giovedì 17 settembre 2015

SCULTORE SONGYE O LUBA, MASCHERA KIFWEBE

Oltre le nebbie del pregiudizio: i nomi del nero e la scoperta dell'arte africana.


Scultore Songye o Luba, Maschera Kifwebe. Fine XIX - inizio XX sec.
Statua linea decorata con pigmenti alta 39,4 cm.
Collezione privata.

Il sole batteva forte”, avrebbe scritto poi di quel pomeriggio del 1905 ad Argenteuil. Lui si chiamava Maurice Vlaminck, per vivere dava lezioni di violino, aveva pubblicato un paio di romanzi semi-pornografici illustrati dal suo amico Derain, e dipingeva. 


Lo stava facendo anche lì, sotto quel sole, in riva alla Senna, e oggi ci ricordiamo di lui, e lo consideriamo tra i capiscuola del Fauvismo, proprio per i quadri realizzati in quel periodo. Dovrebbe esserci almeno altrettanto noto per la scoperta che fece quando, stremato dal caldo, raccolse colori e pennelli e se ne andò a cercare refrigerio. Una scoperta tanto importante da cambiare la nostra visione del mondo, oltre che dell’arte, eppure tanto ovvia da sembrarci impossibile sia avvenuta così tardi.

Per farcene una ragione, forse potremmo iniziare col riflettere su quanto, invece, facciamo presto a dire nero. Presto perlomeno rispetto ai Romani che distinguevano tra nero lucido, che chiamavano niger, e nero opaco, che per loro era ater; che usavano nomi tanto differenti per quelli che a loro dovevano sembrare due colori molto diversi. Lo stesso facevano con quello che per noi è in genere solo bianco, ma che per loro era albus se opaco e candidus se brillante. Certo, l’italiano, oltre a niger, conserva anche le altre tre parole latine; noi però le usiamo in modo diverso. Consideriamo candido e albino quasi dei sinonimi, non dei termini antitetici, e lo stesso vale per nero e atro.

Che Giulio Cesare vedesse in modo tanto diverso da noi? Impossibile; non sono neppure cento le generazioni che lo separano da noi. E’ però anche vero che “ogni epoca rinnova gli occhi”, come scriveva Max Friedländer; che in un dato momento, anche dentro una stessa tradizione, può essere posta l’enfasi su qualcosa, come la diversa luminosità, cui non è poi attribuita uguale rilevanza. Qualcosa di cui tenere conto, specie nel considerare i prodotti di culture lontane. Proprio la distinzione tra lucido e opaco, tra niger e ater, per tornare al nostro esempio, è debitamente marcata anche da alcune lingue africane ed è ovvio che debba essere importante per gli artisti che le parlano.  Gli scultori, in particolare, la tradurranno in un’opposizione tra liscio e ruvido che per loro varrà quanto quella tra pieno e vuoto per un occidentale, ma che noi non riusciremo a percepire in modo altrettanto drammatico. Questa difficoltà nel cogliere le sottigliezze lessicali dei loro linguaggi artistici, non dovrebbe però impedirci di apprezzare le opere di altre civiltà; di coglierne il baudelairiano “elemento eterno”. Non dovrebbe, se riuscissimo a levarci le pesanti lenti scure del pregiudizio; di considerazioni che con l’arte non hanno nulla a che vedere, ma che ci hanno portato a negare anche solo la possibilità dell’esistenza di pensieri estetici diversi dal nostro. Che ci hanno fatto considerare altro, fatta di cianfrusaglie o poco più, in particolare l’arte degli africani.

Tutto questo, fino a quando Maurice, tirandosi dietro il cavalletto, entrò in un’osteria. Lì si fece servire un bicchiere di bianco e selz, scambiò qualche parola con dei marinai che erano tra gli avventori, si guardò attorno e su un tavolino notò tre sculture africane. “Due statuette di Dahomey scarabocchiate d’ocra rossa, gialla e di bianco. Un’altra della Costa d’Avorio, tutta nera”, precisa in Portraits avant décès, pubblicato nel 1943. Non erano le prime statue africane che vedeva; in compagnia di Derain aveva visitato il Museo Etnografico, che da una trentina d’anni aveva sede al Trocadéro e che ospitava centinaia di opere simili. Sculture che però lui e l’amico avevano guardato con curiosità, ma, ammette, in cui avevano riconosciuto solo “ciò che è convenzione chiamare feticci barbari”. Idoli che visti “tra bottiglie di pernod, d’anice e di curaçao” gli sembrarono, invece, altro.  Neppure lui seppe darsene una ragione, se attribuirlo alla ricerca pittorica cui si stava dedicando, a una particolare disposizione del suo spirito o al gran caldo, ma per la prima volta, e primo tra tutti, vide in quelle statue … delle statue. Sì, delle opere d’arte.  Di un’arte che non poté poi evitare di definire istintiva, ma che lo commosse “fin nel più profondo”.

Vide qualcosa di vero e lo trovò bello, per parafrasare Keats, come trovo bellissima e vera questa maschera: un’opera la cui lettura smentisce i luoghi comuni che sopravvivono circa l’arte africana. Cominciamo proprio da quello che la vorrebbe “istintiva”. Vlaminck, nel suo scritto questa parola (era pur sempre figlio del suo tempo), ma cade in contraddizione. Poche righe prima ci informa dei luoghi di provenienza di quelle statue. Come avrebbe potuto, se fossero state scolpite d’istinto e non obbedendo a canoni specifici delle culture di quelle aree? Canoni non scritti ma reali quanto le regole che governano una lingua, anche quando nessuno si è preso la briga di compilarne una grammatica. Canoni che permettono di datare questa maschera a cavallo tra Ottocento e Novecento e di individuarne l’origine. I suoi volumi e alcuni dei suoi tratti sono tipici delle sculture Luba; altri tratti e le incisioni superficiali sono caratteristici dell’arte Songye: facile concludere che sia stata scolpita nel Congo, lungo il corso del Lulaba che traccia il confine tra queste popolazioni.

Due popoli senza stati e senza storia, come tutti quelli africani? I Luba, verso la fine dell’Ottocento erano ancora più di un milione e avevano un proprio regno, fondato nel 1585 da re Kongolo e ingrandito da re Kalala Ilunga. Uno stato che controllava la produzione di sale e di ferro, che aveva proprie leggi e una propria fiscalità, e che il sovrano, che aveva il titolo di Mulopwe, amministrava con l’aiuto dei notabili di corte, i Bamfumus, e attraverso dei re locali chiamati Balopwe. I Songye, originari della zona più meridionale del Congo e arrivati sulle rive del Lulaba nel ‘500, si consideravano affini ai Luba (la tradizione vuole che re Kongolo fosse un Songye). Erano divisi in numerosi clan, ma la maggior parte di loro (circa 150.000), viveva in un regno retto dallo Yakintenge, feudatario del Mulopwe dei Luba di cui era cerimonialmente fratello, con l’aiuto di governatori chiamati Sultani Ya Muti. No, Luba e Songye avevano eccome una storia e delle organizzazioni statali proprie, cosi come avevano una propria arte e dei propri artisti.

Un’ arte, però, in qualche modo minore perché non “autotelica”; perché non fatta solo per l’arte ma volta a realizzare oggetti dal significato “magico rituale”. Presso i Songye, operava una società segreta, la Bwadi Bwa Kifwebe, che bilanciava il potere dei governatori locali. Nel corso del rito di iniziazione, in particolare, i suoi danzatori indossavano delle maschere chiamate, appunto, Kifwebe. Ne esistevano due fondamentali varianti. Una, riconoscibile per l’alta cresta in cui era raccolta la capigliatura, rappresentava dei personaggi maschili ed era detta kilume. L’altra, più rara, raffigurava dei personaggi femminili. La nostra maschera, con la sua acconciatura piana, appartiene a questo secondo tipo detto kikashi. Risponde quindi a un’ iconografia ed era destinata a un uso cerimoniale: ragioni sufficienti per ridurla ad artigianato, secondo i fautori dell’arte per l’arte.  A questi si potrebbe opporre Leopold Senghor, che in Black African Aesthetics bolla come eurocentrica l’intera teoria dell’arte per l’arte, ricordando come nel suo continente l’arte sia sempre stata funzionale, oppure ricordare loro L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui Walter Benjamin definisce la stessa idea come parte di “una teologia ” incapace di cogliere le implicazioni sociali dell’arte. Forse Chinua Achebe, che arriva a scrivere “l’arte per l’arte è solo un altro stronzo di cane deodorato”, è eccessivo. Di certo, il concetto non è per nulla alle radici dell’arte occidentale. E’ stato usato, nel senso in cui ora è inteso, solo dall’ Ottocento (la tradizione vuole che il primo a impiegarlo sia stato Théophile Gautier), per essere poi fatto proprio dagli aderenti all’Estetismo ed essere reso popolare tra noi da D’Annunzio. Un’idea forse ammirevole, come programma d’azione, ma che diventa idiota se ritenuta chiave per interpretare la storia dell’arte. Una storia che si ridurrebbe, tra l’altro a pochissimo. Fino all’arrivo dei colori in tubetto, tanto economici e facili da usare, vale a dire all’altro ieri, nessuno, neppure da noi, ha mai fatto l’arte per l’arte; nessuno ha mai dipinto o scolpito senza tenere conto dei desideri della committenza, spesso assai stringenti, e senza doversi attenere a modelli e iconografie ben precise.

Una considerazione che rende superfluo chiederci se l’anonimo autore della nostra maschera fosse o no un artista: lo era, proprio come i suoi colleghi del nostro Medioevo di cui pure, spesso, ignoriamo il nome. Artisti che come lui appartenevano a una corporazione che conservava i segreti del loro mestiere (sì, anche gli scultori di maschere ne avevano una) e che operavano dentro una tradizione che pure, con la loro individuale sensibilità, andavano innovando. Con il Rinascimento non nascono né l’arte né gli artisti; a Giotto e ai suoi eredi sono stati semplicemente accordati uno status e una dignità intellettuale nuovi. Un fenomeno sociale e culturale che, però, con l’arte in sé ha poco a che vedere e ha impiegato secoli per diffondersi a tutta Europa. Ancora Dürer lamentava d’essere considerato, in patria, una specie d’imbianchino. Oggi non pensiamo che questo lo renda meno artista, come non dubitiamo che l’altare di Isenheim sia un capolavoro solo perché i suoi contemporanei non hanno ritenuto di doverci tramandare il nome di chi chiamiamo Grünewald.

Un capolavoro come riteniamo sia questa maschera. Uso il plurale perché della mia opinione dev’essere chi, per averla, ha sborsato quasi mezzo milione di dollari a un’asta di Sotheby’s. Non credo, d’altra parte, che si possa dubitare della sua assoluta coerenza formale, tanto più notevole perché risultato delle fusione di due stili diversi. Evidenti sono anche l’eleganza delle sue linee, la suprema qualità della sua fattura e, soprattutto, il suo perfetto equilibrio. Non intendo solo quel bilanciamento statico, visuale, che tutti siamo in grado grossomodo di calcolare; parlo proprio di quell’ineffabile equilibrio tra forza e leggerezza che è il Santo Graal della scultura e che solo i grandi maestri, come quello che deve averla intagliata, sono in grado di raggiungere.

Un apprezzamento, ad ogni modo, che forse non esprimerei, se Maurice, in quell’osteria, dopo essersi commosso, non avesse  insistito per comprare quelle tre statue che fini per portarsi a casa. Fu l’inizio di una sua piccola collezione, che subito si ingrandì grazie ad un amico che,  costretto dalla moglie a sbarazzarsi di “quegli orrori”, gli regalò “una gran maschera bianca e due superbe statue della Costa d’Avorio”. L’amico  Derain gli fece visita, scoprì quella maschera, se ne innamorò, lo convinse a vendergliela e subito la appese nel proprio studio in rue Tourlaque a Montmartre. “Quando Picasso e Matisse la videro da Derain”, così Vlaminck conclude questa parte del suo racconto “essi pure ne furono sconvolti. Cominciò da quel giorno la caccia all’arte negra”.

Solo due anni dopo, davanti ai volti arrivati dall’Africa delle Demoiselles d'Avignon, mentre il corso della sua storia dell’arte cambiava per sempre, si sarebbe sconvolto anche il resto dell’Occidente.

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