Paul Gaguin, Due donne tahitiane (1891). Olio su tela di 69 x 91,5 cm. Museo d'Orsay, Parigi. |
Per lo stesso motivo, pur amando con tutto il cuore l’italiano, e considerando preziosi l’inglese e lo spagnolo, mi addolora la morte di qualunque lingua; anche di quella parlata solo da una microscopica tribù della Nuova Guinea. Le sue parole contenevano una loro saggezza; la sua grammatica rifletteva un modo di pensare. Testimoniava di una sensibilità diversa; permetteva di formulare più facilmente idee che domani, magari tra diecimila anni, potrebbero rivelarsi fondamentali per la nostra sopravvivenza. Non conosco, però, lingue tanto esotiche. Come esempio di un modo di vedere il mondo diverso da quello corrente, voglio invitarvi a riflettere su due parole del dialetto alto-valtellinese che è la mia lingua del cuore: “Dòa ràisi”. Non vogliono dire altro che “due ragazze” ma, come vedete, il numero due è usato al femminile “dòa” che in italiano non esiste. (E sono certo d’aver udito degli anziani, quando ero bambini, dire “tria” per dire di tre donne.) “Ràisi” (il singolare è ràisa; il maschile è ràis) vuole dire anche figlia, oltre che ragazza, e deriva dalla parola raìs che significa radice. Sì: sottende una visione dei figli che è opposta a quella comune. Fare figli non è produrre frutti, ma mettere radici: diventare più stabili, in grado di reggere meglio venti della vita. Un concetto non troppo diverso da quello espresso da Pound, con quella sua famosa poesia dedicata alla figlia, vista come un albero d’amore che cresceva dentro di lui. Un’idea che ritroviamo identica nel veneziano di Goldoni che, nelle “Donne di casa soa”, fa dire a Angiola, rivolta alle figlie, “care le mie raise”. Qualcosa di profondo e vero che sperimentiamo ogni giorno, se abbiamo la fortuna di avere dei figli.
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