domenica 31 dicembre 2017

THÉODORE GÉRICAULT, LA ZATTERA DELLA MEDUSA

Un paradigma visivo del Romanticismo.


Théodore Géricault, La zattera della Medusa (1819)
Olio su tela di 491 x 716 cm
Parigi, Museo del Louvre


C’è stato tempo in cui un affondamento poteva arrivare a scuotere la coscienza d'Europa e ad ispirare un capolavoro. Oggi, al massimo, simile tragedie arrivano a guadagnarsi per un giorno i titoli dei giornali. Quanto alle nostre coscienze, ormai, pare siano capaci di abituarsi a tutto. Morte e sepolte.
Qualche anno fa, però, non ero mosso da ragioni morali. Volevo semplicemente spiegare ai miei ragazzi cosa fosse stato il Romanticismo, questo crogiolo (o falò) della modernità da cui è scaturita anche tanta parte del nostro mondo. Per raggiungere questo scopo avevo fatto ascoltare loro quanto sia cambiata la musica di Beethoven nel corso della lunga carriera del compositore. Poi, solo per continuare a dire quel per cui non bastano le parole, ho mostrato loro questo quadro, “La zattera della Medusa” di Théodore Géricault, per me vero e proprio manifesto del Romanticismo in pittura. 
Sono in buona compagnia in questa convinzione (la condividono due grandissimi come Jacques Barzun e Kenneth Clark) e credo che sia difficile per chiunque suggerire un’altra opera che mostri, in un solo colpo d’occhio, tanti aspetti della sensibilità romantica.
La stessa genesi del quadro è romantica. Dipinto quando l’artista era solo ventisettenne, fu realizzato senza nessun committente, per affrontare le incertezze del mercato e della critica nel salone del 1819. Il pittore che soffre nel suo atelier solitario, per completare un’opera che è sfida a se stesso e alla sorte, è uno stereotipo della nostra cultura, ma questa relazione tra artista, opera e mercato era allora agli inizi. I dipinti di grandi dimensioni (la Zattera misura circa sette metri per quattro) nelle epoche precedenti erano sempre originati da una precisa committenza. Chiese, principi e banchieri, con le loro esigenze condizionavano il lavoro, ma, con il loro supporto, lo rendevano anche meno drammatico o, se volete, eroico. L’opera d’arte che nasce dalla sola volontà dell’artista, senza un suo spazio preordinato nel mondo, deve invece guadagnarsi la sopravvivenza, propria e del proprio creatore, attirando un compratore. Poprio per questo, nella speranza di conquistare l’interesse del pubblico, Géricault, avviando un tradizione d’arte per l’occasione che dura tuttora (e per solito produce pessime opere) scelse come tema per il suo quadro un fatto di cronaca.
Un veliero francese, il Medusa, era naufragato pochi anni prima al largo della costa africana. Centocinquanta dei naufraghi avevano trovato rifugio su una zattera, ma quando questa era stata avvistata, alla deriva, da una nave di passaggio, ne erano sopravvissuti solo quindici. Gli altri erano tutti scomparsi nelle due settima-ne che il relitto aveva passato in mare; alcuni morti di stenti, altri suicidatisi perché incapaci di resistere a quell’orrore. Molti uccisi dai propri stessi compagni. Questo, e ancora di più il cannibalismo che avevano praticato i sopravvissuti, aveva destato un enorme clamore nell’opinione pubblica francese. Quando Géricault presentò il proprio quadro, tre anni dopo, nessuno ebbe dubbi sull’episodio cui si riferiva sebbene l’autore avesse scelto il titolo neutrale di “Scena da un naufragio”.
Prima di mettere mano all’enorme tela, Géricault compì un intenso lavoro di ricerca: non solo intervistò i sopravvissuti e costruì, con l’aiuto di uno di loro, un modello in scala della zattera, ma con buona pace di chi fa nascere il realismo mezzo secolo dopo, andò ben oltre. Visitò gli ospedali per studiare le espressioni dei morenti e si recò nelle celle mortuarie per annotare i toni assunti dalle carnagioni dei morti. Arrivò a portare nel proprio studio degli arti amputati per studiarne la putrefazione.
Vedete, atteggiamento positivista a parte, l’Impressionismo ha poco di nuovo ed è già quasi perfettamente contenuto nel romanticismo. La pittura en plein air? Géricault per preparare la Zattera compì numerosi viaggi a Le Havre per dipingere dal vero le tempeste sull’Atlantico e s’imbarcò per l’Inghilterra per annotare, nel suo taccuino di schizzi, l’aspetto del mare visto in navigazione. Potrei ricordare anche Constable che, per convincere i propri clienti che il verde dell’erba non era il giallastro delle vernici sei- settecentesche, esibiva i suoi dipinti nei prati o Turner intento a dipingere sotto una tenda per ripararsi dalla pioggia. Di certo il luogo comune che vuole che i primi, ad uscire dallo studio per catturare i colori della natura, siano stati Monet e i suoi amici è davvero solo un luogo comune. Di nuovo gli impressionisti, rispetto ai loro predecessori, avevano i colori in tubetto, ma questa è una conquista della chimica, non dell’arte; la voglia di rappresentare la natura, con i mezzi disponibili, lavorando immersi in essa è perlomeno vecchia quanto Leonardo e Dürer.
A differenza di quello che sarà poi per gli impressionisti, però, il mare che circonda la Zattera non è un mero spettacolo visuale, l’occasione per uno studio di luci ed atmosfera; è il secondo protagonista del dramma. Non è scenario, ma attore; una titanica forza della natura contro la quale i naufraghi lottano per la sopravvivenza. Quanto è perfettamente romantica questa visione; la lotta contro la natura e le sue forze come affermazione eroica dell’individualità secondo termine, assieme all’altrettanto romantica pulsione a fondersi e con-sentire con essa, di un rapporto dialettico che mira al sublime. Essere, ferocemente essere, eppure sentirsi parte del tutto, fino annullare il confine tra individuo e universo: questa è la sintesi del rapporto romantico con il reale. Una tensione tra finito ed infinito, in cui il primo termine tende invariabilmente verso il secondo, la cui soluzione è, per Schlegel, il compito ultimo dell’arte e dell’artista.
"Pensati come un essere finito educato all'infinito, allora tu penserai un uomo".
Il mare di Géricault ha una sua precisa fisicità, comunque, non è solo metafora; è un mare scultoreo, tanto oggettivo da poter piacere a Rilke, che si oppone anche visivamente, con il moto delle sue onde, all’avanzare della zattera.Onde torreggianti che investono lo spettatore mentre la zattera, faticosamente, dallo spettatore si allontana; un espediente compositivo che ci porta, istintivamente, a bordo del relitto: tra i naufraghi. Guardando l’opera si coglie dapprima l’ammasso dei morenti, in primo piano, disposti in un gruppo piramidale che ha come vertice l’albero della zattera; l’occhio poi passa al secondo gruppo, verso prua, di coloro che ancora riescono a lottare e sperare. E’ un altra piramide, più dinamica della precedente, che ha come vertice la macchia di colore dello straccio (una bandiera? Una camicia?) che uno dei naufraghi agita per attrarre l’attenzione della nave appena avvistata, lontano, all’orizzonte, e che rappresenterà la salvezza. Un modello classico, la composizione piramidale, tipica di tante opere del rinascimento, che Géricault raddoppia spezzando la nostra attenzione (l’occhio non riesce a riposare; si sposta dall’uno all’altro gruppo e inciampa, per così dire, negli spigoli vivi dei rottami della zattera) comunicando un senso di precarietà, di provvisorietà, con un effetto che è assai maggiore nella visione dal vero del quadro che in quella delle riproduzioni di piccolo formato.
Prima di assemblare (procedendo come uno scenografo teatrale) le due piramidi umane che dominano il quadro, Géricault disegnò infiniti schizzi, ma non si limitò agli studi dal vero; nel corso di un viaggio in Italia ammirò e studiò Michelangelo e Caravaggio (caravaggesco, anche per l’occhio meno esperto, è il forte chiaroscuro dell’opera e devono molto a Michelangelo i volumi delle figure) con un’attenzione ai grandi maestri del passato che non può che far pensare a Ingres e alla tradizione neoclassica.
Perfettamente romantica è invece la drammaticità che esprimono volti e gesti di ogni singola figura. Sguardi folli e ovunque i segni della tragedia studiati con la fascinazione, anch'essa tipicamente romantica, per il lato oscuro, orfico, della psiche umana di cui lo stesso Géricault dà prova anche nei ritratti di pazzi, ladri e assassini che eseguì, con meravigliosa scioltezza, proprio in quegli anni.
Giotto riporta l’individuo, e il mondo, nell’arte occidentale; Cezanne trascende il reale ricercando le geometrie nascoste che lo compongono. Tra questi due termini la storia dell’arte è evoluzione senza cesure, con ampie sovrapposizioni, e qualunque tentativo di periodizzazione non può che essere un crudo strumento, utile forse per avere un approssimativo orientamento, ma nulla di più. Vale per l’arte e vale, più in generale, per la cultura europea. L’attenzione alla psicologia dei personaggi, caratteristica del romanzo d’inizio Novecento non è più nuova di quanto lo sia la pittura dal vero dei paesaggi da parte degli impressionisti; Freud, come i chimici con i colori, ha dato un nuovo armamentario lessicale agli scrittori, ma l’attenzione degli artisti ai moti dell’animo è vecchia quanto l’arte occidentale: è anzi la vera caratteristica distintiva dell’Occidente. Quanta introspezione c’è negli autoritratti di Rembrandt? Quanta finezza d’analisi psicologica nei ritratti di Velazquez? Quanta attenzione c’è, in Géricault, nella rappresentazione di un paesaggio emotivo che si estende lungo tutto l’arco delle più estreme sensazioni; dalla disperazione totale delle figure in primo piano alla folle speranza di chi, a prua, vede la salvezza avvicinarsi.
Uno solo dei tanti aspetti per cui la Zattera della Medusa è un capolavoro. Un’opera che prosegue la tradizione classica della pittura europea (nel trattamento delle superficie pittorica, nel chiaroscuro come nel disegno delle figure) e la innova con temi e dinamiche che sono il segno della sensibilità particolare del tempo in cui è stata dipinta. Memore delle epoche che l’hanno preceduta e perfetta testimone della propria merita, in tutti i sensi, d’essere definita monumentale.

Géricault purtroppo morì giovane e di non sappiamo cosa avrebbe potuto fare nella sua maturità e vecchiaia. Per cercare d’immaginarcelo dobbiamo volgere lo sguardo all’opera del suo coetaneo Camille Corot; chissà se le pennellate di Géricault vecchio si sarebbero fatte altrettanto libere e grasse? Se quei ritratti di folli di cui vi parlavo possono essere un’indicazione, io credo che sarebbe andato oltre. Fino a dove, però, non lo sapremo mai. Purtroppo.

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