Il volto dell’ultima Europa che meriti d’essere chiamata Classica
Il Bronzino, Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni (1545) Olio su tavola di 115 x 96 cm Galleria degli Uffizi, Firenze. |
dedicato alle regole cui deve attenersi la perfetta gentildonna; una creatura che deve avere, dunque, per massima dote la riservatezza e cui si chiede inoltre, come leggiamo poco più avanti, d’esser bella: “Perché in vero molto manca a quella donna a cui manca la bellezza”.
I torchi veneziani di Aldo Manuzio impressero la prima edizione a stampa dell’opera di Baldassarre Castiglione nel 1528, ma ancora nel 1585, Torquato Tasso la considerava riferimento ineludibile per il proprio Il Malpiglio, overo de la Corte, pertanto non credo sia arbitrario citarla, seppure in modo tanto frammentario, anche a proposito di un quadro, come questo, dipinto nel 1545. Quello, insomma, era il sistema di valori che la giovane donna che vi vediamo ritratta aveva dovuto far proprio; quella la società dentro cui quel bimbo stava crescendo e le cui esigenze l’artista doveva soddisfare, se voleva continuare a fare il proprio mestiere. Qualcosa di cui è bene tener conto prima di affettare giudizi e definire freddo o addirittura gelido questo dipinto, come può accadere a chi, ma la cosa è in una qualche misura inevitabile, non calibri la propria sensibilità neppure quando volga lo sguardo verso un tempo tanto lontano e diverso dal nostro.
Altri elementi per
misurare la distanza che ci separa da quell’epoca, sono proprio in quel
ritratto. Dobbiamo solo coglierli. Torniamo a guardare quella donna, così
composta, così rigida secondo molti. Che età viene spontaneo pensare avesse?
Che fosse almeno sulla trentina. Solo concentrandoci sul suo volto, arriviamo a
immaginare che potesse avere, come in effetti aveva, solo ventidue anni; un’età
che oggi associamo alla spensieratezza, se non alla sregolatezza: quella di una
ragazza che ancora deve finire l’università. Lei, invece, oltre ad essere
sposata a Cosimo I de’Medici da cinque anni, era madre già di quel bambino e di
almeno altri tre. E la sua espressione? Sembra impassibile. Solo prestando
molta attenzione notiamo che sulle sue labbra c’è un’idea di sorriso. Perché non
provava sentimenti profondi? Perché l’artista mancava di sensibilità? Non
scherziamo! Basta uno sguardo alle donne che ritrasse nella Discesa al Limbo per capire quanto fosse
abile nel rappresentare le più diverse sfumature psicologiche. No, lei se ne
sta così perché è Leonor Álvarez de Toledo y Osorio, figlia di Don Pedro
Álvarez de Toledo y Zuñiga, viceré di Napoli, e, nel rispetto della rigida
etichetta castigliana, è stata educata a non mostrare in pubblico il minimo
turbamento. E quello per cui sta posando, addobbata con qui gioielli, è un
ritratto che sarà pubblico; è un “immagine di stato”, destinata a rappresentare
il potere e la ricchezza, prima di tutto, di Cosimo che si sta avviando a
diventare Granduca di Toscana.
Anche suo figlio, in
fondo, è lì per dire di Cosimo; per mostrare come sia stato capace di generare
degli eredi. Maschi. Al plurale, perché sono almeno due i rampolli de’ Medici
che potrebbero aver posato per questa tavola: Francisco e Giovanni (e c’è chi
fa il nome di un terzo, Garcia, nato però solo nel 1547). Gli studiosi, ad ogni
modo, oggi concordano nel ritenere che si tratti del secondo. Io la penso come
loro, ma semplicemente perché mi fido del mio solito amico Vasari che, in
appendice alle Vite, negli Accademici del disegno, scrive dell’artista: “E
non andò molto che ritrasse, sì come piacque a lei, un’altra volta la detta
signora Duchessa, in vario modo dal primo, col signor don Giovanni suo
figliuolo appresso”. Artista
che, forse solo pochi mesi prima di completare questa tavola, aveva dipinto
Giovanni con un cardellino tra le mani e il volto illuminato da quella che, più
che un sorriso, è proprio una risata. E’ un piccolo quadro, dai colori caldi, sempre conservato agli Uffizi e
destinato, però, a una contemplazione privata; insomma, è quello che oggi sarebbe
un’istantanea per l’album di famiglia. Nulla a che vedere con questo ritratto
ufficiale. La mano che la madre gli appoggia a una spalla con misurato,
calcolato, affetto, è l’unica concessione alla sua età; per il resto, anche se
non ha più di tre anni, Giovanni se ne sta assolutamente composto: qui è il signor
Don Giovanni, appunto, e non può essere mostrato come un normale bambino.
Qualcosa di cui il
pittore di casa de’ Medici doveva tenere in conto. Dopo aver sottolineato i
limiti della sua libertà creativa e quanto v’è di necessariamente impersonale
nella sua opera, è anzi il momento di parlare di lui. Quando ha completato
questo dipinto, aveva da poco superato la quarantina (era nato nei pressi di
Firenze, a Monticelli, il 17 novembre 1503). Era di umili origini (il padre era
macellaio), ma, appena decenne, era riuscito a entrare nella bottega di un
pittore affermato come Raffaellino del Garbo. Lì, ad ogni modo, era rimasto
poco; solo il tempo di imparare i rudimenti del mestiere, prima di andare ad
affinarsi con Pontormo. Il suo nome?
Agnolo di Cosimo di Mariano, ma, forse per la sua carnagione o forse per
un riflesso dei capelli, tutti lo chiamavano il Bronzino. La ragione del soprannome,
ad ogni modo, è tra il poco di suo che non ci sia noto. Vasari che, con lui “aveva tenuta insieme stretta amicizia”,
ci racconta anche del suo carattere: “È
stato et è il Bronzino dolcissimo e molto cortese amico, di piacevole
conversazione, et in tutti i suoi affari è molto onorato; è stato liberale et
amorevole delle sue cose quanto più può essere un artefice e nobile come è
egli. È stato di natura quieto e non ha mai fatto ingiuria a niuno …”. Soprattutto narra come, grazie a queste doti, il
Bronzino fosse riuscito a conquistarsi la fiducia di Pontormo, per solito “co’
suoi più cari discepoli alquanto salvatico”, al punto da passare con il
maestro molti anni, durante i quali “prese tanto quella maniera et in guisa
immitò l’opere di colui, che elle sono state molte volte tolte l’une per
l’altre, così furono per un pezzo somiglianti”.
Se dopo aver letto questa frase considerassimo il
Bronzino un mero seguace, però, sbaglieremmo. Fu allievo di Pontormo, certo, ma
ne proseguì l’opera, specie proprio nei ritratti, con una sensibilità e delle
idee sue esclusive. Per convincercene non dobbiamo che tornare ad ammirare
questa tavola. Subito ci diciamo che pare dipinta da un manierista che abbia
dimenticato la Maniera: non c’è traccia dei colori squillanti del Pontormo della
Visitazione; non v’è una linea che
ricordi i corpi contorti della sua Deposizione.
Bronzino ci pare piuttosto l’erede, attraverso Pontormo, di una tradizione
pittorica ininterrotta che si radica nel cuore del Rinascimento. Una tradizione
rispetto alla quale questa sua Maniera appare un’evoluzione o innovazione, ma
certo non una rivoluzione o, peggio, una perversione. Leonora, per esempio, in
quella posa e con un riflesso d’acque alle spalle, ci fa venire alla mente La Gioconda. Un paragone azzardato? Non
troppo, ricordando che, secondo Vasari, il giovane Pontormo aveva più volte
incontrato Leonardo e che Andrea del Sarto, che su di lui esercitò una duratura
influenza, fu un grande studioso di Leonardo e del suo sfumato. La scultorea
volumetria della futura Duchessa, poi, ci fa addirittura pensare a esempi del
secolo precedente. Sarebbe piaciuta a Piero, mi dico, e forse ancora di più al
Paolo Uccello del Monumento a Giovanni
Acuto. Certo, la “conquista dello spazio” è ormai scontata, ma resta la
volontà di rappresentare il corpo in tutta la sua solidità; in tutta la sua gravità;
un obiettivo più in sintonia con quello che sarà il realismo barocco che con le
acrobazie tridimensionali di membra che siamo soliti associare alla Maniera. Un’attenzione
al mondo fisico che si fa spasmodica nella meticolosa resa dell’abito di
Leonora. Pare fosse il suo preferito. Nel 1857, dopo che nella sua tomba furono
rivenuti dei resti di stoffa bianca, si pensò addirittura fosse quello con cui
aveva scelto di essere sepolta. Un’ipotesi
romantica, come il clima in cui dev’essere stata formulata, poi smentita da
studi più accurati effettuati nell’immediato dopoguerra. Poco importa. Più
interessante sarebbe forse sapere se fu proprio Leonora a voler essere ritratta
indossandolo e perché. Davvero per fare pubblicità all’arte fiorentina della
seta? Il settore era in crisi e, secondo alcuni, Leonora, come una moderna first
lady, avrebbe cercato di aiutarlo mostrando come sapesse ancora produrre una
simile meraviglia. Un significato “politico, pare abbiano anche le melagrane
disegnate dai suoi fili d’oro che sarebbero un ulteriore simbolo della
fertilità dei nuovi signori di Firenze. Un messaggio che possiamo ignorare, ad
ogni modo, mentre ammiriamo come il Bronzino, attraverso successive velature d’impercettibili
pennellate, con una pazienza da orefice e una tecnica di diretta derivazione
fiamminga, abbia riprodotto quel broccato. Mentre restiamo a bocca aperta,
anzi, davanti a quell’incredibile brano pittorico; a quell’immagine talmente
forte che ci basta uno sguardo per portarla per sempre nella nostra memoria. Un’immagine,
riflettiamo poi, tanto potente che dovrebbe schiacciare il resto del dipinto.
Dovrebbe, ma non succede. La bilancia perfettamente il blu; quello straordinario,
indimenticabile, blu dello sfondo. Un colore che il Bronzino ha usato in altre
occasioni, ma che qui è insostituibile; unico possibile contrappunto al bianco,
al nero e all’oro di quell’abito sontuoso cui è visivamente raccordato, con
squisita sottigliezza, dal panno violetto che riveste Giovanni. Sì, nulla stona
in questo dipinto; tutto è stato meditato e calibrato.
“Consideri ben che cosa è quella che
egli fa (…) il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono”,
scrive ancora Baldassarre Castiglione, nel secondo libro della sua opera, per esortare
il cortigiano a tenera a bada i propri impulsi e a riflettere prima di agire. Con
il fine di raggiungere il massimo possibile equilibrio, questo ha fatto il
Bronzino sopra ad ognuno degli elementi che compongono questo doppio ritratto. Il
risultato? Se la coerenza formale è misura della grandezza di un’opera, come ci
insegnava Zeri, semplicemente un capolavoro. (Uso troppo
questa parola? Beh, se discorro delle mie opere preferite …). E il sereno volto
di Eleonora, dipinto dalla Ragione, immerso in un’atmosfera in cui ancora aleggia
il Rinascimento e dove pare già d’udire lontane le note del mio adorato Bach,
resta per me quello dell’ultima Europa che meriti d’essere chiamata Classica.
P.S. Eleonora,
Garzia e Giovanni, attraversando la Maremma in compagnia di Cosimo, contrassero
la malaria. Ne morirono tutti tre, nell’arco di un mese, sul finire del 1562. Garzia aveva solo quindici anni; Giovanni ne
aveva diciannove. Eleonora, verosimilmente già malata anche di tubercolosi,
aveva quarantatré anni e aveva messo al mondo undici figli. Era duro, vivere
nel tempo del Bronzino. Ed era durissimo per le donne, anche se ornate di perle
e rivestite di fili d’oro.
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