perso nel nulla, che ricorderemo. Non potendo vedere, guidato solo da quel bastone, anche lui finirà nel fosso. E’ il destino che attende anche gli altri tre, pure evidentemente ciechi. Seguono gli altri e faranno la stessa fine degli altri: è solo questione di pochi passi e di pochi istanti. Di poche decisioni o indecisioni, diremmo, leggendo dietro la metafora, proprio come per la cadute nella vita.
Considerazioni della maturità? “La parabola dei ciechi” è uno degli ultimi quadri che Bruegel abbia dipinto (lo completò nel 1568, un anno prima della sua morte, avvenuta quando l’artista era in medio aetatis flore) e matura, splendidamente maturo, è l’aggettivo giusto per descriverlo.
L’attenzione ai dettagli che era stata del Bruegel giovane, e che è di tutta la pittura fiamminga prima di lui, è ancora evidente e la sua capacità di rendere il grottesco della figura umana, che anche nella sensibilità del grande pubblico lo associa a Bosch, permane intatta, ma sono, la prima come la seconda, temperate da una differente sensibilità. Diverso, rispetto alle opere del primo Bruegel, è il rapporto tra figure e paesaggio. Questi ciechi hanno una sorta di antiretorica monumentalità. La scelta di un punto di vista ribassato e la freddezza propria della tempera li rendono statuari. Se qualcosa in loro vi ricorda Michelangelo non state commettendo un sacrilegio. Lo penso anche io. Soprattutto lo pensava un gigante della storia dell’Arte come Max Dvorak. Anche lo spoglio fondale del dramma, se non è proprio italiano, sa di Italia. Il paesaggio, pur non avendo traccia di sfumato ( l’atmosfera è cristallina, perfettamente fiamminga) non rigurgita di dettagli come quelli, per solito dipinti come visti dall’alto, che facevano da sfondo ai primi quadri di Bruegel. Anzi, come quelli che non facevano da sfondo, perchè in quelle opere era difficile stabilire delle gerarchie tra le figure e tra queste e l’ambiente. Questo, invece, è sempre un paesaggio fiammingo, ma dipinto con un occhio diverso da quello che avrebbe potuto avere un pittore che non fosse mai uscito dal Brabante.
Un affermazione con cui non voglio esaltare le influenze italiane in Bruegel, intendiamoci. Il maestro viaggiò tra Francia e Italia nel 1551 e nel 1553, ma non lo fece con lo spirito dello studente. Non compì un pellegri-naggio nella terra promessa dell’arte. Semplicemente fece un lungo viaggio, sentendosi già maestro, con lo scopo, soprattutto, di schizzare paesaggi alpini ed italiani da passare all’amico incisore Hieronymus Cock.
Bruegel lavorò per qualche tempo a Roma col grande miniaturista Giulio Clovio e da lui apprese alcuni trucchi del mestiere (chi abbia visto “La Torre di Babele” conservata a Rotterdam capirà meglio cosa intendo), ma imparare non era lo scopo della sua visita nel nostro paese. Imparò, fu influenzato da quel che vedeva, semplicemente perché era artista: qualcuno che tiene, o dovrebbe tenere, gli occhi sempre aperti, per definizione. Occhi che Bruegel volse, per tutta la sua carriera, all’uomo. Ne dipinse le fatiche e le gioie, lo raffigurò in momenti di salvezza e di dannazione. Grazie ai suoi dipinti possiamo partecipare al banchetto nuziale di una coppia di contadini o assistere ai giochi di una torma di bimbi sulla piazza di una cittadina.
Dipinse degli uomini del proprio tempo, la loro vita quotidiana con le sue minute glorie e le sue sempiterne miserie, ma non lo fece mai, neppure nelle sue opere più dense di significati allegorici, erigendosi a giudice; chiamandosi fuori da quel che rappresentava.
In questo senso la sua opera ha caratteri assai diversi da quella di Bosch (cui peraltro, specie nelle opere giovanili, deve molto). Nel “Trionfo della Morte”, ad esempio, non sono pupazzi o mostri quelli che soffrono: sono uomini come lui, ognuno dotato di una propria individualità, ma tutti perfettamente umani. In Bruegel, non importa se ci siano dei cenni di caricatura, ogni uomo è un noi.
Ecco: lui non dipinge “gli uomini”, ma “noi uomini”.
E’, non solo in questo senso, con la sua aristotelica attenzione al qui ed ora, il più umanista tra i pittori; di un umanesimo pienamente maturo che ritroveremo poi, alle nostre latitudini (e ancora si tratta di andare oltre le mere apparenze) con Caravaggio. Conosceva per certo le opere di Erasmo (dagli “Adagia” sono tratti i “Proverbi Fiamminghi” che sono il tema di un suo famoso quadro), ma avrebbe potuto essere un grande amico del suo contemporaneo Montaigne. Come lui pare dirci: “Non ho mai visto nulla di tanto mostruoso e di tanto miracoloso come me stesso”.
Tutto quanto ci siamo detti vale anche per questo quadro? Sono anche quei ciechi un “noi”? Siamo davvero come loro? Solo fino a un certo punto. La nostra cecità è volontaria. Vi fa venire in mente Etienne de la Boetie, quell’aggettivo? Sì: è volontaria come la servitù del suo “discorso”. Possiamo decidere di aprire gli occhi. Non siamo condannati ad essere dei seguaci, in balia delle decisioni di altri. Possiamo essere quel tutto quello che faranno di noi le nostre scelte, direbbe Kierkegaard. Potremmo addirittura trovare il coraggio di essere quello che siamo.

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