domenica 10 dicembre 2017

FELICE CASORATI, L'ATTESA

Come se fosse un ritratto. Quasi lei si chiamasse Italia.


Felice Casorati, L'attesa. (1919)
Tempera su tela di cm 139,5 x 130.
Collezione privata


Una sera d’inverno, anche se per il calendario è ancora autunno. La pioggia che batte sui vetri. Il vento. Una lussuosa mezz’ora tutta per me. La tentazione di giocare all’esteta. John Coltrane, Giant's steps, “passi da gigante”. Vinile, e con qualche graffio, se no che gusto c’è? 


Un bicchierino di porto e tre o quattro noci. Un’abitudine inglese? Sì, degli inglesi di cent’anni fa. Me la concedo ogni tanto, sorridendo al ricordo di chi me l’ha passata: un esteta vero, nato nel 1915 o giù di lì. Un mio maestro. Poi un libro d’arte. Un’immagine da contemplare; da leggere davanti al caminetto. La prima idea è di tirare fuori una grande monografia su Bosh. Ho appena scritto qualcosa sul suo Cristo Portacroce, ma senza riguardare il quadro. Sono tentato di farlo. Solo tentato, però. Una settimana troppo pesante; di troppa fatica che temo sprecata. Non ho voglia di altra angoscia, anche se solo dipinta. Poco più avanti, sullo stesso scaffale, vedo un grosso volume. Mi è stato regalato da un’amica qualche Natale fa. E’ dedicato all’opera di Felice Casorati. Voglio lasciarmi dietro il mondo e le sue preoccupazioni? Chi meglio di lui, pittore trai i più sereni. Serenissimo, in particolare, nei primi anni venti. Controllato nella composizione, rigoroso nella distribuzione dei volumi e nella resa essenziale delle forme, offre allo spettatore uno spazio della ragione da cui è escluso il tragico. Dimostra freddezza? Rifiuta ogni eccesso; tutto quello che la pittura, anche buona, puo facilmente trasformare in melodramma. Afferma, per usare le sue parole di quegli anni, “la dolcezza di fissare sulla tela le anime estatiche e ferme, le cose immobili e mute, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi, la vita di gioia e non di vertigine, la vita di dolore e non di affanno”. È il Casorati che più amo. In lui ancora echeggia il simbolismo decorativo della Secessione viennese, che lo aveva molto colpito negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, ma ricondotto dentro a uno spazio pittorico, creazione logica e matematica oltre che formale, che davvero, come dicono gli informati, pare discendere da Piero e dalle sue ricerche. Se ci si deve recare Oltralpe, andare da Cezanne, per ritrovare in epoca moderna una simile attenzione ai volumi, al loro valore e ai loro rapporti, è italiano, toscano, l’amore per la linea che lo accomuna a Modigliani. Un’opinione mia, questa, e come tale del tutto criticabile. Sempre a Modigliani, però, mi fa pensare anche il suo raffinatissimo trattamento della superficie pittorica; quel suo dipingere stendendo i colori in strati sottili, con pennellate appena appoggiate, toccate. Volumi, linee e colori come quelli che compongono il quadro che ho deciso di ammirare, quando mi sprofondo con quel libro nel mio divano. Un’opera tra le più famose di Casorati. Per me, uno dei più bei ritratti della storia della nostra pittura: quello di Silvana Cenni.

Ritratto di Silvana Cenni (1922).
Tempera su tela di 200 x 100 cm.
Collezione privata.


Un’opera maestra, tutta fatta d’equilibri, a cominciare da quello cromatico di una tavolozza controllatissima, in cui lo spirito di Piero aleggia potente (banale indi-
care il paesaggio sullo sfondo e la sua relazione con la figura di Silvana) ma che pure, al mio occhio eretico, ricorda Hopper, i suoi silenzi e le sue attese. Lo stesso tempo rarefatto; “atemporale”, se si può dire così del tempo.
Il “Ritratto di Silvana Cenni” è un quadro del 1922. Casorati viveva a Torino, era diventato amico di Gobetti ed era entrato nel gruppo di “Rivoluzione Liberale”. L'anno quello seguente fu arrestato e convinto dal regime, con alcuni giorni di carcere, a lasciar perdere la politica. Politica (non ho detto partitica) che mi ha spinto, invece, a scegliere di bere il mio porto e di mangiare le mie noci osservando un altro quadro. Il titolo , “L’attesa”, dice molto. Casorati lo dipinse tra il ’18 ed il ’19, dopo essere stato congedato alla fine della Grande Guerra. Un’opera anche questa famosa, ma a cui non avevo mai dedicato più di un’occhiata. L’ho finalmente guardata come merita e mi è subito sembrata un altro ritratto. Quella, mi sono detto, è l’Italia. Forse quella di allora con lo spirito del fascismo che già si agitava; sicuramente quella di oggi.
Sì, certo, c’è ancora Piero in quell’immagine, e c’è il ricordo di Klimt, e c’è Cezanne nella natura morta su quel tavolo. Soprattutto in quel quadro c’è il tempo: la sensazione che quell’attesa possa durare un istante come pure un'e-ternità. Tutto è pronto, tutto è in ordine, eppure nulla accade.
Non c’è vera tensione, se non quella comunicata da quel punto di vista così alto, che pare faccia incombere sulla figura le piastrelle del pavimento, e dal riquadro scuro di quella porta aperta, là in cima a tutto, dalla quale qualcuno potrebbe entrare in qualunque momento. Non c’è dramma, tutto potrebbe andare normalmente, ma neppure c’è vera quiete. Non può concedersi un vero riposo l’elegante figura della protagonista. Sta seduta con gli occhi chiusi e il capo appoggiato a una spalla, ma con la schiena eretta. Arriveranno (ognuno pensi a chi vuole) e il silenzio finirà. Quell'ordine fatto di pochissimo, quasi di nulla, non ci sarà più. Italia lo sa. Forse lo teme, forse lo spera.

2 commenti:

  1. Peccato che sia copiato, con poche modifiche da un testo di Daniele di Schuler, del 2011...
    https://www.agoravox.it/Un-ritratto-dell-Italia-L-Attesa.html

    Andrea

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