Un’opera su cui meditare mentre, bussando alle porte d’Europa, tanti sono tornati a morire solo perché nelle mani hanno il passaporto sbagliato.
Felix Nussbaum, Autoritratto con passaporto ebraico, 1943
Olio su tela di 56 x 49 cm
Felix-Nussbaum-Haus, Osnabrück
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“Nussbaum”. Il cognome mi diceva qualcosa. Mi c’è voluto un momento per farmi
tornare alla mente la filosofa americana Martha Nussbaum, ma poi mi sono subito
ricordato del suo La fragilità del bene:
che la bontà umana non bastasse a difenderci da ogni pericolo, come sosteneva
lei, era lì da vedere, in quell’illustrazione che occupava tutta una pagina del
pesante libro che avevo tra le mani. “Nato a Osnabrück nel 1904”, recitava
ancora la didascalia. Anche al nome di quella località avevo associato dei
ricordi. Una città con un centinaio di migliaio di abitanti, forse un poco più
grande, in Bassa Sassonia. Non la conoscevo davvero, ci ero solo stato per
poche ore, per un appuntamento di lavoro. Ricordavo però una casa del centro,
con una targa: un Centro della pace
dedicato a Erich Maria Remarque, l’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale, che lì era nato o forse
aveva abitato. Di lui, Felix Nussbaum, di cui pure ero pur sicuro d’aver già
visto un qualche quadro, da una qualche parte, invece, non ricordavo proprio
nulla. Quel che sto per scrivervi, quel che ora so di lui e della sua storia,
oltre le poche righe che vi dedicava quel libro, è quanto ho trovato
nell’ultimo paio di settimane; il risultato di una ricerca che ho sentito
doveroso compiere, quando, dopo essermi sollevato gli occhiali sulla fronte e aver
avvicinato il naso alla carta (che volete; ormai anche la mezz’età è un ricordo)
ho scoperto, oltre al suo nome, cosa rappresentasse quel dipinto che avevo
osservato in modo tanto spassionato.
“Un bel quadro”, mi ero limitato fin lì a considerare, “proprio un bel
quadro”, certo dopo aver superato il disagio, non ho un termine migliore per
descriverlo, che mi aveva procurato il suo soggetto. D’altra parte si trattava
di un’opera di denuncia, mi ero pure detto, fatta apposta per inquietare. Il
suo autore? Non Otto Dix, non Georg Grosz, avevo ipotizzato, ma uno del loro
ambiente; un altro esponente della Nuova Oggettività. Un artista che doveva
essersene andato per tempo dalla Germania; che magari si era rifugiato in
America, proprio come Grosz, se aveva avuto il coraggio di realizzare un quadro
del genere. Qualcuno, a dire il vero, più vicino di loro al filone
“classicista” di quel movimento, figlio ribelle dell’Espressionismo, nato e
morto con la Repubblica di Weimar. Ecco; qualcuno più simile a Carlo Mense,
pittore tedesco che a Firenze, nel 1922, aveva addirittura esposto con il
gruppo sorto attorno alla rivista Valori
Plastici. Sì, nell’impostazione della figura c’era qualcosa che ricordava Rousseau,
il modo in cui era inquadrato il volto sembrava dovere a Van Gogh, ma vedevo
anche tanto d’italiano in quell’opera: tanto di De Chirico, nello sfondo; ancor
di più di Carrà, in quel modo di suggerire con l’olio gli effetti dell’affresco
e nella solidità giottesca dei volumi. Una
cosa, ad ogni modo, mi pareva chiara: con quella finezza di tocco e quelle
modulazioni di luce, doveva trattarsi dell’opera di un pittore colto, raffinato
e con una solida preparazione alle spalle.
Ora, dopo le letture di questi ultimi giorni, so che Nussbaum, figlio di un
eroe della Prima Guerra Mondiale, diventato uomo d’affari ma con la passione
per la pittura, già da giovanissimo aveva frequentato la Scuola d’arte applicata di Amburgo; solo l’inizio di una formazione
che aveva proseguito trasferendosi a Berlino, nel 1923, dove si era iscritto
alla Scuola d’arte Lewin Funcke, per
poi passare nel 1924 alle Scuole statali
unificate per l’arte libera e da lì, nel 1928, all’Accademia di Belle Arti. Ho anche scoperto che Nussbaum, durante
questo periodo berlinese, aveva frequentato uno dei maestri
dell’Espressionismo, Cesar Klein, che gli aveva fatto conoscere ed amare Van
Gogh; uno dei suoi costanti riferimenti, proprio assieme a Rousseau, di cui
aveva potuto vedere le opere durante un soggiorno in Francia, nel 1929. E De
Chirico e gli altri italiani? Davvero poteva averli in mente, Felix, mentre dipingeva
quel quadro? Certo che sì. Li conosceva bene; li aveva studiati, anzi, a Roma.
Nel 1932, infatti, dopo i successi delle sue prime mostre e mentre andava
avvicinandosi sempre più alla Nuova Oggettività, aveva vinto una borsa di
studio per un soggiorno di due anni presso l’Accademia tedesca di Villa Massimo.
Di che essere fiero di quelle mie, peraltro non troppo brillanti,
“intuizioni critiche”? No. Piuttosto ho provato un certo imbarazzo nello scoprire che, quella che non
avevo mai visto prima, era un’opera tanto famosa, perlomeno in Germania. Una
benedetta ignoranza, però, almeno per un verso: mi aveva permesso di
osservarla, ammirandone linee e pennellate, come se fosse stata un qualunque
altro quadro. Temo che non sarei riuscito a farlo, se avessi saputo di Felix e
del suo destino, eppure credo che questo, valutare la sua arte per com’è, sia
il minimo del rispetto che dobbiamo a qualcuno come lui; ad un pittore vero,
per vocazione, che non dipingeva certo per il mercato, per diletto o per consolazione,
ma, prima di tutto, nonostante tutto, perché gli restava un filo di vita e non
sapeva vivere che con i pennelli in mano.
Sì, Felix. Mi viene di chiamarlo solo con il nome, come fosse un amico,
dopo averne osservato tanto a lungo il volto scavato, fatto di poco più che di pelle
tesa sulle ossa. Questo, infatti, è il suo autoritratto. Deve averlo dipinto d’autunno:
quell’albero là dietro, che, a proposito d’italiani pare quasi una citazione di
Sironi, è appena stato potato. Anche l’atmosfera che lo permea è quella livida
che possono avere le giornate di novembre a Bruxelles; in quella che, dal 1937,
era diventata la sua città. Prima, aveva vissuto per un anno ad Ostenda; prima
ancora, da noi: ad Alassio e a Rapallo. A Roma? Si era trovato bene. Là si era anche
fatto raggiungere dal suo grande amore, Felka Platek, una pittrice polacca che aveva conosciuto alla
Scuola Funcke e avrebbe poi sposato
nel 1937. Una specie di luna di miele anticipata, la loro, che era però durato
solo un anno; nel 1933 Hitler era andato al potere e per Felix, borsa di studio
o no, a villa Massimo non c’era più stato posto. Né lì, né in Germania, dove
non era più un cittadino come gli altri; dove non aveva più gli stessi diritti
degli altri. Attorno a lui si era alzata una barriera tanto reale quanto quel
muro alto, grigio, morchioso e scrostato che vediamo alle sue spalle: non solo
uno sfondo, non la metafora del montaliano isolamento dell’artista, ma la
precisa rappresentazione di quella che era diventata la sua condizione ; di un’esclusione
che, in attesa di diventare altro e ancor più inumano, aveva colpito lui e
quelli che condividevano la sua colpa. Quale? Semplicemente quella di essere
ebrei.
Forse non è solo per citare uno dei
più celebri autoritratti di Vincent che si è dipinto con il cappello. Forse se
ne andava per la città con quello in testa e il bavero rialzato per non farsi
notare; per non farsi riconoscere da possibili delatori. In questo quadro,
però, non ci nasconde nulla. I simboli del suo stato, della sua riduzione a Homo Sacer, per citare Agamben, sono
anzi in primo piano e sono i punti di massima luminosità del dipinto: non
possiamo ignorarli. Dobbiamo confrontarci
col giallo di quella stella che porta cucita sul cappotto. Non possiamo
evitare, di leggere la doppia scritta (Juie,
in francese, e Jood in fiammingo) stampigliata
in caratteri rosso sangue sul bianco del documento che regge in una mano; anzi,
che ci esibisce. Un passaporto, questo riprodotto con tanta cura? E’ chiamato
così nel titolo del quadro, ma non merita questa definizione e neppure quella
di lasciapassare: non consente di andare da nessuna parte; non attesta una
libertà, me ne certifica la sua soppressione.
Felix ha dipinto un altro dettaglio con pazienza e meticolosità che
meritano d’essere definite, appunto, fiamminghe. Voleva lo vedessimo come
doveva osservarlo lui, riflesso nello specchio; voleva ci dicesse in che
inferno fosse costretto a passare i suoi giorni: mi riferisco al suo sguardo. Come
definirlo? Febbricitante, alienato o allucinato? La parola giusta, che include
tutte queste e altre ancora, è spaventato. Ha paura Felix, per sé e per Felka
che è lì con lui. Ha paura perché sono ebrei, è il 1943, vivono in una città
dell’Europa occupata dai nazisti e in qualunque momento potrebbero essere
mandati in un campo di concentramento.
Tanti, al
suo posto, se ne sarebbero stati in un cantuccio, paralizzati dal terrore. Altri avrebbero cercato rifugio nella
fantasia; avrebbero fatto di tutto pur di non pensare all’orrore che stavano
attraversando. Lui era un artista, e come tale fece arte del proprio mondo, per
quanto terribile. Non cercò di sfuggire alla propria angoscia, ma la
cristallizzò in quei due occhi che ancora ci guardano dalla tela; non si fece
bloccare dalla paura, ma le diede le forme e i colori di questo dipinto.
In quello
che resta un bel quadro, perché aveva talento e sapeva usare i pennelli. Proprio
un bel quadro da ammirare ancora, prima
di ricordare che lui e Felka, catturati nell’agosto 1944, nell’ultimo rastrellamento
avvenuto a Bruxelles prima della liberazione, finirono ad Auschwitz, dove
morirono di lì a poco. Un’opera su cui meditare mentre, bussando alle porte
d’Europa, tanti sono tornati a morire solo perché nelle mani hanno il
passaporto sbagliato.
P.S.
Se mai tornassi ad Osnabrück, non mancherei di visitare la Felix-Nussbaum-Haus:
il museo, progettato dall’architetto americano Daniel Libeskind e inaugurato
nel 1998, che la città ha eretto per onorare la memoria del pittore. Tra le
centosessanta opere di Nussbaum che vi sono raccolte, c’è anche questo suo
autoritratto.
Mi hai fatto tornare alla fine degli anni 70 quando facevo il gelatiere a Munster... lì vicino.
RispondiEliminaGrazie