sabato 11 novembre 2017

JUAN SANCHEZ COTAN, NATURA MORTA

Il volto metafisico del disinganno.

Juam Sanchez Cotan, Natura morrta, 1602
Olio su tela di 68,9 x 84,5 cm
San Diego Museum of Arts

Ci sono aspetti di una società e della sua cultura che trovano il proprio specchio più fedele nelle opere d’artisti che, per una qualche ragione, sono pressoché ignoti al grande pubblico. Non ho la necessaria prospettiva storica per dire chi stia offrendo la migliore rappresentazione di questa nostra epoca, tanto insicura da non essersi neppure data un nome, ma conosco un pittore che ha espresso perfettamente, quattro secoli or sono, un sentimento che appartiene a tanti della mia generazione.

Gli Spagnoli parlano di “desengaño” per indicare l’effetto provocato, nella sensibilità dei loro compatrioti seicenteschi, dalla crisi degli ideali rinascimentali abbinata alla coscienza che, nonostante l’argento delle Americhe, le condizioni sociali ed economiche del loro paese non stessero cambiando se non in peggio.
Un disinganno del tutto simile a quello che proviamo, oggi, ripensando agli ideali degli anni 60 e 70.
Era naturale, in quei decenni, pensare che la società del futuro (quella d’oggi) sarebbe stata sempre più ricca libera ed equa. Le conquiste già ottenute parevano ormai fuori discussione, mentre altre sembravano prossime a venire. Ineluttabili. La crescita economica continuava ininterrotta dagli anni dell’immediato dopoguerra e, nonostante qualche rallentamento, pareva inarrestabile: la realizzazione del sogno di un benessere generale (perlomeno nel nostro mondo, che orgogliosamente definivamo il primo) sembrava fosse ormai a portata di mano.
E’ facile datare l’inizio dell’età della disillusione in capo economico; ci pensò la prima crisi petrolifera, nel 1973, a ricordarci che il nostro sviluppo doveva fare i conti con le risorse limitate del pianeta.
Più difficile dire quando sia cominciata la crisi degli ideali libertari degli anni sessanta, sintomo di una più generale crisi del sogno occidentale; di un ripiegamento verso l’interno della società e degli individui.
Forse proprio in quello stesso anno, con il ritiro americano dal Vietnam. Certamente era già avviato quando il bisogno di certezze di una società che non era più capace di gestire i cambiamenti, portò all’elezione di Ronald Reagan nel 1981.
L’Occidente vinse la Guerra Fredda, grazie alla restaurazione degli anni successivi. Il ritorno all’individualismo, l’esaltazione della competizione economica e una politica estera che si era scrollata di dosso il pacifismo della Beat generation (ritenuto responsabile della sconfitta in Vietnam) per diventare sempre più aggressiva ci fecero rinunciare, però, alla nostra parte migliore. O a quel che sarebbe potuto diventarlo.
Nel 1989, inoltre, con il crollo dell’Unione Sovietica, venne meno anche uno degli elementi che ci definiva; che, la ammirassimo o odiassimo, la amassimo o la temessimo, ci dava un’identità.
Scomparso il nemico, detto altrimenti, siamo rimasti soli, incapaci di affrontare le trasformazioni econo-miche e sociali (la globalizzazione del libero mercato e la spinta all’omologazione) imposte del neo-capitalismo trionfante. La fine della Guerra Fredda, insomma, ha visto anche la nostra sconfitta. Ha arricchito i padroni planetari del vapore, ma non i comuni cittadini Forse ha liberato altri, ma certo non noi. Soprattutto ci ha lasciato senza modelli alternativi. Ci ha tolto i sogni.
Non v’è nulla di terribile nel vivere in un’epoca di cambiamento; lo sono tutte, con buona pace di Fu-kuyama. (Ricordate il suo libro, “La fine della storia e l’ultimo uomo” ? Il suo ottimismo ora ci fa sorridere.) Ad angosciarci e il nostro rapporto con “questo” cambiamento: non ce ne sentiamo protagonisti ma vittime o, al massimo, spettatori

Si sentivano così a Vienna cent’anni fa, vedendo l’Impero crollare a pezzi. Ora Vienna è ovunque. Karl Kraus potrebbe scrivere la versione d’inizio millennio de “Gli Ultimi dell’Umanità” vivendo in qualunque grande città europea o americana. Abbiamo tutti la netta la sensazione che il mondo non ci appartenga più; che i nostri destini, come individui e come società, siano decisi da altri. Non generiamo più né ideali né ricchezze; non abbiamo più alcun controllo sulle forze che muovono la storia.
Molti di noi preferiscono non sapere; emulano Chisciotte rifugiandosi in realtà virtuali o, come Sigismondo di “La vida es sueño”, confondono i sogni, magari presi a prestito dalla televisione, con la realtà.
In tanti, forse la maggioranza, c’è l’intima consapevolezza di vivere in un tempo sospeso; d’essere prigionieri di una fortezza (sì, Buzzati, profetico, scriveva già dei nostri anni) in attesa dell’attacco di barbari di cui non sappiamo nulla. Neppure se non siano già tra noi.
Se Velázquez è il pittore di un potere politico che si sfalda, con la sua corte di nani e buffoni (chissà che immagini avrebbe colto ieri alla corte di Re Silvio o a quella dell’imperatore Donald oggi) e ci restituisce un mondo d’umili dimenticati dalla fortuna, di polverosi acquaioli e vecchie rinsecchite che friggono uova, come disoccupati e precari dei nostri giorni, è nelle opere di Juan Sanchez Cotan che il disinganno trova la sua rappresentazione più poetica.
Se non lo conoscete, dipingetevi prima nella mente una natura morta barocca, carica d’argenti e ori, di frutti e di fiori; solo poi concentratevi su questa sua opera, conservata nella “Fine Arts Gallery “ di San Diego. Vi sorprenderà ancora di più il rigore, il gelo, di una composizione assolutamente metafisica; fatta di
pochi elementi che, inquadrati dal fondo nero di una finestra, bastano a rappresentare un peculiare senso del tempo. Solo Morandi, tra i grandi, ferma così gli istanti. Solo Hopper riesce a dipingere l’attesa a quel modo. Le stanze del maestro americano, però, sembrano aspettare l’arrivo di qualcuno. Nei dipinti di Cotan i minuti e le ore gocciolano lenti, ma non ci si aspetta che nulla possa mai accadere.
Natura morta si dice in inglese “still life”, che si potrebbe tradurre letteralmente con vita silenziosa. “Still” però, vuole anche dire fermo. Nelle nature morte barocche, inoltre abbondano i simbolismi. Inutile avventurarsi nell'ermeneutica davanti a questo quadro di Cotan; quello di cui siamo certi è che nulla in quell'immagine si muoverà mai. Solo il tempo, ineluttabilmente, passa. E’ vita ferma; sospesa come quel cavolo che, stagliato contro il nero, pende appeso a una corda: solo ci si aspetta la sua putrefazione e la sua caduta.
È la stessa sensazione, in fondo all’anima, che in tanti proviamo volgendo lo sguardo alle nostre vite, alla nostra società e al nostro paese. Un malessere che può facilmente trasformarsi nel più mortale e distruttivo dei languori.
L’unica ricetta per non lasciarsi vincere dalla disillusione ce la fornisce sempre Sigismondo, nella scena finale dell’opera di Calderon de la Barca: “Anche se è un sogno quel che conta è fare. E fare bene.”

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