Un panorama umano che è già dei nostri giorni.
James Ensor, L'entrata di Cristo a Bruxelles (1888) Olio su tela di 253 x 431 cm. Getty Museum, Los Angeles. |
Era un folle, schizofrenico e
paranoico, dicono gli psichiatri. Uno di loro, Hans Prinzhorn, lo affiancò
a Van Gogh, Nolde e Kokoschka in
un saggio del 1922 dal titolo significativo: L’attività plastica nei malati
di mente.
Era pazzo, ma è uno dei
padri dell’arte moderna; tanto grande da
essere fatto barone, nel 1929, da re Alberto I. E certamente fu un
profeta. Dipinse l’avanzata dei totalitarismi almeno tre decenni prima che se ne sentisse lo
scricchiolio degli stivali. Rappresentò la nostra società, omologata e massificata,
prima che esistessero la radio o la televisione. Disse con i pennelli quel che
poi avrebbero scritto Ortega Y Gassett e Pasolini.
Prese tutti gli Eichmann di ogni regime, mise loro addosso una
maschera e con loro riempì una tela.Lui si chiamava James Ensor; è nato
a Ostenda nel 1860 ed è vissuto in quella città sino alla morte, avvenuta nel
1949, La tela che più di ogni altra l’ha consegnato alla storia dell’arte è
questo grande olio, alto due metri e mezzo
e largo più di quattro: L’entrata di Cristo a Bruxelles, oggi al Getty
Center di Los Angeles.
Della vita del pittore c’è
poco da dire. Figlio di una belga e di uomo d’affari d’ascendenza inglese,
troppo amante della bottiglia ma che perlomeno non ne ostacolò mai la carriera,
cominciò a dipingere presto. Già a quindici anni iniziò a frequentare gli studi
di un paio di pittori di fama locale. Da loro imparò i rudimenti del mestiere,
che perfezionò in un triennio all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles. Dopo di
allora, sempre a casa. Letteralmente. Non solo dimostrò per i viaggi la stessa
avversione che fu poi celebre in Magritte e Morandi, ma, fino al
1917, dipinse in uno studio ricavato nella soffitta della dimora paterna.
Poco da dire ci sarebbe anche
della sua arte se fosse rimasta quella degli esordi: delle stesse scenette realistiche
che continuò a dipingere, con belle pennellate grasse, ma pure senza il minimi
squillo di colore, anche dopo lasciata l’Accademia. Qualcosa, però, accade. Nel
suo spirito come, soprattutto, ai suoi quadri. Rappresenta ancora una scenetta
in un interno, Le maschere che danno scandalo, una sua tela del 1883
oggi al Museo di Belle Arti di Bruxelles, ma non vi è già più nulla di
tranquillizzante o di “borghese”. È torva, l’atmosfera che la domina; sono
agitate, scomposte, le pennellate che ne agitano il fondo. Per la prima volta
in un suo quadro appaiono le maschere. Le stesse che sua madre vende, sotto
carnevale, in un negozietto di cianfrusaglie. Quelle che tutta la città “bene” indossa
in occasione del Bal du rat mort con cui celebra il carnevale.
Maschere che il pittore tornerà a dipingere, ossessivamente, in quadri dai
colori sempre più sgargianti, dalle pennellate sempre più furiose, i cui
soggetti, con o senza maschera, hanno sempre più l’aspetto di caricature.
Maschere e caricature,
ridanciane e sguaiate, che lì in primo piano, paiono debordare dall’Entrata
di Cristo in Bruxelles per precipitarci addosso. Tanto sfrenate e
colorate da prendere la nostra attenzione e non lasciarla, per un lungo
istante. Folla che si auto-celebra, che si auto-consuma, come
quella di ogni grande rituale collettivo; che minaccia di travolgerci o,
forse ancora peggio, di avvolgerci. Di fare, anche di noi, folla.
E quei loro volti? Le maschere non celano proprio nulla; rivelano,
anzi, la peculiare, gioiosa e spensierata ferocia di ognuno. È una massa,
quella che popola il quadro, ma di individui, ciascuno reso ancor più identificabile
proprio da quei tratti caricaturali. Tanto che, uno per uno, ci sembra di
riconoscerli; quello potrebbe essere il collega, quell’altro un nostro zio e
quella signora nell’angolo sinistro, la nostra vicina di casa.
E noi? Forse temiamo di
vederci tra loro, magari in uno di quei profili crudeli che paiono essere
arrivati lì dal Cristo portacroce di Bosh.
Allarghiamo lo sguardo; cerchiamo rassicurazioni contemplando l’opera nella sua
totalità. Non le troviamo. Capiamo di trovarci di fronte a una sfilata
carnevalesca e riusciamo a dirci che, in fondo, il quadro di Ensor non è troppo
diverso da uno dei pandemoni di Bruegel, ma questo non ci
tranquillizza. Non può farlo quella che etimologicamente è una “congregazione
di tutti i demoni”. Non può farlo una pittura che non ha nulla della tenerezza
(del con-sentimento) che non manca mai in Bruegel.
Una pittura violenta in tutto.
Nei colori, con quel verde e quel rosso che si prendono a cazzotti. Nel modo
con cui sono stesi; col pennello, con la spatola, forse anche con le dita.
Ensor precorre gli espressionisti, dicono i manuali. L’Espressionismo, come
l’Impressionismo, è antico quanto la pittura, viene da dire, ma che quella
furia sia la stessa che ritroveremo in Kokoschka è indubbio, come non è
difficile immaginare una di quelle maschere, rimasta sola, mettersi a
lanciare l’urlo dipinto da Munch.
Un’opera che anticipa la pittura
dei decenni successivi, compresa quella dei grandi muralisti messicani che
vi videro tanto un esempio di impegno sociale quanto un modello da seguire per
raccontare le proprie storie corali. E’ un capolavoro, dunque, L’entrata
di Cristo in Bruxelles, ma è anche un bel quadro? Se per bellezza si
intendono armonia e simmetria neoclassiche, certamente no. Se ricordiamo proprio
i versi dell’Ode su un urna greca di Keats, certo che sì. Assolutamente sì, se la verità è bellezza
e Ensor, rappresentando a quel modo la società della Bruxelles di allora,
capitale del Belgio colonialista dal “cuore di tenebra”, ci ha mostrato quella
che per lui era la pura verità.
Ci resta da rispondere sono
una domanda. Ma dov’è Cristo? È la, dietro alle bene ordinate
file di marionette in divisa che seguono il gagliardetto della “fanfara
dottrinaria”. Lo individua una grande aureola gialla, ma è pure l’unica figura
del dipinto non ridotta a caricatura. Esattamente come nel Cristo portacroce di
Bosch, è l’unico ad essere ancora perfettamente umano. L’ateo Ensor, ci dicono
le sue biografie, si identificava con quel Cristo: solo, isolato, perso in una
massa irriflessiva capace di crocifiggerlo con lo stesso entusiasmo con cui ne
sta accogliendo l’arrivo. Preferisco pensare che in groppa a quell’asinello ci
possa essere chiunque di noi. Chiunque non accetti la follia dei tempi e si
ostini a conservare l’uso della propria ragione a costo di essere emarginato.
Di essere considerato, nella migliore delle ipotesi, solo un povero Cristo.
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