Oltre le nebbie del pregiudizio: i nomi del nero e la scoperta dell'arte africana.
Scultore Songye o Luba, Maschera Kifwebe. Fine XIX - inizio XX sec. Statua linea decorata con pigmenti alta 39,4 cm. Collezione privata. |
“Il sole batteva forte”, avrebbe
scritto poi di quel pomeriggio del 1905 ad Argenteuil. Lui si chiamava Maurice
Vlaminck, per vivere dava lezioni di violino, aveva pubblicato un paio di
romanzi semi-pornografici illustrati dal suo amico Derain, e dipingeva.
Lo
stava facendo anche lì, sotto quel sole, in riva alla Senna, e oggi ci
ricordiamo di lui, e lo consideriamo tra i capiscuola del Fauvismo, proprio per
i quadri realizzati in quel periodo. Dovrebbe esserci almeno altrettanto noto
per la scoperta che fece quando, stremato dal caldo, raccolse colori e pennelli
e se ne andò a cercare refrigerio. Una scoperta tanto importante da cambiare la
nostra visione del mondo, oltre che dell’arte, eppure tanto ovvia da sembrarci
impossibile sia avvenuta così tardi.
Per farcene una ragione, forse potremmo iniziare col riflettere su quanto,
invece, facciamo presto a dire nero. Presto perlomeno rispetto ai Romani che distinguevano
tra nero lucido, che chiamavano niger,
e nero opaco, che per loro era ater;
che usavano nomi tanto differenti per quelli che a loro dovevano sembrare due
colori molto diversi. Lo stesso facevano con quello che per noi è in genere solo
bianco, ma che per loro era albus se
opaco e candidus se brillante. Certo,
l’italiano, oltre a niger, conserva
anche le altre tre parole latine; noi però le usiamo in modo diverso.
Consideriamo candido e albino quasi dei sinonimi, non dei termini antitetici, e
lo stesso vale per nero e atro.
Che Giulio Cesare vedesse in modo tanto diverso da noi? Impossibile; non
sono neppure cento le generazioni che lo separano da noi. E’ però anche vero
che “ogni epoca rinnova gli occhi”,
come scriveva Max Friedländer; che in un dato momento, anche dentro una stessa
tradizione, può essere posta l’enfasi su qualcosa, come la diversa luminosità, cui
non è poi attribuita uguale rilevanza. Qualcosa di cui tenere conto, specie nel
considerare i prodotti di culture lontane. Proprio la distinzione tra lucido e
opaco, tra niger e ater, per tornare al nostro esempio, è debitamente
marcata anche da alcune lingue africane ed è ovvio che debba essere importante
per gli artisti che le parlano. Gli
scultori, in particolare, la tradurranno in un’opposizione tra liscio e ruvido
che per loro varrà quanto quella tra pieno e vuoto per un occidentale, ma che noi
non riusciremo a percepire in modo altrettanto drammatico. Questa difficoltà
nel cogliere le sottigliezze lessicali dei loro linguaggi artistici, non dovrebbe
però impedirci di apprezzare le opere di altre civiltà; di coglierne il
baudelairiano “elemento eterno”. Non
dovrebbe, se riuscissimo a levarci le pesanti lenti scure del pregiudizio; di considerazioni
che con l’arte non hanno nulla a che vedere, ma che ci hanno portato a negare anche
solo la possibilità dell’esistenza di pensieri estetici diversi dal nostro. Che
ci hanno fatto considerare altro, fatta di cianfrusaglie o poco più, in
particolare l’arte degli africani.
Tutto questo, fino a quando Maurice, tirandosi dietro il cavalletto, entrò
in un’osteria. Lì si fece servire un bicchiere di bianco e selz, scambiò
qualche parola con dei marinai che erano tra gli avventori, si guardò attorno e
su un tavolino notò tre sculture africane. “Due
statuette di Dahomey scarabocchiate d’ocra rossa, gialla e di bianco. Un’altra
della Costa d’Avorio, tutta nera”, precisa in Portraits avant décès, pubblicato nel 1943. Non erano le prime
statue africane che vedeva; in compagnia di Derain aveva visitato il Museo Etnografico, che da una trentina
d’anni aveva sede al Trocadéro e che
ospitava centinaia di opere simili. Sculture che però lui e l’amico avevano
guardato con curiosità, ma, ammette, in cui avevano riconosciuto solo “ciò che è convenzione chiamare feticci
barbari”. Idoli che visti “tra
bottiglie di pernod, d’anice e di curaçao” gli sembrarono, invece, altro. Neppure lui seppe darsene una ragione, se
attribuirlo alla ricerca pittorica cui si stava dedicando, a una particolare
disposizione del suo spirito o al gran caldo, ma per la prima volta, e primo
tra tutti, vide in quelle statue … delle statue. Sì, delle opere d’arte. Di un’arte che non poté poi evitare di
definire istintiva, ma che lo commosse “fin
nel più profondo”.
Vide qualcosa di vero e lo trovò bello, per parafrasare Keats, come trovo
bellissima e vera questa maschera: un’opera la cui lettura smentisce i luoghi
comuni che sopravvivono circa l’arte africana. Cominciamo proprio da quello che
la vorrebbe “istintiva”. Vlaminck, nel suo scritto questa parola (era pur
sempre figlio del suo tempo), ma cade in contraddizione. Poche righe prima ci
informa dei luoghi di provenienza di quelle statue. Come avrebbe potuto, se fossero
state scolpite d’istinto e non obbedendo a canoni specifici delle culture di
quelle aree? Canoni non scritti ma reali quanto le regole che governano una
lingua, anche quando nessuno si è preso la briga di compilarne una grammatica.
Canoni che permettono di datare questa maschera a cavallo tra Ottocento e Novecento
e di individuarne l’origine. I suoi volumi e alcuni dei suoi tratti sono tipici
delle sculture Luba; altri tratti e le incisioni superficiali sono caratteristici
dell’arte Songye: facile concludere che sia stata scolpita nel Congo, lungo il
corso del Lulaba che traccia il confine tra queste popolazioni.
Due popoli senza stati e senza storia, come tutti quelli africani? I Luba,
verso la fine dell’Ottocento erano ancora più di un milione e avevano un
proprio regno, fondato nel 1585 da re Kongolo e ingrandito da re Kalala Ilunga.
Uno stato che controllava la produzione di sale e di ferro, che aveva proprie
leggi e una propria fiscalità, e che il sovrano, che aveva il titolo di Mulopwe, amministrava con l’aiuto dei notabili
di corte, i Bamfumus, e attraverso dei
re locali chiamati Balopwe. I Songye,
originari della zona più meridionale del Congo e arrivati sulle rive del Lulaba
nel ‘500, si consideravano affini ai Luba (la tradizione vuole che re Kongolo
fosse un Songye). Erano divisi in numerosi clan, ma la maggior parte di loro
(circa 150.000), viveva in un regno retto dallo Yakintenge, feudatario del Mulopwe
dei Luba di cui era cerimonialmente fratello, con l’aiuto di governatori
chiamati Sultani Ya Muti. No, Luba e
Songye avevano eccome una storia e delle organizzazioni statali proprie, cosi
come avevano una propria arte e dei propri artisti.
Un’ arte, però, in qualche modo minore perché non “autotelica”; perché non
fatta solo per l’arte ma volta a realizzare oggetti dal significato “magico
rituale”. Presso i Songye, operava una società segreta, la Bwadi Bwa Kifwebe, che bilanciava il potere dei governatori locali.
Nel corso del rito di iniziazione, in particolare, i suoi danzatori indossavano
delle maschere chiamate, appunto, Kifwebe.
Ne esistevano due fondamentali varianti. Una, riconoscibile per l’alta cresta
in cui era raccolta la capigliatura, rappresentava dei personaggi maschili ed
era detta kilume. L’altra, più rara,
raffigurava dei personaggi femminili. La nostra maschera, con la sua acconciatura
piana, appartiene a questo secondo tipo detto kikashi. Risponde quindi a un’ iconografia ed era destinata a un
uso cerimoniale: ragioni sufficienti per ridurla ad artigianato, secondo i
fautori dell’arte per l’arte. A questi si
potrebbe opporre Leopold Senghor, che in Black
African Aesthetics bolla come eurocentrica l’intera teoria dell’arte per l’arte,
ricordando come nel suo continente l’arte sia sempre stata funzionale, oppure
ricordare loro L'opera d'arte nell'epoca
della sua riproducibilità tecnica, in cui Walter Benjamin definisce la
stessa idea come parte di “una teologia ”
incapace di cogliere le implicazioni sociali dell’arte. Forse Chinua Achebe,
che arriva a scrivere “l’arte per l’arte
è solo un altro stronzo di cane deodorato”, è eccessivo. Di certo, il
concetto non è per nulla alle radici dell’arte occidentale. E’ stato usato, nel
senso in cui ora è inteso, solo dall’ Ottocento (la tradizione vuole che il
primo a impiegarlo sia stato Théophile Gautier), per essere poi fatto proprio
dagli aderenti all’Estetismo ed essere reso popolare tra noi da D’Annunzio. Un’idea
forse ammirevole, come programma d’azione, ma che diventa idiota se ritenuta
chiave per interpretare la storia dell’arte. Una storia che si ridurrebbe, tra
l’altro a pochissimo. Fino all’arrivo dei colori in tubetto, tanto economici e
facili da usare, vale a dire all’altro ieri, nessuno, neppure da noi, ha mai
fatto l’arte per l’arte; nessuno ha mai dipinto o scolpito senza tenere conto
dei desideri della committenza, spesso assai stringenti, e senza doversi
attenere a modelli e iconografie ben precise.
Una considerazione che rende superfluo chiederci se l’anonimo autore della
nostra maschera fosse o no un artista: lo era, proprio come i suoi colleghi del
nostro Medioevo di cui pure, spesso, ignoriamo il nome. Artisti che come lui
appartenevano a una corporazione che conservava i segreti del loro mestiere (sì,
anche gli scultori di maschere ne avevano una) e che operavano dentro una
tradizione che pure, con la loro individuale sensibilità, andavano innovando.
Con il Rinascimento non nascono né l’arte né gli artisti; a Giotto e ai suoi
eredi sono stati semplicemente accordati uno status e una dignità intellettuale
nuovi. Un fenomeno sociale e culturale che, però, con l’arte in sé ha poco a
che vedere e ha impiegato secoli per diffondersi a tutta Europa. Ancora Dürer
lamentava d’essere considerato, in patria, una specie d’imbianchino. Oggi non
pensiamo che questo lo renda meno artista, come non dubitiamo che l’altare di
Isenheim sia un capolavoro solo perché i suoi contemporanei non hanno ritenuto
di doverci tramandare il nome di chi chiamiamo Grünewald.
Un capolavoro come riteniamo sia questa maschera. Uso il plurale perché
della mia opinione dev’essere chi, per averla, ha sborsato quasi mezzo milione
di dollari a un’asta di Sotheby’s. Non credo, d’altra parte, che si possa
dubitare della sua assoluta coerenza formale, tanto più notevole perché
risultato delle fusione di due stili diversi. Evidenti sono anche l’eleganza
delle sue linee, la suprema qualità della sua fattura e, soprattutto, il suo
perfetto equilibrio. Non intendo solo quel bilanciamento statico, visuale, che
tutti siamo in grado grossomodo di calcolare; parlo proprio di quell’ineffabile
equilibrio tra forza e leggerezza che è il Santo Graal della scultura e che
solo i grandi maestri, come quello che deve averla intagliata, sono in grado di
raggiungere.
Un apprezzamento, ad ogni modo, che forse non esprimerei, se Maurice, in
quell’osteria, dopo essersi commosso, non avesse insistito per comprare quelle tre statue che
fini per portarsi a casa. Fu l’inizio di una sua piccola collezione, che subito
si ingrandì grazie ad un amico che, costretto dalla moglie a sbarazzarsi di “quegli orrori”, gli regalò “una gran maschera bianca e due superbe
statue della Costa d’Avorio”. L’amico Derain gli fece visita, scoprì quella maschera,
se ne innamorò, lo convinse a vendergliela e subito la appese nel proprio
studio in rue Tourlaque a Montmartre. “Quando
Picasso e Matisse la videro da Derain”, così Vlaminck conclude questa parte
del suo racconto “essi pure ne furono
sconvolti. Cominciò da quel giorno la caccia all’arte negra”.
Solo due anni dopo, davanti ai volti arrivati dall’Africa delle Demoiselles d'Avignon, mentre il corso
della sua storia dell’arte cambiava per sempre, si sarebbe sconvolto anche il
resto dell’Occidente.
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